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LA VENDETTA di Fidel - È SICURO: NELLE ACQUE DI CUBA C’È IL PETROLIO
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di Guillermo W. Moldor
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«È imminente la battaglia per il petrolio cubano» titola El Nuevo Herald. Per la verità, la versione spagnola del Miami Herald, da mesi agita lo spauracchio di piattaforme petrolifere - magari con la bandiera rossa cinese - che estraggono greggio nel Golfo del Messico. O peggio nello stretto di Florida, nella cosiddetta Zona economica esclusiva (Zee) di Cuba a un tiro di schioppo da Key West (o Cayo Hueso, in spagnolo). L’allarme è stato lanciato l’anno scorso quando le esplorazioni condotte da varie compagnie petrolifere internazionali per conto del governo cubano hanno confermato l’esistenza di giacimenti di greggio off-shore. Sulla quantità e qualità del petrolio intrappolato nel sottosuolo del Golfo del Messico si era scritto molto, ma accertato poco. Fino a quando, la scorsa estate, un rapporto del Servizio geologico degli Stati uniti riferiva di riserve petrolifere valutabili tra i 4.5 e 9 miliardi di barili e di 10 miliardi di piedi cubici di gas. «In pochi anni Cuba potrebbe produrre 525.000 barili al giorno di greggio e diventare una nazione esportartrice», ha dichiarato Jorge Piñón esperto di questioni petrolifere dell’Università di Miami. Attualmente Cuba consuma 140.000 barili al giorno di petrolio, 92.000 provenienti dal Venezuela e acquistati a un prezzo «politico» al di sotto dei 30 dollari al barile. «E’ la vendetta di Castro», aveva ammesso la rivista Fortune. Ironia a denti stretti. Perché è proprio il greggio che rischia di mettere in crisi l’embargo - il boicottaggio statunitense contro Fidel che, dal 1962, costituisce il caposaldo della politica di Washington nei confronti della revolucion. Un mare di petrolio, in una fase storica in cui i prezzi dell’ «oro nero» vanno alle stelle. Insomma, una bonanza petrolifera, nelle mani del governo cubano. Il trattato firmato fra Usa e Cuba nel 1977 prevede infatti che il «confine» marittimo tra i due Paesi divida esattamente a metà le acque dello stretto di Florida (90 miglia nel punto più stretto). Però, le società petrolifere americane non possono perforare nella piattaforma continentale della Florida in base a una moratoria - almeno fino al 2010- decisa da una legge federale. Così, le majors statunitensi masticano fiele all’annuncio che il consorzio spagnolo Repsol-YPF sta per iniziare a perforare - nei primi mesi dell’anno prossimo, conferma il ministero dell’Industria basica dell’Avana- in acque profonde cubane del Golfo del Messico per mettere in produzione i giacimenti di greggio e gas naturale accertati già da due anni. La Repsol-YPF, dal 2006 è associata con la norvegese Norks-Hydro e l’indiana ONGC. La situazione potrebbe diventare ancora più difficile da digerire per gli Usa. Infatti altre sei compagnie, compresa la cinese Sinopec, hanno firmato accordi con la cubana Cupet e potrebbero seguire le orme degli spagnoli in altri «blocchi» (vedi cartina) già assegnati nell’off-shore cubano. E’ anche probabile - dopo l’avvicinamento tra l’attuale presidente Raul Castro e il brasiliano Lula - che al business partecipi la potente Petrobras (che ha esperienza in perforazioni in acque profonde e non dipende dalla tecnologia statunitense). La possibilità di piattaforme «aliene» operanti a un tiro di schioppo da Key West dall’anno scorso agita le acque politiche al Congresso. Un senatore democratico, Byron Dorgan, e un suo collega repubblicano, Larry Craig, hanno proposto un progetto di legge per l’energia (Safe Energy Act) che contempla un allentamento dell’embargo, di modo che le compagnie petrolifere americane possano partecipare all’estrazione del greggio in acque cubane. L’azione dei due senatori -«ispirati» soprattutto da Exxon-Mobil - ha avuto l’appoggio di alcuni deputati degli Stati del Midwest e dell’Ovest, i quali rappresentano gli interessi di un agro-business da anni interessato, e parzialmente impegnato, a vendere i propri prodotti a Cuba. La loro argomentazione è che l’embargo si è dimostrato inutile politicamente mentre «ha tenuto lontano compagnie americane da un mercato potenzialmente lucrativo». L’Avana non ci ha pensato due volte a sfruttare la breccia. Il delegato commerciale a Washington, Ernesto Placensia, nel marzo dello scorso anno aveva annunciato che, qualora fosse stato tolto il divieto per le aziende americane di fare business con Cuba, sarebbe stato loro riservato lo stesso trattamento già concesso ai Paesi che non accettano l’embargo Usa. La reazione dei politici della Florida - tutti a caccia dei voti della diaspora cubana in maggioranza anti-castrista- non si erano fatti attendere. Il senatore repubblicano Mel Martinez ha presentato un emendamento al Safe Energy Act che prevede il divieto di perforare entro 150 miglia dalle coste sud della Florida e sanzioni economiche e legali (il rifiuto del visto per gli Usa) contro «persone o compagnie che investano nell’industria petrolifera cubana». Il suo collega democratico Bill Nelson è autore di un progetto di legge che vieta al presidente Bush di rinnovare il trattato del 1977, qualora i cubani iniziasero a perforare. La deputata Ileana Ros-Lehtinen, una delle più ultrà, ha aggiunto la proposta di imporre sanzioni a compagnie associate a multinazionali Usa che investano più di 1 milione di dollari nello sviluppo petrolifero cubano e a congelare i fondi di compagnie straniere che partecipino alle perforazioni nella Zee. Ormai, però, è iniziata una corsa contro il tempo. La Repsol-YPF ha procrastinato l’inizio delle attività off-shore nel Golfo del Messico previste per quest’anno all’inizio del 2009, motivando la decisione con la scarsezza di piattaforme marine in un periodo di grande ricerca di greggio e con il loro alto costo di affitto (332.000 dollari al giorno). Ma di fatto attende il cambio della guardia alla Casa bianca, con la possibilità (e la speranza) che Barak Obama, se eletto presidente, possa raccogliere la mano tesa ben due volte da Raul Castro e decida di ammorbidire l’embargo contro Cuba. I giacimenti della Zee sono circa sei miglia sotto la superfice del mare, difficile per la Repsol perforare a queste profondità senza far ricorso a tecnologie Usa. E dunque senza scontrarsi con l’embargo, come afferma il professor Benjamin-Alvaro dell’Università del Nebraska. «L’industria petrolifera cubana off-shore è destinata a convertirsi in un catalizzatore delle relazioni tra Washington e L’Avana», ha dichiarato al Miami Herald Jorge Piñón. Puntualmente, il presidente Bush nei giorni scorsi ha inviato al Congresso una proposta per mettere fine alla moratoria per le perforazioni nella piattaforma continentale degli Usa (soprattutto in Florida e in Alaska). Anche il candidato repubblicano McCain si è detto favorevole a perforazioni in acque costiere americane. Ovviamente, è sceso in campo pure il vice-presidente Cheney, gran lobbysta dei petrolieri statunitensi. Parlando due settimane fa alla Us Chamber of Commerce, Cheney ha usato l’artiglieria pesante: «Si sta estraendo petrolio a 60 miglia dalla costa della Florida. Ma non siamo noi a farlo. Sono i cinesi in cooperazione col governo cubano... Ma il Congresso ha detto no a perforazioni di fronte alla Florida, no a estrarre petrolio dai nostri mari». Falsità, perché, per ora, la Sinopec ha un accordo solo per trivellare on-shore a Est dell’Avana (da qualche mese una grande torre per perforazioni è operativa a Cojimar, l’ex villaggio di pescatori reso famoso dal "Vecchio e il mare" di Hemingway). Ma falsità utili, perché l’eterno vulnus con Castro è usato da Cheney per una campagna contro i vincoli federali che vietano di estrarre greggio da zone protette, come l’Artic National Wildlife Refuge in Alaska, dove -secondo Cheney- «vi sono riserve di greggio comparabili a quelle del Golfo del Messico; e nemmeno lì possiamo perforare». In piena campagna presidenziale, dove i voti della Florida pesano molto, viene dunque posto sotto tiro l’accordo con Cuba sulle acque territoriali firmato durante la presidenza Carter nel 1997, ma mai ratificato dal Senato Usa e mantenuto in vigore mediante uno scambio di lettere annuali tra Washington e l’Avana. Si tratta però di iniziative soprattutto politiche in riferimento alla battaglia presidenziale per aggiudicarsi i delegati della Florida ( è di alcuni giorni fa la notizia che Obama sarebbe ora in vantaggio anche nella comunità latina dello Stato). «Cuba inizierà a perforare, questo è chiaro a tutti», ha dichiarato al Miami Herald Philip Peters, analista dell’Istituto Lexington. «Mi sorprenderebbe - ha aggiunto- se la Casa bianca denunciasse l’accordo sulle frontiere marittime con Cuba, perché creerebbe un caos legale, visto che sulle stesse basi si decisero le frontiere marittime con il Messico e le Bahamas>. Ecco perché i tempi stringono e «sta per iniziare la battaglia per il petrolio cubano».de Il Manifesto |
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