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Una proposta: titoli pubblici per pagare i debiti della PA
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Negli ultimi anni si sono esasperati tre fenomeni che stanno determinando una scarsità di moneta nell’economia reale strozzandone le possibilità di espansione. 1. Crescita degli acquisti di titoli pubblici da parte delle banche Il portafoglio Bot, Cct, Btp e Ctz è salito a 391 miliardi di euro. I Bot ammontano a 37 miliardi, i Ctz a 44 miliardi, i Cct a 62 miliardi e i Btp a 248 miliardi di euro. 2. Contrazione dei prestiti bancari a famiglie e imprese Le Banche stanno usando la liquidità per comprare titoli pubblici mentre riducono i prestiti a famiglie e imprese ostacolando la ripresa economica e compromettendo la qualità degli attivi. Nel 2013 il credito bancario si è ridotto di circa 60 miliardi di euro mentre le sofferenze sono arrivate a 160 miliardi di euro. 3. Ritardo dei pagamenti della PA alle imprese Con l’eventuale pagamento di tutti i debiti accumulati in questi ultimi anni dalla Pubblica amministrazione, che oscillano tra 68 miliardi per il Governo Renzi e 100 miliardi di euro per la Cgia di Mestre, l’Erario vedrebbe aumentare il gettito dell’Iva di circa 5/8,5 miliardi. Per pagare i debiti accumulati in questi ultimi anni, ricorda la Cgia, i precedenti esecutivi hanno messo a disposizione dello Stato e delle Amministrazioni locali 27 miliardi per il 2013 e altri 19,8 miliardi per il 2014. Per quanto concerne le risorse assegnate per il 2013, non sono stati ancora pagati 4,4 miliardi. Pertanto, nell’anno in corso il totale è di 24,2 miliardi (4,4+19,8). Di conseguenza, per pagare i 68 miliardi promessi dal premier Renzi, è necessario stanziare altri 43,8 miliardi. Nell’ipotesi in cui il governo Renzi pagasse l’importo stimato dalla Cgia, pari a 100 miliardi, per l’anno in corso sarebbe necessario uno stanziamento di 75,8 miliardi di euro. E’ una cifra colossale che non si capisce da dove possa provenire. Per il pagamento di tali debiti il Presidente della Cassa Depositi e Prestiti Bassanini ha ipotizzato di trasferire i crediti dalle imprese alle banche. Bassanini indica due tappe: la prima, relativa al pagamento dei debiti della PA di parte corrente – la fetta più grande, già contabilizzata nel deficit e quindi nella soglia del 3% – «può avvenire prima di luglio perché saranno le banche ad acquistare questi crediti garantiti dallo Stato». Qui dovrebbe intervenire il meccanismo messo a punto nel Ddl ancora in bozza che delinea un ruolo di ultima istanza della Cdp che potrà eventualmente acquisire dalle banche i crediti ceduti dalle aziende. Per la parte in conto capitale, il discorso è diverso perché impatta sul deficit e dunque «occorre trovare – aggiunge Bassanini – una copertura». I debiti di parte corrente dunque possono essere pagati rapidamente mettendo la garanzia dello Stato su questi debiti man mano che vengono certificati dalla PA. A quel punto le banche sono disponibili a comprarli, anche senza sconto o con uno sconto minimo, perché questi debiti garantiti dallo Stato hanno ponderazione zero, cioè non comportano assorbimenti di capitali – spiega Bassanini – quindi le banche li comprano e pagano le imprese che risolvono il loro problema di liquidità”. “Dopodichè – prosegue Bassanini – le PA diventano debitrici delle banche e procedono a ristrutturare il debito, cioè a concordare con le banche che pagheranno in un certo numero di anni in modo da avere tempo per trovare i soldi per fare questi pagamenti”. Se qualche amministrazione ha difficoltà di pagamento la banca può cedere il suo credito alla Cdp, che e’ già la grande finanziatrice delle P.A., e questa puo’ prevedere un ulteriore prolungamento del debito della P.A. con le garanzie speciali che la Cdp ha sempre nei confronti delle P.A.”. Dunque, l’intervento di Cdp sarà «sussidiario ed eventuale: in caso di sofferenze tra banche e Pa la cassa rileverà i crediti e li ristrutturerà in un arco di 10-15 anni». Ma le banche sono disposte ad impiegare la liquidità in un progetto del genere? Per superare questo ostacolo le banche dovrebbero pagare le imprese con titoli pubblici che verrebbero usati come strumenti di pagamento, cioè come moneta complementare Le banche dovrebbero comprare dalle imprese il credito che queste vantano nei confronti della PA pagando le imprese con titoli di Stato che altrimenti rimarrebbero immobilizzati nei loro portafogli. Così le banche diventano creditrici nei confronti dello Stato mentre le imprese ottengono titoli pubblici che dovrebbero funzionare come strumenti di pagamento. L’idea è quella di utilizzare i titoli (specialmente quelli a breve scadenza come BOT e CTZ) non come riserva di valore ma come moneta complementare che circoli nel sistema economico. La possibilità che i titoli pubblici possano essere utilizzati negli scambi e negli investimenti sostituendo la moneta non sembra che sia stata compresa appieno sul piano teorico; sul piano pratico invece si era capito molto bene visto che con i titoli pubblici si pagavano anche le tangenti. Per attuare una strategia di questo tipo sarebbe importante – per quanto possibile – trasformare il debito estero in debito interno per avere un maggior controllo sul valore dei titoli pubblici. In questo modo si potrebbe stabilizzare il valore dei titoli sfuggendo alla “dittatura dei mercati finanziari”. Infatti, se i titoli pubblici sono detenuti da soggetti esteri, costoro, nel momento in cui il rischio Italia dovesse peggiorare, potrebbero essere indotti a venderne grandi quantità in tempi brevi. In tal caso, i titoli si svaluterebbero intaccando la possibilità di utilizzarli come strumenti di pagamento sul mercato interno. Inoltre, nel momento in cui i titoli sono accumulati all’estero, essi sono sottratti alla circolazione e di conseguenza perdono la loro funzione monetaria. Allora, si potrebbe pensare di nazionalizzare una parte consistente dei Bot per evitare le operazioni speculative da parte delle banche d’affari. Quindi bisognerebbe costruire un sistema di compensazione fra imprese per far funzionare i Bot non come riserva di valore ma come moneta complementare che circoli nel sistema economico. In una tale strategia la Banca d’Italia dovrebbe avere un ruolo di stabilizzatore e di garante del valore di titoli. Questa proposta ha delle similitudini con ciò che avvenne in Germania tra il 1933 e il 1936 quando si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, anche più significativo del tanto celebrato “New Deal” di F.D. Roosevelt. Tale miracolo fu promosso dal Ministro dell’Economia e Presidente della Banca Centrale del Reich, Hjalmar Schacht, il quale escogitò un meccanismo monetario non inflazionistico in grado di fornire i capitali all’industria tedesca. Schacht, lanciò le obbligazioni MEFO le quali venivano approvate da una compagnia statale inesistente nella realtà, la Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H (“Società per la ricerca in campo metallurgico”), creata dal Terzo Reich per finanziare la ripresa economica tedesca e, nel contempo, il riarmo, aggirando i limiti e le imposizioni del Trattato di Versailles. “MEFO” era dunque l’acronimo riferito a una scatola vuota, di cui la Banca Centrale del Reich era l’unico azionista, in nome della quale si emisero siffatte obbligazioni senza gravare sul bilancio pubblico. Alcuni osservarono che non si trattò ne’ di un finanziamento monetario del Tesoro, ne’ di un immediato aumento del debito pubblico, però, lo Stato e la Reichsbank ebbero un ruolo determinante perché autorizzarono le emissioni e diedero la garanzia. Con queste promesse di pagamento spendibili come il denaro ma unicamente entro i confini nazionali, gli imprenditori pagavano i fornitori. In teoria, questi ultimi potevano scontarle presso la Reichsbank in ogni momento e qui stava il rischio, infatti, se le imprese avessero portato all’incasso massicciamente e rapidamente le obbligazioni MEFO, ci sarebbe stato un aumento esplosivo del circolante e dunque dell’inflazione. Ma questo fenomeno non avvenne nel Terzo Reich: gli industriali tedeschi si servirono degli effetti MEFO come mezzo di pagamento fra loro senza mai convertirli in moneta corrente. Schacht, che venne lodato da Keynes, si ispirò al precedente storico statunitense costituito dalla Guerra di secessione, quando sul finire del 1862 il governo nordista si trovò ad aver necessità della cifra colossale di 449 milioni di dollari (equivalenti a circa 39 miliardi di dollari del 2011). Le banche americane chiesero un interesse del 30 % su quella cifra in quanto la guerra rendeva elevato il rischio d’insolvenza dello Stato. Allora il presidente Abhram Lincoln ricorse al potere conferitogli dall’articolo primo della Costituzione americana ovvero stampare cambiali di prestito (“Greenback”) che il popolo sovrano può concedere al proprio governo (vale a dire a se stesso) senza pagare interessi di sorta e coperto non da riserva aurea, ma unicamente dalla forza lavoro del popolo medesimo. Le banconote stampate dallo Stato permisero di finanziare le spese militari dell’esercito nordista che nel giro di un paio di anni riuscì a prevalere sulla confederazione sudista. Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini |
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