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Poste, Caio alla prova della quotazione: non svendere la società |
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I conti li ha fatti il vice ministro dell’Economia, Enrico Morando nella sua audizione in Parlamento. Dalla quotazione del 30-40% delle Poste, il Tesoro si aspetta di ricavare 4 miliardi di euro per una valorizzazione complessiva della società di 10 miliardi. L’operazione dovrebbe servire per ridurre il debito italiano, ma parlare di “riduzione” di fronte a una montagna di 2.100 miliardi di esposizione può suonare stonato. Piuttosto la vendita delle quote porterà definitivamente fuori del perimetro dello Stato una buona fetta del capitale della società e dei dividendi che il gruppo incasserà nei prossimi anni. Perché farlo visto che i benefici finanziari sono nulli? Lo stesso Morando ha parlato di una operazione a costo zero: il Tesoro perderà 120 milioni di dividendi, ma contestualmente pagherà 120 milioni in meno di interessi. Qualche altro spicciolo verrà compensato tra ritenute minori e maggiori. Il vero senso della quotazione in Borsa non si capisce e lo potrebbe spiegare il nuovo amministratore delegato, Francesco Caio, nominato oggi ufficialmente ad dal suo board, il cui primo compito sarà di convincere i risparmiatori ad acquistare il titolo. La società è stata per anni un parcheggio di assunzioni per la politica e la sua gestione ne ha subìto le conseguenze. Una sua razionalizzazione ha senso, ma mettere sul mercato una società che ha tra i suoi principali obiettivi quello di garantire un servizio universale è sempre rischioso. Accade spesso che “in nome del mercato” si giustifichi ogni taglio possibile di costi, come quello di un postino costretto a raggiungere un lontano paesino di montagna. Il precedente è illustre. Dopo meno di sei mesi dalla quotazione, la Royal Mail, il servizio postale inglese, ha annunciato un piano di tagli del personale da 1.600 lavoratori. “Dobbiamo farlo per essere competitivi sul mercato: è il miglior modo per garantire servizi universali e buoni salari ai nostri dipendenti", si è giustificata la direttrice generale del gruppo Moya Greene, promettendo di licenziare solo quadri e dirigenti e di bloccare il turnover. Di certo uno dei salari da tutelare è il suo, perché incassa un fisso da 498mila sterline che può raddoppiare se riesce a raggiungere gli obiettivi del piano di sviluppo, che ovviamente comprende anche i tagli del personale. L’ex amministratore delegato di Poste Italiane, Massimo Sarmi, aveva uno stipendio di 1,5 milioni di euro, quasi triplo rispetto a quello della sua collega e solo per questo non avrebbe bisogno di altri bonus. La differenza di paga potrebbe essere giustificata dalle dimensioni del gruppo: Poste italiane fattura 26 miliardi contro i 9,2 miliardi di sterline della Royal Mail (11 miliardi di euro). La speranza è che Francesco Caio, con l’arrivo in Borsa del gruppo, non chieda un adeguamento del suo stipendio a quello degli altri manager di Stato di società quotate: Scaroni all’Eni prendeva oltre 6 milioni di euro l’anno. Poi il governo Renzi ha stretto le maglie e in occasione dell’ultima tornata di nomine ha posto il limite di 238mila euro per i presidenti, "auspicando che si imponga come best practice". Il nuovo numero uno, per meritarsi uno stipendio superiore a quello della Greene, dovrebbe quantomeno far meglio in sede di quotazione. In quell’occasione, sia lei che lo Stato inglese hanno fallito. Secondo gli analisti finanziari, hanno svenduto la società. Pur avendo collocato i titoli al massimo della forchetta prevista (330 pence l’uno), non appena sono arrivati in Borsa le azioni hanno registrato un rialzo vorticoso. Nel primo giorno di quotazione le Royal Mail sono salite del 38% e oggi valgono oltre 500 sterline. Un affare per chi ha comprato, ma non per chi ha venduto. Dalle 600 milioni di azioni cedute, lo Stato ha incassato 1,98 miliardi di sterline. Alle valutazioni attuali, già ipotizzate dagli analisti ai tempi del lancio, il governo di Sua Maestà avrebbe incassato oltre 3 miliardi di sterline.Walter Galbiati,repubblica |
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