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Vincenzo Vitale, un grande maestro? |
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Rosario Ruggiero
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Nato a Napoli il 13 dicembre 1908, Vincenzo Vitale, pianista, soprattutto didatta, esalava il suo ultimo respiro nella città natale trenta anni fa, il 21 luglio 1984. Si era formato musicalmente ai piedi del Vesuvio, quindi a Parigi, anche sotto la guida di un eminente concertista come Alfred Cortot. Insegnante prolifico, Vitale è l’ultimo significativo rappresentante di una scuola pianistica napoletana dopo vari, illustri predecessori ed oggi, a sei lustri dalla scomparsa, le condizioni si mostrano più che favorevoli per un sereno giudizio sul suo magistero in virtù di una distanza cronologica non tanto lunga da sbiadirne il profilo, specialmente se, come in questo caso, il profilo esce dalla penna di chi a quel ceppo didattico è appartenuto, né tanto breve da lasciar condizionare l’obiettività storica da fasti di cronaca, potere imperante o interessate simpatie ed antipatie di parte. Tre, sostanzialmente, gli elementi che caratterizzano l’esecutore musicale e, più ampiamente, il concertista, tre, quindi, gli elementi sui quali le virtù dell’insegnante potranno incidere: le capacità professionali; le capacità tecniche; le capacità musicali. A determinare poi il nome di scuola il numero opportunamente congruo dei discenti significativamente formati. E che sia scuola, quella di Vincenzo Vitale, non ci sono dubbi in virtù di precetti precipui specifici e generosa quantità di pianisti sfornati, non pochi di essi anche concertisti. Nutriti dai suoi insegnamenti sono infatti cresciuti artisticamente Michele Campanella, Laura De Fusco, Bruno Canino per un certo periodo, Sandro De Palma, Alexander Hintchev, Francesco Nicolosi e tanti altri ancora. Quali i risultati sortiti? Circa le capacità professionali sviluppate, ossia la virtù di riuscire ad eseguire pubblicamente, in maniera corretta, un più o meno ampio repertorio, la carriera concertistica di molti allievi del maestro napoletano certo non lascia dubbi. Per quanto riguarda le capacità tecniche, ossia la virtù di dominare il proprio strumento in termini di velocità, chiarezza, precisione, bellezza e varietà di timbro, ampiezza dinamica dal suono più lieve al più reboante e capacità di padroneggiare le più disagevoli difficoltà esecutive, la scuola del celebrato didatta ha dalla sua parte una certa accuratezza in termini di eguaglianza digitale alla tastiera, chiarezza esecutiva e timbro non sgradevole (salvo discutibili scelte individuali), non può però certo vantare i livello virtuosistico di una amplissima schiera di maestri, del passato e del presente, come Rosenthal, Richter, Berman, Gilels, Rachmaninov, Rubinstein, Horowitz, Benedetti Michelangeli, Gould, Kissin, Cziffra, Argerich, Backhaus, Gieseking, Lhevinne, Hofmann e tanti, tanti altri ancora, la qual cosa risulta, tra l’altro, particolarmente penalizzante per una scuola che vanta come prerogativa sostanziale proprio la preparazione tecnica. Per ciò che sono invece le capacità musicali, cioè la virtù di operare opportune scelte interpretative sì da rendere l’esecuzione quanto più viva ed affascinante, si confrontino le esecuzioni di composizioni di Franz Liszt suonate da Michele Campanella, che passa per uno dei più grandi interpreti del musicista magiaro, con le analoghe esecuzioni di tanti pianisti noti, o le esecuzioni di Laura de Fusco (forse l’artista più interessante formatasi sotto quel didatta) con quelle di concertisti non anonimi, e si faccia similmente con tutti gli altri prodotti di questa scuola pianistica partenopea per essere costretti a riconoscerle una netta inferiorità in termini di capacità di sedurre l’ascoltatore. Certo questi potrebbero essere giudizi peregrini, infondati, ingiusti; ma mai come oggi, con Internet e tanta altra tecnologia, facilmente verificabili. Non si trascuri che, nell’interpretazione musicale, l’arte è tutta nella musicalità, il resto è artigianato. Ma da dove scaturiscono questi limiti? Con ogni probabilità da un approccio concettuale. Pianista non brillante (almeno stando alle registrazioni rimasteci), Vincenzo Vitale si ha quasi l’impressione prediligesse allievi privi di pensiero autonomo, inclinazione alla ricerca ed originalità. Traspare dalla forte omogeneità di risultati, la musicalità tanto sovente noiosa e certa filosofia interpretativa e didattica palesatami da numerosi episodi in ben dieci anni di conservatorio. Allievo di Luisa De Robertis, diretta discepola di Vitale, mediocre come persona, altrettanto come concertista, ordinata digitalmente, ma dal suono piccolo, anodino e nelle interpretazioni una fastidiosa patina di compitino diligentemente svolto, musicista che anche a quaranta anni suonati dava l’impressione, ascoltandola, di una brava quindicenne (si ascolti la sua esecuzione di “Ondine” dal “Gaspard de la Nuit” di Maurice Ravel incisa in una raccolta di dischi commemorativi dell’attività didattica del suo insegnante, il concerto in si bemolle K. 450 di Wolfgang Amadeus Mozart registrato in un concerto tenuto all’auditorium della Rai di Napoli e qualche altra cosa similmente documentata), era afflitta (ed affliggeva gli allievi) per una forte insicurezza nei confronti degli esami che essi dovevano affrontare sì da rinviarglieli puntualmente all’ultima sessione utile. Figurarsi quindi per la possibilità di spronare il discente al cimento pubblico fuori dalle mura del conservatorio! Questi alcuni suoi precetti musicali notevoli. La quarta ballata di Fryderyk Chopin inizia con un suono più volte ripetuto che pone problemi interpretativi. È da eseguirsi di volta in volta più forte, o man mano più piano, ed in che misura, per conferire al frammento la migliore espressività? La pianista suggeriva di eseguirli tutti con la stessa intensità, si sarebbe eluso il problema. Ci si sarebbe preclusi sicuramente la possibilità di realizzare qualcosa di particolarmente bello, ma di certo si sarebbe evitato il rischio di fare qualcosa di brutto. Così, accompagnando al pianoforte un altro musicista dal suono non troppo udibile, consigliava di suonare, ciononostante, al di sotto della sonorità di quello, per non prevaricarla, come è canonico uso di chi svolge un accompagnamento. Ma provo ad immaginare cosa sarebbe restato da ascoltare agli spettatori. Infine, suonando da solista con orchestra, suggeriva di ridurre al minimo, quando addirittura non evitare del tutto, quelle fluttuazioni di velocità necessarie ai fini espressivi. Certo si sarebbe perso in espressività artistica, ma, stornando il rischio di perdere sincronia con l’orchestra, si sarebbe garantito il risultato artigianale dell’esecuzione. E pensare che Vladimir Horowitz, incontestabilmente uno dei maggiori pianisti del XX secolo, ebbe a dire che un virtuoso non è tale se non sa correre rischi! Per il resto la musicalità era ritenuta un dono innato sul quale c’era ben poco da fare per migliorarlo. Né fu mai detto altro per conseguirla. Ritenendomi un’indole ribelle, ebbe a chiedermi una volta perché inclinassi a fare a modo mio. Al candore della mia risposta, secondo la quale se pure ella avesse saputo comunicarmi tutta la sua scienza (e qualcosa certo si sarebbe perso in questo particolare travaso) ed io avessi saputo cogliere tutto quanto da lei comunicatomi (ed anche stavolta qualcosa certo si sarebbe perso), meglio di lei non avrei mai saputo suonare, intendendo dire che il pianismo non avrebbe mai evoluto, anzi, in capo a due o tre generazioni di allievi si sarebbe estinto (mai mie parole furono più profetiche!), mi guardò perplessa, non proferì parola, e riprendemmo come nulla fosse stato la lezione. Lo stesso quando mi chiese perché non adottassi una scelta delle dita da utilizzare di volta in volta, comoda e costante, ed io le risposi che, almeno finché fossi stato studente, avrei dovuto esercitare indifferentemente tutte le dita, anzi, paradossalmente, le più scomode, per il raggiungimento di una loro eguaglianza assoluta. Un allievo di un allievo di Vitale mi ha recentemente raccontato che il suo insegnante faceva lezione con un taccuino dove aveva annotato tutti i suggerimenti didattici che Vitale aveva impartito in passato ad altri studenti, senza tener conto che gli equilibri tecnici e musicali in una esecuzione non sono mai gli stessi per cui ciò che può essere utile in una interpretazione non lo è necessariamente in un’altra, né ha molto senso ripetere passivamente interpretazioni altrui. Non diversamente seppi da un’altra studentessa di quando la sua insegnante, allieva di Vincenzo Vitale, portò una giovane candidata all’esame di diploma a fare ascoltare da un altro allievo di Vitale il quale dopo l’ascolto mostrò perplessità perché la collega non aveva fatto fare alla candidata un certo “rallentando” in un particolare punto, come in passato Vitale aveva suggerito ad un allievo esecutore della stessa pagina. Pianista straordinario, Enrico Fagnoni, già giovanissimo, stupiva tecnicamente e musicalmente. Fu affidato alle cure pianistiche di Vincenzo Vitale che, c’è da opinare, non apprezzava l’indole musicale sin troppo indipendente del fanciullo. Fatto sta che fu affidato a Massimo Bertucci, con ogni probabilità il didatta più rigoroso tra i suoi allievi. Fu la fine per il promettente giovane concertista. Oggi Enrico Fagnoni, che ancora bambino già si esibiva in concerti pubblici con orchestra, uomo maturo, suona sulle navi da crociera per ascoltatori dai gusti facili, come attualmente si vede documentato su Internet, sfoggiando sempre brillante manualità e coinvolgente musicalità spontanea, spessore intellettuale praticamente nullo. Ricordo infine, intorno agli anni Settanta del secolo scorso, cicli di trasmissioni radiofoniche dedicati di volta in volta a compositori diversi e curati da esperti che proponevano ascolti. Quando fu la volta de “Il mio Liszt”, questo il titolo della serie, fu assegnata a Vincenzo Vitale che per tutta la durata del ciclo non fece altro che proporre esclusivamente esecuzioni di Michele Campanella ed una sola di Laura De Fusco, dimostrando così o scarsa, ma improbabile, conoscenza di un panorama interpretativo ben più significativo di quello che poteva proporre l’allora suo giovane pupillo, o una ostinazione ad imporlo prepotentemente, a dispetto di rigore e correttezza intellettuale, la qual cosa non contrasta minimamente con un atteggiamento comune a molti dei suoi allievi che mal vedevano i discepoli suonare con pianisti di altre scuole o seguire precetti altrui. Questa visione dell’arte così chiusa, ristretta, timorosa, medievale ed esclusivista, contraria a proficui scambi, forse è una causa solo possibile, ciò che però è certo e ben chiaro, a trenta anni dalla scomparsa del fondatore, è che la scuola di Vincenzo Vitale copre attualmente il ruolo storico di flebile rantolo di una scuola pianistica partenopea un tempo estremamente gloriosa, oggi, purtroppo, praticamente estinta. |
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