L armadio della vergogna 2
 







di Franco Giustolisi




Può sembrare incredibile, ma si tratta di una verità fuori discussione: esiste un secondo armadio della vergogna. Come qualcuno ricorderà, e per coloro che non lo hanno mai saputo, il primo armadio conteneva i fascicoli dei massacri commessi dai nazisti e dai fascisti, tra l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945, ai danni della popolazione del nostro paese. Civili disarmati, non partigiani: bambini, donne, vecchi. Decine di migliaia di vittime, cui si aggiunsero i nostri militari trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca, come a Cefalonia. Ma non solo. Un numero enorme che nessuno ha sentito l’elementare dovere civico di elencare e che, per ora, è inquantificabile anche perché, oltre ai fascicoli contenuti in quel maledetto armadio, ce ne sono tanti altri, per lo meno una dozzina. E sapete dove sta questo secondo armadio? Ma sempre lì, nel cinquecentesco palazzo Cesi, in via degli Acquasparta, a Roma, dove ha gli uffici la Procura generale militare e ammennicoli vari. E proprio all’angolo di quel palazzo, luogo dei più efferati silenzi dovuti alle ragion di Stato - non si perseguirono quei crimini perché la Germania un tempo nemica, era divenuta alleata e doveva far da sentinella e da bastione contro l’Unione Sovietica - esiste il ricordo suggestivo e romantico di un’antichissima palazzina, cui la credenza popolare ha deciso essere di donna Fiammetta, la femmina gentile cui Boccaccio dedicò un’elegia sotto forma di romanzo. Ma questa è l’Italia d’oggi, tutta un contrasto.
Giustizia negata
Ora non so se il secondo armadio sia anch’esso con le ante rivolte verso il muro, chiuso in un sottoscala, protetto da un cancello di ferro, come l’altro. Anzi non so neanche se quei fascicoli siano in un armadio, in una cassapanca o nei cassetti di qualche voluminosa scrivania. Ma esiste. La scoperta la si deve al procuratore militare di Padova Sergio Dini, lo stesso la cui richiesta di chiarimenti,
insieme a una mia indagine giornalistica iniziata nel 1996, portarono all’inchiesta del Consiglio della magistratura militare (Cmm), che stabilì: è stato il potere politico ad imporre ai magistrati militari, allora soggetti alle varie sfere governative, il silenzio della giustizia, della storia, della memoria. Dini, il 18 marzo di quest’anno, ha scritto al Cmm, di cui è componente, la lettera che riproduco testualmente: «Il sottoscritto consigliere Sergio Dini, premesso che autorevoli fonti storiografiche nonché recenti inchieste giornalistiche hanno riconfermato che nel corso del secondo conflitto mondiale truppe italiane si sarebbero rese responsabili di veri e propri crimini di guerra (in particolare uccisione di ostaggi, eccidi di civili estranei alle operazioni, saccheggi ed incendi di interi villaggi) soprattutto sul teatro di guerra Greco Albanese e su quello Jugoslavo (tanto in Slovenia che in Montenegro), richiede a codesto onorevole Cmm di accertare quanto segue: a. se nel corso del dopoguerra siano stati celebrati processi o comunque intraprese indagini sulle vicende in discorso; b. nel caso che ciò non risulti (come in effetti consta allo scrivente), per quali ragioni ciò non sia mai avvenuto nonostante la inequivoca esistenza di vere e proprie notizie di reato al riguardo risalenti già alla seconda metà degli anni quaranta; c. per quali ragioni non abbiano avuto esiti processuali le risultanze della commissione di inchiesta nominata con D.M. 6 maggio 1946 (cosiddetta Commissione Gasparotto) che pure aveva individuato una serie di elementi e di nominativi sui quali si sarebbe ben potuta instaurare proficua attività processuale.
Ciò anche al fine di individuare possibili profili di responsabilità in capo ad appartenenti all’ordine giudiziario militare, o di chiarire l’esistenza di eventuali ragioni (estranee alla responsabilità della Magistratura Militare) in ordine a questo macroscopico caso di denegata giustizia».
Fascicoli
«riservati»
Ora, pur con tutta la stima che ho per il suddetto, non tenderei ad escludere che oltre alle fonti storiografiche ci sia di mezzo anche qualche benedetta gola profonda. Ma questo non cambia i termini della questione perché alcuni ed importanti segnali sono già arrivati. Al Cmm si è detto, infatti, che delle carte sono già state ritrovate, anche se si tratta, per ora, di documentazione di assai relativa importanza, perché, per quanto riguarda il grosso dei fascicoli, ci si è dovuti fermare davanti ai timbri «segreto» o «riservato» apposti su ogni pagina. Come si accertò, a suo tempo per il carteggio dei ministri Martino e Taviani che nel 1956 decisero di bloccare l’inchiesta sugli assassini di Cefalonia. Allora, quando il Cmm condusse l’indagine sul ritrovamento di quei fascicoli, ci vollero ben tre anni di continue, reiterate e pressanti sollecitazioni per arrivare alla desecretazione. Chissà quanti ce ne vorranno oggi con il mefistofelico La Russa, ministro della Difesa, che dovrà vedersela con le storie dei militari italiani, i comandanti specialmente, intendo, che obbedendo agli ordini di Mussolini, compirono in Grecia, Albania, Jugoslavia, Unione Sovietica, azioni meritorie del titolo di campioni del mondo, primi, addirittura rispetto ai nazisti e alle SS.
Altro che italiani brava gente. Basti ricordare che le circolari del generale Roatta, nei Balcani, che ordinava di ripagare «testa per dente», e del generale Geloso che in Grecia imponeva di dare fuoco ai villaggi da cui partivano gli attentati e di fucilare senza tanti distinguo gli ostaggi che capitavano a tiro. In fondo, tanto per riequilibrare i fatti, le disposizioni che imponevano ai nazisti la fucilazione di dieci ostaggi per ogni tedesco ucciso, impartite dal «povero» maresciallo Albert Kesserling, comandante supremo per il Mediterraneo, in nome di Hitler, erano state formulate nel 1943. Quindi, constata Sergio Dini, erano assai successive rispetto a quelle dei suoi
colleghi italiani, che si erano ammantati del diritto di vita e di morte sin dal 1941.
La commissione Gasparotto
Un passo indietro, anzi molti passi indietro, andiamo agli anni ’45-46. C’è prima, a liberazione avvenuta, il governo presieduto da Ferruccio Parri che da subito fa iniziare le inchieste per accertare le carneficine che nazisti e fascisti hanno compiuto. C’è la decisa volontà di perseguire i colpevoli, e in questa direzione si muove il procuratore generale militare di allora Umberto Borsari. Ma nasce un altro problema: quel che gli invasori italiani hanno commesso nei teatri di guerra aperti dal fascismo alla ricerca di nuove terre, che poi, come si sa, non verranno mai conquistate, anzi ne perderemo parecchie di quelle che già avevamo. Ma questo è un altro discorso. Per capire e valutare bene le accuse che vengono rivolte ai militari italiani - c’era una lista di oltre ottocento personaggi di cui veniva richiesta l’estradizione - viene nominata una
commissione d’inchiesta. A presiederla fu chiamato Luigi Gasparotto, già ministro della guerra in epoca prefascista, esponente della democrazia del Lavoro, successivamente, dopo la caduta del fascismo, più volte ministro, lui dovrà valutare l’operato di coloro che erano stati denunciati dai paesi invasi dai due gran marescialli dell’impero, Vittorio Emanuele e il suo duce. Presidente del Consiglio è Alcide De Gasperi, di quel governo fanno parte anche comunisti e socialisti, un classico centro sinistra, insomma.
Gasparotto, il cui figlio Leopoldo era stato assassinato insieme ad altri 71 poveri cristi, da fascisti e nazisti nel lager di Fossoli, nei pressi di Carpi, si mette al lavoro. Oltre a Roatta e Geloso deve esaminare il comportamento del generale Robotti, quello che sbraitava con i suoi uomini «qui se ne uccidono troppo pochi»; del generale Gambara che spiegava ai sottoposti «campo di concentramento non significa campo di ingrassamento»; del generale Pirzio Biroli che in
Etiopia, come ricorda Alessandra Kersevan, nel suo libro sui lager italiani, faceva buttare nel lago Tana i capi tribù con una pietra legata al collo. E ancora, altri generali: Magaldi, Caruso, Sorrentino, Piazzoni, Baistrocchi... Ma anche molti ufficiali di grado inferiore che andavano proclamando: «quelli», che fossero sloveni, greci, albanesi, eccetera, andavano «uccisi senza pietà». C’erano, poi, gli alti funzionari civili, non meno abietti dei loro colleghi in divisa, come Bastianini, Giunta, Grazioli... Gasparotto si mise al lavoro: interrogò, acquisì documentazione, fece confronti.
Intorno alla fine del 1947 e i primi mesi dell’anno successivo aveva terminato il suo lavoro. Dei tanti casi che aveva esaminato risultò che in poco meno di un’ottantina le accuse risultavano provate. Ma, intanto, il governo aveva cambiato fisionomia: c’era sempre De Gasperi, con al fianco il fido Andreotti, ma comunisti e socialisti non erano più nella maggioranza. Quindi la destra, come accade
oggi, aveva tutti i poteri e così nascose le stragi commesse in Italia dai nazifascisti e quelle perpetrate da Roatta e compagni in giro per l’Europa.
Un affare privato
Appena un anno o due dopo, siamo tra il ’48 e il ’49, un giudice istruttore militare, avendo evidentemente annusato quell’aria di lassismo e di perdonismo, ebbe l’impudenza di scrivere in una sentenza: «...non procediamo contro i nostri perché gli jugoslavi non procedono contro i loro...». A proposito del divo Giulio, val la pena di sottolineare che, interrogato in Commissione parlamentare - quella che avrebbe dovuto dirci chi, come, quando e perché decise l’armadio della vergogna numero 1 - riferendosi al carteggio Martino-Taviani, che bloccò l’inchiesta sugli assassini di Cefalonia, ha avuto il coraggio di dire che si trattava di un affare «privato». Testuale: «privato». E il centro destra di oggi, parlo della Commissione, se n’è servito, come il centro destra di ieri, per cercare di
cancellare quel che gli scottava e gli scotta.
Franco Giustolisi
Può sembrare incredibile, ma si tratta di una verità fuori discussione: esiste un secondo armadio della vergogna. Come qualcuno ricorderà, e per coloro che non lo hanno mai saputo, il primo armadio conteneva i fascicoli dei massacri commessi dai nazisti e dai fascisti, tra l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945, ai danni della popolazione del nostro paese. Civili disarmati, non partigiani: bambini, donne, vecchi. Decine di migliaia di vittime, cui si aggiunsero i nostri militari trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca, come a Cefalonia. Ma non solo. Un numero enorme che nessuno ha sentito l’elementare dovere civico di elencare e che, per ora, è inquantificabile anche perché, oltre ai fascicoli contenuti in quel maledetto armadio, ce ne sono tanti altri, per lo meno una dozzina. E sapete dove sta questo secondo armadio? Ma sempre lì, nel cinquecentesco palazzo Cesi, in via degli
Acquasparta, a Roma, dove ha gli uffici la Procura generale militare e ammennicoli vari. E proprio all’angolo di quel palazzo, luogo dei più efferati silenzi dovuti alle ragion di Stato - non si perseguirono quei crimini perché la Germania un tempo nemica, era divenuta alleata e doveva far da sentinella e da bastione contro l’Unione Sovietica - esiste il ricordo suggestivo e romantico di un’antichissima palazzina, cui la credenza popolare ha deciso essere di donna Fiammetta, la femmina gentile cui Boccaccio dedicò un’elegia sotto forma di romanzo. Ma questa è l’Italia d’oggi, tutta un contrasto.
Giustizia negata
Ora non so se il secondo armadio sia anch’esso con le ante rivolte verso il muro, chiuso in un sottoscala, protetto da un cancello di ferro, come l’altro. Anzi non so neanche se quei fascicoli siano in un armadio, in una cassapanca o nei cassetti di qualche voluminosa scrivania. Ma esiste. La scoperta la si deve al procuratore militare di Padova Sergio
Dini, lo stesso la cui richiesta di chiarimenti, insieme a una mia indagine giornalistica iniziata nel 1996, portarono all’inchiesta del Consiglio della magistratura militare (Cmm), che stabilì: è stato il potere politico ad imporre ai magistrati militari, allora soggetti alle varie sfere governative, il silenzio della giustizia, della storia, della memoria. Dini, il 18 marzo di quest’anno, ha scritto al Cmm, di cui è componente, la lettera che riproduco testualmente: «Il sottoscritto consigliere Sergio Dini, premesso che autorevoli fonti storiografiche nonché recenti inchieste giornalistiche hanno riconfermato che nel corso del secondo conflitto mondiale truppe italiane si sarebbero rese responsabili di veri e propri crimini di guerra (in particolare uccisione di ostaggi, eccidi di civili estranei alle operazioni, saccheggi ed incendi di interi villaggi) soprattutto sul teatro di guerra Greco Albanese e su quello Jugoslavo (tanto in Slovenia che in Montenegro), richiede a codesto onorevole Cmm di accertare quanto segue: a. se nel corso del dopoguerra siano stati celebrati processi o comunque intraprese indagini sulle vicende in discorso; b. nel caso che ciò non risulti (come in effetti consta allo scrivente), per quali ragioni ciò non sia mai avvenuto nonostante la inequivoca esistenza di vere e proprie notizie di reato al riguardo risalenti già alla seconda metà degli anni quaranta; c. per quali ragioni non abbiano avuto esiti processuali le risultanze della commissione di inchiesta nominata con D.M. 6 maggio 1946 (cosiddetta Commissione Gasparotto) che pure aveva individuato una serie di elementi e di nominativi sui quali si sarebbe ben potuta instaurare proficua attività processuale.
Ciò anche al fine di individuare possibili profili di responsabilità in capo ad appartenenti all’ordine giudiziario militare, o di chiarire l’esistenza di eventuali ragioni (estranee alla responsabilità della Magistratura Militare) in ordine a questo macroscopico caso di
denegata giustizia».
Fascicoli «riservati»
Ora, pur con tutta la stima che ho per il suddetto, non tenderei ad escludere che oltre alle fonti storiografiche ci sia di mezzo anche qualche benedetta gola profonda. Ma questo non cambia i termini della questione perché alcuni ed importanti segnali sono già arrivati. Al Cmm si è detto, infatti, che delle carte sono già state ritrovate, anche se si tratta, per ora, di documentazione di assai relativa importanza, perché, per quanto riguarda il grosso dei fascicoli, ci si è dovuti fermare davanti ai timbri «segreto» o «riservato» apposti su ogni pagina. Come si accertò, a suo tempo per il carteggio dei ministri Martino e Taviani che nel 1956 decisero di bloccare l’inchiesta sugli assassini di Cefalonia. Allora, quando il Cmm condusse l’indagine sul ritrovamento di quei fascicoli, ci vollero ben tre anni di continue, reiterate e pressanti sollecitazioni per arrivare alla desecretazione. Chissà quanti ce ne vorranno oggi
con il mefistofelico La Russa, ministro della Difesa, che dovrà vedersela con le storie dei militari italiani, i comandanti specialmente, intendo, che obbedendo agli ordini di Mussolini, compirono in Grecia, Albania, Jugoslavia, Unione Sovietica, azioni meritorie del titolo di campioni del mondo, primi, addirittura rispetto ai nazisti e alle SS.
Altro che italiani brava gente. Basti ricordare che le circolari del generale Roatta, nei Balcani, che ordinava di ripagare «testa per dente», e del generale Geloso che in Grecia imponeva di dare fuoco ai villaggi da cui partivano gli attentati e di fucilare senza tanti distinguo gli ostaggi che capitavano a tiro. In fondo, tanto per riequilibrare i fatti, le disposizioni che imponevano ai nazisti la fucilazione di dieci ostaggi per ogni tedesco ucciso, impartite dal «povero» maresciallo Albert Kesserling, comandante supremo per il Mediterraneo, in nome di Hitler, erano state formulate nel 1943. Quindi, constata Sergio Dini, erano assai
successive rispetto a quelle dei suoi colleghi italiani, che si erano ammantati del diritto di vita e di morte sin dal 1941.
La commissione Gasparotto
Un passo indietro, anzi molti passi indietro, andiamo agli anni ’45-46. C’è prima, a liberazione avvenuta, il governo presieduto da Ferruccio Parri che da subito fa iniziare le inchieste per accertare le carneficine che nazisti e fascisti hanno compiuto. C’è la decisa volontà di perseguire i colpevoli, e in questa direzione si muove il procuratore generale militare di allora Umberto Borsari. Ma nasce un altro problema: quel che gli invasori italiani hanno commesso nei teatri di guerra aperti dal fascismo alla ricerca di nuove terre, che poi, come si sa, non verranno mai conquistate, anzi ne perderemo parecchie di quelle che già avevamo. Ma questo è un altro discorso. Per capire e valutare bene le accuse che vengono rivolte ai militari italiani - c’era una lista di oltre ottocento personaggi di cui veniva
richiesta l’estradizione - viene nominata una commissione d’inchiesta. A presiederla fu chiamato Luigi Gasparotto, già ministro della guerra in epoca prefascista, esponente della democrazia del Lavoro, successivamente, dopo la caduta del fascismo, più volte ministro, lui dovrà valutare l’operato di coloro che erano stati denunciati dai paesi invasi dai due gran marescialli dell’impero, Vittorio Emanuele e il suo duce. Presidente del Consiglio è Alcide De Gasperi, di quel governo fanno parte anche comunisti e socialisti, un classico centro sinistra, insomma.
Gasparotto, il cui figlio Leopoldo era stato assassinato insieme ad altri 71 poveri cristi, da fascisti e nazisti nel lager di Fossoli, nei pressi di Carpi, si mette al lavoro. Oltre a Roatta e Geloso deve esaminare il comportamento del generale Robotti, quello che sbraitava con i suoi uomini «qui se ne uccidono troppo pochi»; del generale Gambara che spiegava ai sottoposti «campo di concentramento non significa campo di
ingrassamento»; del generale Pirzio Biroli che in Etiopia, come ricorda Alessandra Kersevan, nel suo libro sui lager italiani, faceva buttare nel lago Tana i capi tribù con una pietra legata al collo. E ancora, altri generali: Magaldi, Caruso, Sorrentino, Piazzoni, Baistrocchi... Ma anche molti ufficiali di grado inferiore che andavano proclamando: «quelli», che fossero sloveni, greci, albanesi, eccetera, andavano «uccisi senza pietà». C’erano, poi, gli alti funzionari civili, non meno abietti dei loro colleghi in divisa, come Bastianini, Giunta, Grazioli... Gasparotto si mise al lavoro: interrogò, acquisì documentazione, fece confronti.
Intorno alla fine del 1947 e i primi mesi dell’anno successivo aveva terminato il suo lavoro. Dei tanti casi che aveva esaminato risultò che in poco meno di un’ottantina le accuse risultavano provate. Ma, intanto, il governo aveva cambiato fisionomia: c’era sempre De Gasperi, con al fianco il fido Andreotti, ma comunisti e socialisti non erano più
nella maggioranza. Quindi la destra, come accade oggi, aveva tutti i poteri e così nascose le stragi commesse in Italia dai nazifascisti e quelle perpetrate da Roatta e compagni in giro per l’Europa.
Un affare privato
Appena un anno o due dopo, siamo tra il ’48 e il ’49, un giudice istruttore militare, avendo evidentemente annusato quell’aria di lassismo e di perdonismo, ebbe l’impudenza di scrivere in una sentenza: «...non procediamo contro i nostri perché gli jugoslavi non procedono contro i loro...». A proposito del divo Giulio, val la pena di sottolineare che, interrogato in Commissione parlamentare - quella che avrebbe dovuto dirci chi, come, quando e perché decise l’armadio della vergogna numero 1 - riferendosi al carteggio Martino-Taviani, che bloccò l’inchiesta sugli assassini di Cefalonia, ha avuto il coraggio di dire che si trattava di un affare «privato». Testuale: «privato». E il centro destra di oggi, parlo della Commissione, se n’è servito, come
il centro destra di ieri, per cercare di cancellare quel che gli scottava e gli scotta.de Il Manifesto