Il Capitale nel XXI secolo
 











Il libro “Il Capitale nel XXI secolo” dell’economista francese Thomas Piketty, uscito in America in aprile, richiama nel titolo il lavoro di Karl Marx, ma quello che scrive Piketty non è semplicemente una rivalutazione dell’ideologia marxista o della lotta di classe, ormai improponibili nella loro originale stesura, è proprio una analisi economica ponderata e corredata da dozzine di tabelle a dimostrare l’anomalia denunciata, e cioè, in estrema sintesi, che il ventunesimo secolo appena cominciato somiglia molto più al lontano diciannovesimo secolo che al ventesimo da poco concluso.
Ovviamente questa accusa non si riferisce al progresso tecnologico, che prosegue indisturbato, e nemmeno a quello politico, dato che il successo delle democrazie nel ventesimo secolo, non è messo seriamente in discussione da nessuno, almeno per ora, come sistema di governo dei popoli.
Quello che pero fa somigliare sempre di più il 21° secolo al 19° è la mancanza di
mobilità sociale, cioè la possibilità, per chi non nasce ricco, di diventarlo grazie alle opportunità offerte da un sistema democratico-meritocratico che premia i migliori talenti.
Piketty dice in sostanza che la grande crescita economica registrata nel ventesimo secolo dagli Stati Uniti e da alcuni paesi europei e asiatici, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, è avvenuta perché il sistema economico liberale e capitalista sostenuto da americani e inglesi ha avuto il sopravvento sul sistema statalista e marxista sostenuto dal modello sovietico. Ma dice anche che l’ideologia sociale marxista, ancorché classista e benché in definitiva perdente (soprattutto a causa del suo totalitarismo), ha però consentito, con la sua presenza e il suo influsso su buona parte del XX secolo, di moderare le negatività proprie del sistema capitalista, troppo sbilanciate, in generale, verso un’egoistica ricerca di un profitto personale senza limiti.
Come nel libero mercato è stato quindi il
confronto aperto tra i due massimi sistemi economici a consentire il formarsi nel ventesimo secolo, soprattutto nelle economie occidentali vincitrici del confronto, di un sistema economico socialmente equilibrato, dove le tutele previste per le classi meno abbienti, insieme agli incentivi previsti dal sistema meritocratico, hanno consentito una diffusa mobilità sociale dal basso verso l’alto, sbloccando in buona misura il secolare sistema dei privilegi classisti che hanno dominato le popolazioni nei secoli precedenti.
A partire però dalla fine degli anni 80, con la caduta del regime comunista sovietico e l’avvento della politica economica conservatrice reaganiana, definita propagandisticamente “nuova gilden age” (epoca dorata), che ha potuto affermarsi anche grazie a molti efficaci slogans (come quello tuttora usato che dice “i problemi non sono dello Stato, è lo stato stesso a essere il problema (con lo “sperpero” di denaro pubblico e la tassazione e mortificazione dell’iniziativa
privata), ha cominciato a riprendere forma una politica sociale sempre più squilibrata a favore delle classi al top della scala sociale.
In un suo recente commento sul New York Times il premio Nobel Krugman dice che proprio questo è il punto che rende il libro di Piketty diverso dalle denunce sulla disuguaglianza fatte già da diversi altri economisti. Dice Krugman: “Ciò che è nuovo e dirompente in “Capital in the XXI century” è l’agilità con la quale Piketty demolisce i principali “miti” dei conservatori americani. La loro insistenza che noi viviamo in un sistema meritocratico nel quale la grande ricchezza ce l’ha chi ha saputo guadagnarsela e meritarsela”.
Ma se, come abbiamo visto sopra, ciò poteva, almeno in buona misura, essere vero nel XX secolo, ora palesemente non lo è più. A partire dagli anni 90, grazie ad una politica di sviluppo che ha continuato a favorire sempre più sfacciatamente le categorie benestanti della società, sia nei governi a guida conservatrice che in
quelli a guida progressista, nella società americana (ma più in generale in tutta la società occidentale) si è intensificata la tendenza a somigliare sempre più alla tipica società oligarchica del diciannovesimo secolo, dove la ricchezza e il potere venivano tramandati di padre in figlio per il semplice effetto dell’eredità, senza, o comunque con pochissima incidenza, del merito individuale.
Ma Mr. Pethokoukis, dell’American Enterprise Institute, avverte la pericolosità del libro di Piketty “capace di deviare il percorso nel quale le future politiche economiche devono essere condotte” e lo sconsiglia alla lettura, perché potrebbe incitare alla “lotta di classe” o, come fa l’ex senatore e candidato presidente Santorum, nega l’esistenza di problematiche reddituali sulla classe media, perché questo è il solito rituale linguaggio marxista, e come tale va inquadrato.
Certo, risponde a distanza Krugman in modo sarcastico, “Il Capitale di Piketty puo’ essere definito filo-marxista, ma
solo se il semplice menzionare le disuguaglianze è sufficiente a definire qualcuno un marxista. Del resto, si sa che in America non esistono classi! ”.
Il Wall Street Journal si spinge persino oltre, e definisce la proposta di Piketty di tassare le grandi ricchezze a livello globale come assimilabile a puro stalinismo.
E Christopher Whalen su Breitbart rincara la dose, dicendo che Piketty, prima di denunciare le pecche del capitalismo americano, dovrebbe guardare in casa propria e vedere quale livello di eguaglianza offre ai propri cittadini il socialismo di Hollande. Secondo lui la concentrazione di ricchezza in Francia, ma è così anche in Germania, Italia, Olanda, è persino più forte che negli Usa. E conclude dicendo che la proposta di tassare le ricchezze non sul piano reddituale ma su quello patrimoniale non è nemmeno marxismo ma è leninismo puro.
Peccato si sia dimenticato di citare il fatto che l’Europa, nel suo insieme, è da almeno vent’anni guidata da politiche
prevalentemente di destra, e negli ultimi cinque anni (cioè nell’epicentro della sua crisi) tale guida non è stata solo “prevalente”, ma, di fatto “totalmente” di destra. Quindi propone la solita “medicina” dei conservatori: abbassare le tasse, (soprattutto ai ricchi che già le eludono o le evadono al massimo delle loro possibilità) e diminuire gli sprechi e il debito dello Stato. Cioè quello che ha fatto alla perfezione Bush2 nei suoi otto anni di presidenza, col risultato che è ancora sotto i nostri occhi.
Se questa è la prospettiva dei conservatori non si capisce perché il famoso 99%, cioè quella parte di popolazione che non ha il privilegio di stare nell’1% straricco, dovrebbe opporsi a una tassa patrimoniale operante a livello globale sulle grandi ricchezze e capace di avviare con quell’introito una maggiore equità e giustizia sociale capace di premiare con la meritocrazia chi non ha la fortuna di nascere ricco. Roberto Marchesi