Dalle banche ai partiti, ecco chi sono i nemici di Matteo Renzi
 











Non è ancora una preoccupazione, ci mancherebbe, per un ottimista come il premier significherebbe tradire il dna, soprattutto a ormai quattro settimane dal voto per le elezioni europee. Né a intimorire l’ex sindaco sono gli avversari, i soliti «gufi» o «rosiconi», come il capo del governo usa definire i critici delle mosse governative, in modo assai poco istituzionale. «Ma negli ultimi giorni qualcosa è cambiato», ammette Matteo Renzi. Che sfodera di nuovo l’arma da fine del mondo: «Non resto qui a tutti i costi. Sono pronto ad andare a casa». Un clima da fine luna di miele, non tanto con l’opinione pubblica, punto di forza di tutta la strategia renziana (il livello di gradimento sia pure in flessione continua a restare molto elevato), ma con i poteri forti e diffusi che all’inizio dell’anno hanno puntato su un cambio di marcia (e di inquilino) a Palazzo Chigi. E che cominciano a presentare le prime insoddisfazioni o delusioni, in parallelo con alcuni leader di partito e spezzoni di forze politiche.
Banche, industriali, giornali. Boiardi di Stato e grand commis. Associazioni di categoria. La minoranza del Pd e la maggioranza di Forza Italia. Un groviglio di interessi che punta a seminare dubbi sulla perfetta macchina propagandistica del governo, se non a bloccare, a rallentare la marcia del premier. Un fronte della resistenza, variegato, che accomuna le critiche giuste e fondate alla strenua difesa della ditta, della lobby, del particolare. Il premier procede ad alta velocità, il movimento No-Renzi, finora sussurrato, si sta organizzando. È in crescita, non ha dichiarato guerra aperta perché indebolito e frammentato, ma si è messo in azione costringendo il premier alle prime retromarce. Ed è molto trasversale.
Sul decreto sul mercato del lavoro firmato dal ministro Giuliano Poletti, per esempio, la Cgil ha alzato la barricata, senza portare a casa grandi modifiche. In una riunione con Cesare Damiano, ex sindacalista
della Fiom, esponente di peso della minoranza Pd e presidente della Commissione Lavoro la sinistra del partito aveva chiesto al premier che la durata del contratto fosse al massimo di 24 mesi e con l’obbligo di causale: è finita con la conferma dei contratti a trentasei mesi e senza l’obbligo di indicare le ragioni per l’apposizione del termine. Ma l’ostilità del sindacato si è fatta sentire nell’iter parlamentare. Sul versante opposto, quello degli imprenditori, il quotidiano della Confindustria “Sole 24 Ore” da giorni dedica la prima pagina a ridimensionare il decreto Irpef, quello che contiene il bonus di 80 euro, considerato dal premier la benzina di tutta la Renzinomics, oltre che della campagna elettorale. «Edilizia, solo 244 milioni per le scuole», titola il foglio confindustriale il 26 aprile (Renzi aveva annunciato 3,5 miliardi). «Tagli strutturali rimandati a settembre», si avverte lo stesso giorno. Il 27 aprile il direttore Roberto Napoletano scrive una lettera aperta al premier: «Questo Paese non ha bisogno di un uomo solo capitato da Marte, anzi, da Campo di Marte... È paradossale che un giovane presidente del Consiglio, come è lei, indulga alla veduta corta, l’esigenza di comunicare il risultato di oggi. L’Italia chiede di credere in un sogno, ma non merita di ripercorrere sentieri “illusionistici” che hanno segnato (amaramente) la Seconda Repubblica». Un giudizio severo che rispecchia l’atteggiamento dell’organizzazione degli industriali e del presidente Giorgio Squinzi, impaziente di un cambio di passo nei giorni dell’agonia del governo Letta ma accomunato da Renzi alla Camusso, «sono la strana coppia che non vuole le riforme». Da viale dell’Astronomia, finora, è arrivato un prudente via libera alla riforma del mercato del lavoro e al decreto Irpef, espressi a cosa fatte. Perché di certo, ed è uno degli strappi principali con il passato, il governo Renzi ha eliminato tavoli verdi, negoziazioni preventive, la concertazione del passato. A nessuna parte sociale è riconosciuto un diritto di veto. Un cambio di verso che colpisce la Cgil, la Cisl e gli altri sindacati al pari della Confindustria. E le organizzazioni colpite nel loro ruolo si difendono, come possono.
Si è schierata contro il governo L’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, sugli stipendi delle toghe. E si è mobilitata l’Abi, la potente associazione delle banche italiane, un tempo presieduta da Giuseppe Mussari di Monte dei Paschi di Siena, oggi da Antonio Patuelli, un caso di auto-rottamazione precoce, nella Prima Repubblica era diventato deputato e poi vicesegretario del Partito liberale a 32 anni, più giovane di Renzi, immancabile nel pastone dei tg che andavano di moda all’epoca, nella Seconda Repubblica si è riconvertito come banchiere alla guida della Cassa di Risparmio di Ravenna. Patuelli è stato avvisato dal premier della stangata sulle quote di Banca d’Italia, una botta da 2,1 miliardi, a decisione presa. «Avreste dovuto vedere la sua faccia. Non se
l’aspettava», ha commentato Renzi. Ma ora l’Abi minaccia ricorsi alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia europea, riserva al governo una trafila di bordate, fa terrorismo psicologico: «Pagheranno i risparmiatori».
Denunce poco credibili in bocca a chi rappresenta gli istituti bancari fortemente invisi a un bel pezzo di opinione pubblica. Così come è difficile che possano trovare ascolto le grida di dolore che arrivano da una parte dell’amministrazione statale, direttori generali, capi dipartimento, consiglieri di Stato, la filiera che un tempo si sentiva protetta dai Catricalà e dai Patroni Griffi, coppia di vertice nei governi e nell’amministrazione, e che oggi appare in rotta e senza punti di riferimento, nel mirino del premier. Ma non è sul grado di popolarità che si giocano queste partite. L’imperativo categorico è resistere, e intanto magari bloccare i provvedimenti del governo. La strategia della palude. E ci pensa Renzi a dare una mano ai suoi nemici con nomine
come quella di Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze, al vertice del dipartimento legislativo di Palazzo Chigi, respinta dalla Corte dei Conti per mancanza di requisiti e poi ripresentata. Con i renziani presentati come cacciatori di poltrone la vecchia guardia ha buon gioco a difendersi.
Il fronte No-Renzi ha trovato nelle ultime settimane la sua Fortezza Bastiani a Palazzo Madama, nella commissione Affari costituzionali presieduta da Anna Finocchiaro chiamata a votare per la riforma del Senato e del Titolo V, i poteri delle Regioni. Il suo sottotenente Giovanni Drogo è il senatore toscano Vannino Chiti, alla testa di un drappello di colleghi nel Pd, autore di un progetto che prevede cento senatori eletti e un dimezzamento dei deputati, alternativo a quello del premier e del ministro delle Riforme Maria Elena Boschi. Un’iniziativa senza padrini politici, senza la benedizione di Massimo D’Alema e neppure quella di Pier Luigi Bersani («Cosa vuole Chiti? Boh, quando
si fissa su una cosa è difficile smuoverlo...», commenta l’ex segretario), ma che ha fatto il pieno dei consensi nell’altra minoranza, quella di Pippo Civati, nel Movimento 5 Stelle e soprattutto nel cuore di Forza Italia. Costringendo Renzi a una marcia indietro su alcuni punti chiave della riforma: via i 21 senatori nominati dal Quirinale, delega alle Regioni per decidere le modalità di elezione dei futuri senatori, taglio del numero dei sindaci-senatori. E a frenare sull’iter delle riforme. «Votare la legge elettorale prima del 25 maggio è fondamentale», ripeteva Renzi nei giorni della nascita del governo. «Non mi impicco alle date», dice ora il premier. Appunto: c’era il rischio di finire impiccato. Tra i balletti del Pd e quelli berlusconiani.
In Forza Italia c’è chi avrebbe il curriculum adatto per aspirare alla leadership di un ipotetico partito No-Renzi: l’infaticabile capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Ogni giorno l’ex ministro martella sul governo e sul premier sul
suo house organ, il “Mattinale”. Un cahier senza fine: «Renzi governa senza legittimazione democratica, è un peronista, uno spudorato, un giovane sbruffone, vuole una mattanza sociale» e, come se non bastasse, «voleva inquinare la partita del Cuore». Nell’ex cerchio magico berlusconiano c’è chi la pensa all’opposto: Sandro Bondi vorrebbe spingere Forza Italia a votare le riforme renziane, Denis Verdini si muove come un ambasciatore di Palazzo Chigi presso Palazzo Grazioli, più che il contrario. E Berlusconi alterna il sì e il no a Renzi. La campagna elettorale, disperata con i sondaggi che danno Forza Italia in picchiata, impone all’ex Cavaliere di combattere contro il premier. In contrasto, però, con l’unico ruolo che lo tiene politicamente in vita, il patto del Nazareno sulle riforme.
Ecco perché, come ha ammesso Renzi, qualcosa è cambiato. C’è la necessità di rallentare prudentemente, come ha suggerito Giorgio Napolitano, per evitare che il voto sul Senato si trasformi in un
palcoscenico per partiti a caccia di visibilità elettorale. Tanto vale rassegnarsi e puntare a fare il pieno alle urne, ragiona Renzi, indicando all’elettorato la responsabilità di chi frena sulle riforme economiche e istituzionali: banche, sindacati, corporazioni, senatori, oltre all’unico nemico dichiarato, Beppe Grillo. Il fronte No-Renzi può trasformarsi perfino in una carta da giocare per un leader abituato a vivere di sfide e di avversari da battere. «Nessuno come lui sa presentare anche un rallentamento come una vittoria», spiega il renziano della primissima ora Matteo Richetti. «E finora ha portato a casa tutto, sul lavoro e sulla legge elettorale». Ma Renzi sa anche che puntare sulle elezioni europee per ottenere quella legittimazione popolare che finora gli è mancata presenta una grave contro-indicazione, soprattutto in una competizione in cui gli elettori si sentono svincolati dal voto utile perché non è in gioco la scelta del governo. Il rischio che i numerosi poteri abituati a vivere di mediazioni possano puntare su un risultato del Pd sotto le attese. Una vittoria contenuta di Matteo, che si trasformerebbe in una quasi sconfitta, è il sogno non dichiarato del fronte No-Renzi.  Marco Damilano,l’espresso