Paura di vincere
 







di Marco d’Eramo




Barak Obama

Se i repubblicani sembrano attanagliati dall’angoscia di perdere, i democratici sembrano posseduti dalla paura di vincere: dati largamente per favoriti sia alle politiche (per Camera e Senato), sia per la presidenza, rivelano invece debolezze, divisioni imprevedibili.
Ultimo esempio del nervosismo è un attacco di Jesse Jackson contro Barack Obama. A microfoni spenti, il reverendo e primo candidato nero credibile alla nomination democratica, ha accusato il suo concittadino chicagoan Obama «di trattare i neri dall’alto in basso», affibbiandogli anche una bella parolaccia che la rete di destra Fox News ha minacciato di mandare in onda nella trasmissione di estrema destra «The O’Reilly Factor». Jackson se la prendeva con la tesi di Obama secondo cui buona parte dei mali che affliggono la comunità nera è dovuta ai maschi neri che non si assumono le proprie responsabilità di padri e che lasciano i bambini a se stessi, alla vita di strada e in
definitiva alla delinquenza: «Abbiamo bisogno di padri che si rendano conto che la loro responsabilità non finisce col concepimento», ha detto Obama in un recente discorso a Chicago. Ignaro di essere registrato mentre pronunciava l’attacco a Obama, Jackson ha poi dovuto scusarsi e subire persino i rimproveri di suo figlio, Jesse Jr., deputato di Chicago, assai obamiano, che ha detto: «Il reverendo Jackson è mio papà e lo amerò sempre. Però rigetto con forza e ripudio la sua brutta retorica. Dovrebbe tenere viva la speranza e tenersi per sé ogni attacco e insulto».
Se il nervosismo serpeggia persino nella comunità nera, immaginiamoci cosa succede tra i clintoniani. Perché la ritrovata unità del partito, con l’assai scenografica riconciliazione celebrata il 28 giugno a Unity (il nome del luogo non è casuale) in New Hampshire, è solo una pudica facciata di coltellate alla schiena, con Obama che sembra deciso a schiacciare una volta per tutte la fazione clintoniana. Hillary non può non
aver preso come uno schiaffo la nomina da parte di Obama di Patti Solis Doyle a capo dello staff incaricato della scelta del vicepresidente: Patty Solis aveva a lungo diretto la campagna di Hillary, che l’aveva cacciata dopo l’ondata di sconfitte a febbraio (oltre tutto i Clinton avevano fatto più di un pensierino alla vicepresidenza). Altro chiaro segno di «vendetta» è la riluttanza dei finanziatori di Obama a venire in soccorso economico alla Clinton, che ha chiuso le primarie con un debito di 20 milioni di dollari che Obama aveva promesso di contribuire a estinguere. Ma finora le sono arrivati solo 100.000 dollari, un’elemosina, offensiva per di più.
Ancora i soldi sono al centro di un’altra lotta sotterranea, quella del gruppo di Obama per prendere il controllo totale del partito e scalzare dalla presidenza (o almeno imbavagliare) Howard Dean, che pure l’ha aiutato non poco contro Clinton (soprattutto con le controverse decisioni sui delegati di Florida e Michigan, due grandi
stati che avevano votato Clinton ma che per ragioni «disciplinari» si sono visti dimezzare i delegati con diritto di voto alla Convention). L’organizzazione della Convention sta sforando tutti i preventivi, al punto che partito democratico ha già ridimensionato il programma. Al momento mancano all’appello ben 11 milioni di dollari sui 41 inizialmente previsti, anche senza considerare la successiva, enorme lievitazione dei costi. Anche in questo caso il partito ha chiamato in soccorso Obama e la sua rete di finanziatori; anche in questo caso Obama ha mandato una sua squadra a Denver a prendere il controllo totale delle operazioni, come condizione per salvare la cerimonia.
Che il senatore di Chicago sia molto attento alla dimensione finanziaria lo dimostra anche il suo voltafaccia sul tema del finanziamento della campagna elettorale. Dopo essersi presentato per mesi come un moralizzatore, contrario ad accettare i soldi delle lobbies e di quelli che qui si chiamano gli «special
interests», a giugno ha invece rifiutato il finanziamento pubblico della sua campagna presidenziale, finanziamento che avrebbe posto un tetto ai contributi privati. La ragione del voltafaccia è che allo stato attuale Obama dispone del doppio di fondi di John McCain, mentre col finanziamento pubblico si sarebbero trovati in parità (per inciso, le primarie sono costate finora 900 milioni di dollari, 400 milioni in più rispetto al 2000, l’ultima volta in cui ci fu vera competizione anche tra i repubblicani).
Non è il solo tema su cui negli ultimi tempi Barack Obama ha cambiato posizione, deludendo i suoi fedeli progressisti. Ha cominciato il 4 giugno, appena dopo aver dichiarato vittoria, intervenendo alla conferenza annuale dell’American Israel Public Affairs Committee, la più importante lobby filo-israeliana negli Usa, dove ha parlato in termini durissimi contro l’Iran, garantendo l’appoggio militare americano a Israele, e dicendo di essere «pronto a tutto» pur d’impedire all’Iran di
accedere alla bomba atomica, e affermando che Gerusalemme dovrà restare indivisa e capitale dello stato ebraico. Obama sa di essere oggetto di una violentissim ostilità da parte della comunità ebraica conservatrice (in particolare quella newyorkese) e sa bene che tra neri ed ebrei negli Stati uniti non c’è mai stata molta comprensione (mentre la forte sinistra ebraica newyorkese si è tutta schierata con lui). Ma anche così, impressiona il voltafaccia rispetto alla posizione filopalestinese tenuta durante le primarie. E il 10 giugno ha tenuto una riunione a porte chiuse con 30 evangelici, tra cui il reverendo Franklin Graham, figlio del più famoso telepredicatore Usa, Bill Graham, e sostenitore della guerra di religione contro l’Islam definito come «il male assoluto». Lo scopo di Obama era di assicurarsi l’appoggio di quella nuova generazione di fondamentalisti evangelici che sono più ecologici e un po’ meno reazionari dei loro genitori.
E poi il candidato presidenziale Obama ne ha
inanellate una dopo l’altra. Prima ha approvato la sentenza della Corte suprema che di fatto impedisce ai comuni di limitare il porto delle armi sul proprio territorio, quindi a favore della lobby delle armi. Poi si è detto favorevole alla pena di morte per gli stupratori di bambini; poi di è detto d’accordo con Bush nell’estendere il ruolo delle organizzazioni caritatevoli perché assolvano compiti dello stato sociale. Tanto che persino il moderatissimo New York Times gli ha osservato in un editoriale che forse si sta spostando a destra troppo e troppo presto.
Ma il malumore cresce anche tra la base degli internauti che finora hanno costituito la fanteria corazzata di Obama. È il caso di un certo Stark, ex programmatore di computer che ha deciso di usare la rete, e il sito stesso di Obama, per impedirgli di scivolare a destra: «Perché non usiamo la socializzazione in rete per far sapere a Obama che non può mettersi a cacciare a calci nel sedere fuori dalla tavola politica la sua
base progressista, quella stessa che gli ha fatto vincere la nomination»?de Il Manifesto