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BUON GOVERNO CONTRO BUONA RIVOLUZIONE |
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di Giampaolo Calchi Novati
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Se Mugabe non avesse indurito il suo regime fino a diventare un dittatore, basterebbe l’aureola di «padre della nazione» per assicurargli un trionfo nelle elezioni. Se su Tsvangirai non gravasse il sospetto di essere l’intermediario interessato degli agrari bianchi, sarebbe il candidato naturale a succedere al vecchio presidente ricostruendo con gli aiuti giusti l’economia e la società di Zimbabwe. Purtroppo, i due rivali che si contendono il potere a Harare da una decina d’anni sono vittime delle loro rispettive profezie che si autorealizzano. Devono delegittimarsi senza risparmiarsi nulla. La sola concessione fatta balenare da Tsvangirai a Mugabe era un’uscita di scena «onorevole» senza minacce di incriminazioni e senza vendette. Devono alzare i toni di una competizione che non mima la guerra ma è una guerra condotta con i mezzi della politica. È così che il leader dell’opposizione, già convinto di essere stato privato della vittoria nel primo turno del 29 marzo, alla vigilia del ballottaggio ha rovesciato il tavolo dichiarando impraticabile la via della legalità.
Il «tanto peggio» di Mugabe è la distruzione dell’avversario: i raid nelle sedi del Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), l’intimidazione dei suoi militanti, i ripetuti arresti dello stesso Tsvangirai. Il «tanto meglio» di Morgan Tsvangirai è un intervento dell’Unione africana o delle Nazioni unite e persino un colpo di stato che gli consenta a tempo debito di sfidare un candidato diverso nelle elezioni della normalizzazione. Nella situazione in cui è caduto Zimbabwe fra sabotaggi interni e internazionali, un esodo di profughi tanto massiccio da destabilizzare il vicino Sudafrica, anatemi di mezzo mondo come se le contraddizioni dei processi di transizione in paesi segnati dai divari di origine coloniale come la Rhodesia-Zimbabwe si risolvessero con la semplificazione del «mostro» da sbattere in prima pagina, i margini di manovra sono strettissimi per l’una e per l’altra parte. È inutile evocare o rimpiangere i tempi andati, la Rhodesia dell’autosufficienza e del ricco export al servizio del benessere, perché è chiaro che i mali di oggi sono i figli naturali di quella presunta «età dell’oro».
L’autoritarismo è di casa nella politica di Zimbabwe dall’indipendenza, sia pure con diversi dosaggi di aperture e forzature. Robert Mugabe l’ha praticato a fini personali e come scorciatoia per la riforma dello Stato. L’ha applicato agli assetti istituzionali offrendo ai rivali la scelta fra la cooptazione nel partito unico o la repressione e la sparizione. L’ha utilizzato per recuperare almeno in parte i beni dei coloni, l’altra posta del conflitto insieme all’esercizio del potere. Questo sistema ha funzionato finché non si è imbattuto negli effetti del collasso della produzione e dei servizi essenziali mentre si affinavano in Africa e nel mondo le sensibilità democratiche. La distribuzione delle terre doveva soddisfare le attese dei contadini ma ha aggravato lo status generale dell’economia. Il serbatoio di consenso per il governo nelle campagne si è andato erodendo. Ormai l’ultima parola spetta alla città e ai ceti medi tentati dalla globalizzazione: un altro pianeta rispetto al mondo rurale retrocesso al livello della sussistenza. Il Mdc non ha niente che lo accomuni alla Zapu, il partito di Nkomo che ha condiviso con la Zanu di Mugabe le peripezie della lotta di liberazione e una cultura politica in fondo compiacente per una forma di governo poco rispettosa del diritto. Tsvangirai ha proiettato il suo Movimento per il cambiamento democratico nel clima post-coloniale e post-razzista contando sul fatto che la fase «eroica» è finita, lontana dai ricordi e dai cuori della maggioranza della popolazione. Il buon governo ha messo fuori mercato la buona rivoluzione. Anche in Africa la prospettiva di un sacrificio per costruire un futuro migliore non appassiona più. Soprattutto se, come accaduto in Zimbabwe, le pressioni delle forze esterne hanno oggettivamente contribuito al fallimento del regime lasciando intendere che si potrà risalire la china solo accettando condizioni dal suono ambiguo di una «restaurazione».
La lezione a Mugabe sarà anche un atto dovuto e doveroso, ma quando la lezione è impartita con finto sussiego dalla medesima cattedra che benedice Musharraf e che chiude entrambi gli occhi davanti all’invasione e occupazione etiopica della Somalia, solo per fare due esempi diversi dal solito Israele, non pecca solo di incongruenza ma si diventa inefficaci e persino controproducenti. L’unica responsabilità di cui le potenze internazionali si sentono investite è di «intervenire», con le armi o senz’armi, senza mai valutare come e quanto le emergenze negli stati della periferia, compresi i misfatti e gli abusi dei governi locali, siano la conseguenza diretta o indiretta della loro politica, delle proprie inadempienze o, peggio, della routine del dominio e della disuguaglianza.
Ora la decisione potrebbe passare all’Unione africana e prima ancora alla Sadc, l’organizzazione regionale per l’Africa australe. I rapporti fra capi di stato sono importanti in Africa. Se non vuole ridursi al rango di «paria», Mugabe è obbligato a tener conto del verdetto dei suoi «pari»: lo spostamento fra i suoi critici dei presidenti dell’Angola e del Mozambico può fare la differenza. Centrale resta il ruolo del Sudafrica, che sembra pronto a gestire la crisi con meno reticenze del passato. Thabo Mbeki, il presidente in carica, si è logorato in una mediazione estenuante con poco successo. La sua linea, attestata sulla ricerca di un governo di unità nazionale tipo Costa d’Avorio o Kenya, si è rivelata inattuale. Jacob Zuma, il suo antagonista dentro l’African National Congress, ha rinunciato a spalleggiare il populismo di Mugabe prendendo le parti dell’opposizione. Dopo il passo falso del rifugio nell’ambasciata olandese di Harare, che ha gettato un’altra ombra sul livello effettivo della sua leadership, Morgan Tsvangirai ha detto che il negoziato non è interrotto purché dalla parte del regime vengano le opportune garanzie, cominciando da un rinvio del voto previsto per il 27 giugno. Dal governo si è risposto che se si è votato in Iraq si può votare anche in Zimbabwe, dove non c’è la guerra. Se non si vuole che in tanta violenza fisica e verbale il vincitore, quale che sia, risulti poco credibile, un compromesso che coinvolga i due schieramenti, gli apparati, l’esercito, alla fine sarà inevitabile. Per il momento, tuttavia, i segnali vanno piuttosto nel senso di uno showdown secondo il solito schema del «vincere o morire».de Il Manifesto
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