Bush l’africano
 







di Manlio Dinucci




«Africa Endeavor» (Sforzo dell’Africa): così è denominata l’esercitazione militare conclusasi ieri in Nigeria, sotto il comando del generale della U.S. Air Force, David A. Cotton. Vi hanno partecipato 21 paesi africani (Nigeria, Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Capo Verde, Ciad, Gabon, Gambia, Ghana, Kenya, Lesotho, Malawi, Mali, Namibia, Ruanda, Senegal, Sierra Leone, Uganda e Zambia), più la Svezia. Per una settimana, oltre 200 militari africani sono stati addestrati all’uso del C3IS - il sistema statunitense di comando, controllo, comunicazioni e informazioni - così da rendere possibile «l’integrazione e l’interoperabilità» tra le forze armate dei paesi partecipanti. In realtà, attraverso attività come lo «Sforzo dell’Africa», il Pentagono si sforza di portare sotto il proprio comando il maggior numero di eserciti africani.
Fervono infatti i preparativi per il varo ufficiale, previsto per il 1° ottobre, del nuovo comando
statunitense unificato, il Comando Africa (AfriCom). La sua «area di responsabilità» comprenderà 53 paesi africani: quasi l’intero continente che, nella geografia del Pentagono, è oggi diviso tra Comando europeo, Comando del Pacifico e Comando centrale (la cui «area di responsabilità» comprende, oltre al Medioriente, il Corno d’Africa, Sudan ed Egitto). Solo l’Egitto resterà sotto il Comando centrale. L’AfriCom, che ha cominciato a operare nell’ottobre 2007 quale sub-comando di quello europeo, è «ancora nella sua infanzia», ma il Pentagono lo sta facendo crescere rapidamente attraverso una intensa attività.
Scopo dichiarato dell’AfriCom non è quello di aumentare la presenza militare Usa nel continente, finora limitata a una task force per il Corno d’Africa dislocata in una base a Gibuti, ma di «sviluppare nei nostri partner la capacità di affrontare le sfide per la sicurezza dell’Africa». Per questo il nuovo comando si concentra nell’addestramento di militari africani, nel quale
gli Stati uniti sono da tempo impegnati. Tale attività è particolarmente intensa nell’Africa occidentale. Essa si svolge nel quadro della operazione «Africa Partnership Station», che prevede la dislocazione di navi da guerra lungo le coste dell’Africa occidentale, con a bordo personale militare anche di altri paesi (finora Gran Bretagna, Francia, Germania e Portogallo).
Nei primi sette mesi dell’operazione, iniziata nel novembre dell’anno scorso, sono stati visitati 19 porti in 10 paesi e addestrati 1.500 militari. Il Pentagono non esclude comunque la possibilità che vengano dislocate altre basi Usa in Africa, garantendo però che ciò avverrà «in pieno accordo con i paesi ospiti». In Ghana una squadra di tecnici, inviata dal comando di Napoli delle forze navali Usa, ha effettuato una prospezione idrografica del porto di Tema nel quadro di un programma mirante a «migliorare la sicurezza marittima in tutto il golfo di Guinea». In Liberia sono arrivati i Seabees, i battaglioni della
U.S. Navy addetti alla costruzione di basi, formalmente per «restaurare due ospedali, dotandoli di elettricità e acqua corrente». L’«aiuto umanitario» è infatti uno dei compiti dell’AfriCom, nel quadro della crescente militarizzazione degli aiuti statunitensi all’estero: circa un quarto passa oggi attraverso il Pentagono.
Perché l’Africa occidentale sia così importante emerge da un comunicato della marina Usa: «Il 15% del petrolio importato dagli Stati uniti proviene dal golfo di Guinea, regione ricca anche di altre risorse: nostro scopo è quindi stabilire un ambiente marittimo sicuro per permettere a tali risorse di raggiungere il mercato». Secondo le proiezioni, entro il 2015 questa regione fornirà il 25% del petrolio importato dagli Usa. Gli interessi in gioco sono enormi: in Nigeria, maggiore produttore petrolifero dell’Africa, il 95% della produzione è in mano a poche multinazionali, tra cui la Shell che ne controlla oltre metà. Lo stesso avviene in Ciad il cui petrolio,
esportato attraverso un oleodotto che attraversa il Camerun, è controllato da un consorzio internazionale capeggiato dalla ExxonMobil. Tale dominio viene però ora messo in pericolo dalla ribellione (anche armata) delle popolazioni e dalla concorrenza cinese. Da qui il piano del Pentagono di rafforzare la presenza militare statunitense e alleata in questa regione. Non a caso l’esercitazione Steadfast Jaguar, con cui la «Forza di risposta della Nato» ha raggiunto nel giugno 2006 la piena capacità operativa, si è svolta a Capo Verde in Africa occidentale.
Non tutto però va come vorrebbero al Pentagono. Inizialmente era previsto che il quartier generale dell’AfriCom, attualmente situato a Stoccarda, avrebbe dovuto essere dislocato in Africa a partire dall’ottobre di quest’anno. Il governo sudafricano si è però opposto, riuscendo a far adottare tale posizione alla Sadc, la comunità per lo sviluppo di cui fanno parte 14 paesi della subregione. Anche altri paesi (Libia, Marocco, Algeria,
Senegal) si sono detti contrari. Lo smacco più grave, per il Pentagono, è venuto dalla Nigeria, che non solo si è rifiutata di ospitare il quartier generale, ma si è detta contraria alla sua installazione in qualsiasi altro paese dell’Africa occidentale. Solo la Liberia ha dato la disponibilità. Per il momento dunque il quartier generale dell’AfriCom, il cui personale dovrebbe essere aumentato da 350 a circa 1.200, resterà a Stoccarda. Il Pentagono non rinuncia però al piano di dislocarlo direttamente in Africa. A tale fine sta lavorando con vari strumenti (compresi sicuramente i servizi segreti) per portare dalla propria parte le élite militari africane.
Siamo dunque di fronte a una crescente penetrazione militare statunitense in Africa, mirante al controllo soprattutto di aree strategiche, come il Corno d’Africa all’imboccatura del Mar Rosso, e di aree ricche di petrolio e altre risorse, come l’Africa occidentale. Questa politica di stampo coloniale sarà tra non molto attuata
direttamente dal Comando Africa che, per controllare tali aree, farà ancor più leva sulle élite militari, minando i processi di democratizzazione, provocando altre guerre e facendo aumentare le spese militari di quei paesi con gravi conseguenze per le popolazioni già impoverite.
Merita qui ricordare che, durante la tratta degli schiavi, fu proprio dalla regione guineana che venne deportato il maggior numero di giovani uomini e donne, costretti a lavorare nelle colonie americane delle potenze europee. Nel XIX secolo questa regione fu soggetta all’occupazione coloniale europea: Francia, Gran Bretagna e Portogallo si spartirono il territorio, sottoponendolo alla rapina sistematica delle risorse. Gli stati della regione conquistarono l’indipendenza tra il 1958 e il 1975. Non è terminata però la loro dipendenza dalle potenze ex coloniali e da altre grandi potenze, che non hanno mai cessato di interferire nella loro economia e nella loro politica. La lotta per il controllo delle ricche
risorse della regione ha provocato una grande instabilità politica: colpi di stato, guerre civili, assassini di esponenti politici, secessioni, dittature basate sulla corruzione e sulla violenza. Per l’Africa, il «lungo cammino verso la libertà», di cui parla Nelson Mandela nell’autobiografia, non è ancora terminato.de Il Manifesto