Globalizzazione: Arma a doppio Taglio
 







di Antonio Aroldo




Oggi giorno internet, e gli altri mezzi di comunicazione tecnologicamente avanzati, sono entrati nella quotidianità.          
Le nuove tecnologie telecomunicative, infatti, stanno assumendo un ruolo sempre più importante in quest’epoca di sanguinosi conflitti politico-religiosi. 
Questo perchè esse possono indurre, attraverso il libero scambio d’informazioni e a download sempre più potenti, al dialogo e al libero confronto tra differenti culture anche di paesi molto lontani fra di loro. Allo stesso tempo, pero, La rivoluzione digitale può produrre un vero rinnovamento solo se è accompagnata dallo sviluppo del capitale umano e il ruolo del sistema formativo risulta fondamentale. E’ pertanto necessario coinvolgere gli insegnati, incentivare la ricerca e la produzione di contenuti digitali per l’insegnamento e l’apprendimento.  
Facendo, quindi, in modo che le persone, in
particolare i più giovani, imparino ad’usare le tecnologie informatiche, non soltanto per giocare o per scaricarsi la musica e i film del momento, ma anche soprattutto, per arricchire, valorizzare e infine spendere, nel migliore dei modi, il proprio bagaglio culturale in campo lavorativo in una società fortemente globalizzata e interconnessa.
Tutto ciò già succede, ormai da molti anni, in America e in occidente dove l’“Information Technology, come ha indicato il rapporto presentato dall’“Advisory Board di Key4biz .it”, da una parte è sicuramente “l’arma primaria per far crescere le imprese e sviluppare la competitività e il confronto con i mercati internazionali”, dall’altra, però, il “digital divide”, (il divario fra chi ha il digitale e chi non ce la), si può definire, infatti, il nuovo Muro di Berlino, la nuova cortina di ferro immateriale, la linea di demarcazione invisibile della mondializzazione. Il successo del digitale allontana le nazioni fra loro e le separa al loro
interno. 
Come l’affannato Bian-coniglio in Alice nel paese delle meraviglie, gli Stati sono spiazzati dal dirompere dell’economia digitale e d’Internet, dalla circolazione transfrontaliera dei flussi d’informazioni. E intanto proclamano di volere riassorbire la frattura per distribuire ai cittadini del mondo i dividendi della società dell’informazione. Un modo, per gli Stati, di esserci, di cercare di    dominare, se non già di controllare, la forza d’internet che con le sue applicazioni stravolge ogni equilibrio tradizionalmente accettato dalle nazioni considerate sovrane.
La "Globalizzazi one" è, un termine ormai estremamente diffuso, ma che assume significati spesso diversi e contraddittori; il significato più neutro è, molto probabilmente, quello di "libera circolazione di merci, capitali e persone a livello mondiale". In realtà, il corso degli eventi, però, ha fatto in modo, che il potere economico fosse, nell’attuale spaccato storico, dominante sul
potere politico. La corretta accezione attuale del termine è, quindi, da ritenersi essere, obbiettivamente, "neoliberismo globalizzante".
Esiste un vasto movimento d’opinione, diffuso a livello mondiale, che contesta radicalmente questa globalizzazione e i suoi effetti più negativi e deleteri in ambito sociale, come ad esempio: l’inesistente redistribuzione di ricchezza tra nord e sud del mondo; il mancato rispetto dei vincoli  ambientali (vedi vicenda del protocollo di Kyoto); lo sfruttamento "in loco" delle classi sottoposte nei paesi del Terzo e del Quarto Mondo con condizioni di lavoro inaccettabili; le ricadute negative sia sull’occupazione sia sulle piccole e medie imprese nei paesi industrializzati.
D’altra parte, però, i sostenitori della globalizzazione ritengono ingiustificate le proteste e le lamentele degli oppositori e vedono ad esempio nelle multinazionali uno strumento fondamentale per lo sviluppo della parte più arretrata del pianeta; grazie l’abbattimento
delle barriere doganali, c’è la possibilità di diminuire i costi e le spese fisse e contestualmente far crescere economicamente i paesi in via di sviluppo              
fornendo nuove e massime opportunità occupazionali ed appoggio politico.
Le piccole nazioni in via di sviluppo sono come barchette e il Fondo monetario, spingendole verso una veloce liberalizzazione dei mercati, le ha messe in un mare in tempesta  senza giubbotti di salvataggio. 
 È questo l’atto d’accusa che Joseph E. Stiglitz lancia verso il Fmi, il Wto e il Tesoro Usa. Stiglitz facendo affidamento alla sua esperienza maturata, alla Casa Bianca, (come consigliere economico di Clinton), e poi alla Banca mondiale, come vice presidente, il nobel dell’economia attacca questi protagonisti della politica economica internazionale che, invece d’aiutare i paesi più poveri, li hanno danneggiati. Eppure la storia della stragrande
maggioranza dei paesi industrializzati avrebbe dovuto suggerire una strategia completamente diversa nella sequenza delle riforme da richiedere ai paesi in via di sviluppo. Basti pensare alle due più grandi economie del mondo, (Stati Uniti e Giappone) e a come  hanno protetto in modo selettivo alcuni dei loro comparti industriali fino a quando non sono diventati abbastanza forti da poter competere con quelli di altri paesi. Così come non può funzionare il protezionismo generalizzato, anche una liberalizzazione troppo rapida del commercio genera danni. Costringere un paese in via di sviluppo ad aprire le proprie frontiere in modo indiscriminato può avere conseguenze disastrose sia sociali che economiche. È così che sono stati distrutti milioni di posti di lavoro e la povertà non solo non è stata sradicata ma, al contrario, è aumentata.                                       
 Stiglitz non è contro il processo di globalizzazione, anzi secondo lui la globalizzazione può essere una forza positiva. Essa ha cambiato, infatti, il modo di pensare della gente e ha diffuso l’ideale di democrazia e il benessere. Questo si è verificato nei paesi che si sono resi artefici del proprio destino con governi che hanno svolto un ruolo attivo nello sviluppo, senza affidarsi stupidamente a un mercato che, autoregolandosi, riuscirebbe a risolvere da solo tutti i problemi.
La prova di ciò può essere, finalmente, esibita poiché la celebre catena di ristoranti a tema musicale la “Hard Rock International Inc ”, è da alcuni anni passata in mano Indiana; in altre parole, sotto l’esclusivo controllo della tribù dei
Seminole.
Un’operazione colossale e la più grande acquisizione di un gruppo internazionale da parte di una tribù di indiani d’America.
L’accordo, annunciato la mattina del sette dicembre 2006, sul Financial Times sarà finalizzato a marzo 2007. Parte del ricavato è stato restituito da Rank Group (che è la seconda catena di casinò in Gran Bretagna) agli azionisti sotto forma di dividendo straordinario.
Un sodalizio non proprio inaspettato: i Seminole già gestiscono a Hollywood e Tampa due Hard Rock Hotel  e Casino, resort paradisiaci a cinque stelle con mega sale da gioco. Ma per paradisiaci a cinque stelle con mega sale da gioco. Ma per accaparrarsi il marchio in esclusiva, che campeggia oggi su 124 locali sparsi in 45 diversi Paesi del mondo e vanta la più grande collezione mondiale di cimeli musicali autentici, i Seminole hanno fatto un’offerta che ha sbaragliato in partenza gli altri potenziali acquirenti di grosso calibro, tra cui il gruppo britannico Permira, la 
TDR Capital e Apollo Management.
L’accordo prevede anche la licenza per altri 56 ristoranti e cinque alberghi oltre ai locali Hard Rock Live dove si svolgono concerti e rappresentazioni dal vivo.  "E’ un momento di grande orgoglio per la tribù dei Seminole della Florida e per le altre tribù indiane", commenta Mitchell Cypress, il capo della tribù, che presiede il Consiglio eletto dai membri. "E’ una grande opportunità per diversificare il nostro business", aggiunge. Business che, per la verità, dipende al 90% dal fatturato del settore del gioco d’azzardo.
La tribù indiana ha acquistato, quindi, una leggenda, che dal 1971, quando aprì il primo locale a Londra, è diventata sempre più popolare e ha visto crescere le proprie entrate in maniera solida. Nel 2005 il giro d’affari del gruppo è stato di oltre 250 milioni di sterline (quasi 370 milioni di euro).
Un bel salto di qualità per i nativi americani, che nel 1979 aprirono negli Stati Uniti la prima sala bingo e casinò
in terra indiana, dando il via a quella che sarebbe diventata un’industria multimilionaria per le tribù sul suolo statunitense. La loro è stata un’ascesa rapida. Vent’anni fa vivevano ancora nelle tipiche abitazioni di legno e paglia e producevano oggetti d’artigianato. Oggi, grazie a slot machine, roulette e un notevole fiuto per gli affari, sono diventati milionari.
I casinò negli Stati Uniti sono ormai praticamente esclusiva delle tribù indiane. Il gioco d’azzardo è vietato in molti Stati, ma non nelle riserve, che hanno il permesso di gestire i casinò nei loro territori. Un boom iniziato negli anni ’80 e proseguito grazie a una pronuncia della Corte Suprema di Washington, che nel 1987 diede il diritto a ogni nazione indiana di aprire sale per il gioco, purché lo Stato che li ospita sia d’accordo.
Oggi la tribù originaria della Florida, che ha sede vicino a Fort Lauderdale, conta 3.300 membri dentro e fuori le riserve, discendenti di una manciata di nativi che scapparono
nelle Everglades a metà dell’800 quando il governo americano cercò di spostare tutti gli indiani in Oklahoma.
Oltre ai due Seminole Hard Rock Hotel e Casinos, la tribù dalle spiccate capacità imprenditoriali possiede e gestisce altri cinque casinò non a marchio Hard Rock, in Florida, a Coconut Creek e Hollywood, a Immokalee, e nella Brighton Reservation e nella Big Cypress Reservation. Ma promette di non fermarsi qui e di ampliare, con questa mossa, le proprie attività. Gli analisti le danno ragione: le imprese nel settore del "gaming" gestite dai Seminole sono considerate fra le più fiorenti al mondo.
Negli altri casi la globalizzazione non ha funzionato. Centinaia di milioni di persone hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita perdendo il lavoro e ogni tipo di sicurezza. Sono dunque le regole della globalizzazione a essere sbagliate e questo accade perché gli organismi che le dettano si basano su una miscela perversa di ideologia e politica che impone soluzioni a
favore degli interessi dei paesi industrializzati più avanzati.
Il resoconto fatto dall’autore delle crisi del Sud-Est asiatico (1997), della Russia (1998) e dell’Argentina (2001) è particolarmente allarmante. Le politiche del Fmi hanno aggravato la situazione dell’Indonesia e della Thailandia, provocato tassi di disoccupazione a due cifre nell’America Latina, abbattuto drasticamente il Pil in Russia. Esse condizionano non soltanto i paesi che chiedono aiuto ma anche quelli che richiedono approvazioni formali dei loro programmi per poter accedere più facilmente ai mercati finanziari internazionali. Stiglitz denuncia il fatto che sebbene tutte le attività del Fondo monetario e della Banca mondiale oggi si svolgano nei paesi in via di sviluppo, entrambe le istituzioni sono guidate da rappresentanti delle nazioni industrializzate. Questo fatto, insieme all’applicazione di teorie economiche sbagliate di stampo neoliberista, sta producendo danni enormi. Dietro l’ideologia neoliberista
c’è un modello secondo cui la “mano invisibile” delle forze di mercato guiderebbe l’economia sulla strada dell’efficienza. Una delle conquiste più importanti dell’economia moderna è stata quella di dimostrare in quali condizioni e in che senso ciò si verifica. Proprio nel periodo in cui venivano perseguite con maggior accanimento le politiche di Washington Consensus la teoria economica ha dimostrato che, ogni qualvolta l’informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, cioè praticamente sempre, la “mano invisibile” opera in modo imperfetto. Ciò è vero in particolare nei paesi in via di sviluppo e in quelli ex comunisti. Il sistema di mercato richiede, infatti, diritti di proprietà chiaramente stabiliti e tribunali in grado di farli rispettare. Esso necessita di una concorrenza e di un’informazione perfetta, ma mercati concorrenziali ben funzionanti non si creano dalla sera alla mattina. L’ideologia del fondamentalismo di mercato ignora l’essenzialità di tali presupposti, essa non è che un ritorno all’economia del laissez-faire propugnata nell’800. Ma, come ricorda Stiglitz, dopo la grande depressione i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, mentre il Washington Consensus ha imposto interventi che sono andati incontro a conseguenze disastrose.
La globalizzazione, attraverso l’ICT, in ultima analisi quindi, “se ben governata”, come affermò una volta Larussa(AN), alla trasmissione televisiva di RAI Tre, “Telecamere”, “può fare molto specialmente per quei paesi in via di sviluppo” .