Tasse: da Apple a Google, la sfida dell’Unione Europea alle corporation 2.0
 











L’uomo su cui le amministrazioni finanziarie di mezza Europa vorrebbero mettere le mani è italiano. Si chiama Luca Maestri: è un cinquantenne romano. E, per essere precisi, l’inseguimento nei suoi confronti scatterà da settembre, quando sarà nominato direttore finanziario della multinazionale Apple.
Maestri, attuale vice del dimissionario Peter Oppenheimer, in questo momento sta prendendo le misure alla montagna di denaro che dovrà gestire. Ovvero 146 miliardi di dollari circa, secondo quanto risulta dall’ultimo bilancio consolidato depositato dalla società californiana che spopola con prodotti quali iPad e iPhone. Giusto per dare una misura di questa immensa mole di cash, basti dire che due terzi degli Stati di tutto il mondo hanno un Prodotto interno lordo (Pil) inferiore e che in questa classifica Apple verrebbe subito dopo l’Ecuador e prima della Bielorussia.
Più che inseguito, sarebbe meglio dire che Maestri è per le autorità fiscali un
chiodo fisso, perché ovviamente nessun mandato di cattura pende sulla sua testa. Ciò che vogliono i governi europei  è trovare il metodo per costringere il gruppo guidato da Tim Cook a pagare tasse adeguate ai suoi immensi utili, che adesso sfuggono per la gran parte a imposizione fiscale. Una missione tutt’altro che semplice, quella delle autorità, ma allo stesso tempo sempre meno rinviabile, vista la pessima congiuntura economica e il passivo cronico di molti bilanci statali.
Il corno di questa complicata caccia alla volpe lo ha suonato, per ultimo, il commissario europeo alla Concorrenza, Joaquín Almunia. Lo scorso 11 giugno lo spagnolo ha giocato di sponda rispetto al problema, attaccando Irlanda, Olanda e Lussemburgo per i loro regimi fiscali talmente agevolati da creare distorsioni nel mercato unico europeo, a favore di tutte quelle corporation che ne approfittano.
Almunia non si occupa di fiscalità ma di mercati e antitrust: nella sua prospettiva, regimi fiscali che
offrono agevolazioni così consistenti possono qualificarsi come aiuti di Stato. Vietati dalla legislazione comunitaria. Il commissario ha citato i casi Apple per l’Irlanda, Starbucks per l’Olanda e Fiat Finance and Trade per il Lussemburgo. Almunia, che è commissario uscente (con il rinnovo del Parlamento europeo ci sarà anche una nuova commissione), lascerà al suo successore il compito di chiudere positivamente la procedura d’infrazione, nella speranza di imporre una forma di compensazione a questi tre Stati, se non cambieranno le loro politiche.
Dal 16 luglio il nuovo presidente della Commissione sarà ufficialmente il lussemburghese Jean Claude Junker, e bisogna auspicarsi che abbia la necessaria sensibilità per affrontare con decisione il problema, che vale tra i mille e 1.300 miliardi di euro l’anno di mancati introiti fiscali per i Paesi dell’Unione, grazie a una serie di buchi legislativi che consentono questi slalom tra i diversi erari d’Europa.
L’offensiva di Almunia non
è l’unica che arriva da Bruxelles. Un altro fronte aperto è quello che mira ad impedire alle multinazionali 2.0, ma non solo a quelle, di trasferire gli utili delle loro attività verso i Paesi a bassa tassazione, trattenendo i costi in quelli a fiscalità elevata, dove i profitti quasi si annullano e le tasse pagate sono poche. Non sarà semplice prendere decisioni cogenti, perché in materia fiscale le decisioni vanno assunte all’unanimità in sede di Consiglio europeo. E convincere irlandesi, lussemburghesi e olandesi a cambiare norme che attirano grandi capitali e creano posti di lavoro sarà impresa al limite dell’impossibile.
Anche perché l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, cui è demandato il compito di creare il nuovo ordine fiscale mondiale, non sembra aver fretta di modificare i suoi schemi, basati su un’arcaica nozione di stabile organizzazione (le corporation sono tenute a pagare le tasse solo dove hanno un’organizzazione strutturata e stabile)
che fa acqua da tutte le parti.
In qualche modo, però, bisognerà intervenire, perché la fuga del gettito fiscale oltre-frontiera, ai tempi del commercio digitale, sta mettendo in difficoltà le maggiori economie. La controprova? Basta scorrere i bilanci delle filiali italiane dei colossi del Web per farsene un’idea. Google Italy, ad esempio: nel 2013 ha denunciato un fatturato di 49 milioni di euro, con utili ante imposte di 3,6 milioni, sui quali ha pagato 1,8 milioni di tasse. Una pagliuzza, se si considera che l’azienda fondata da Larry Page e Sergey Brin è la numero uno del mercato della pubblicità online, il cui valore in Italia è stimato da Nielsen in 1,5 miliardi. I ricavi di Google, tuttavia, volano direttamente in Irlanda, dove ha sede la società che vende la pubblicità in Italia, mentre la filiale milanese svolgerebbe unicamente - è la tesi del gruppo - attività di sviluppo, di marketing e di supporto alla vendita dei servizi della multinazionale.
Scorrendo il bilancio
di Apple Italia,  28,4 milioni di euro di fatturato e meno di 5 milioni di tasse pagate, ci si imbatte nel medesimo schema, fatto di supporti alle vendite e servizi di marketing fatturati ad altra società del gruppo, pure lei irlandese. Curioso che due società in guerra globale all’ultimo software (Android contro iOS) siano poi così consonanti nel modello di sviluppo delle consociate. Apple ha anche un’altra filiale a Milano, la Retail Italia, proprietaria dei 14 negozi dove vende direttamente i propri prodotti. Nel 2012 la società ha perso 9 milioni di euro, forse colpita dalla crisi che morde l’Italia, andando a credito di tasse per 2,5 milioni. Nel 2013, invece, sono arrivati i tanto attesi utili netti, per 2,4 milioni, dopo aver pagato 3 milioni di tasse. Numeri poco convincenti per la Procura di Milano, che ha aperto un’indagine ipotizzando una mancata contabilizzazione di ricavi per circa un miliardo di euro tra il 2010 e 2011, imputati alla Apple Sales International con sede in Irlanda, dove la tassazione di base è al 12,5 per cento (ma Apple paga meno) e dove restano tutti i profitti.
Se volessimo andare avanti con Facebook Italy (3,8 milioni di euro di fatturato 2013), filiale del social network creato da Mark Zuckerberg, il colosso dell’e-commerce Amazon Italia Logistica (32 milioni di euro i ricavi), il sito di aste eBay, che ha chiuso l’esercizio passato con ricavi nulli, la musica non cambierebbe. Lo schema per l’Italia è sempre lo stesso: o marketing e supporto alle vendite, che generano dall’Irlanda, o mera movimentazione di merci, come nel caso di Amazon. Per inciso, in totale queste società hanno pagato nel 2013 tasse all’Erario per 11 milioni di euro, a fronte di business che - pur in mancanza di dati certi - viaggiano su ordini di grandezza da centinaia di milioni.
La struttura di questi gruppi, peraltro, pare studiata a tavolino per minimizzare i rischi fiscali. Prendiamo lo svolgimento delle assemblee: in tutti i casi i rispettivi
amministratori erano assenti, e le pratiche sono state sbrigate da avvocati locali in qualità di delegati. Per non parlare della società di revisione, che è la Reconta Ernst & Young per tutte, a dispetto della gelosia delle multinazionali per i loro segreti.
In mancanza di una legislazione fiscale che riconosca queste nuove fattispecie di commercio online internazionale, l’unica speranza è la magistratura? Francesco Tundo, tributarista con cattedra all’Università di Bologna, è cauto: «Per inseguire i redditi imponibili di queste società oggi si rischia di fare un eccessivo affidamento sulla nozione di “abuso del diritto”» dice a “l’Espresso”, riferendosi all’accusa, spesso cavalcata dalle autorità nelle loro battaglie contro i grandi gruppi, di utilizzare strutture fiscali legittime in modo distorto, al fine di eludere.
«Non è possibile che amministrazioni finanziarie o procure siano chiamate a colmare i vuoti legislativi che permettono a queste multinazionali di conseguire
vantaggi, solo perché il concetto classico di stabile organizzazione non è adeguato. È necessario che, prima, i legislatori adeguino le norme alla nuova realtà», ragiona Tundo. Che fa una proposta: «Un’idea efficace potrebbe consistere nell’istituzione, nel medio-lungo periodo, di un’amministrazione fiscale comunitaria, che andando al di là delle pur efficaci azioni di coordinamento tra agenzie nazionali, consenta un’azione unitaria».
Nel breve, però, bisogna fare i conti con le zeppe che molti Paesi mettono a chi cerca di combattere l’elusione. Gli Stati Uniti, che pure hanno tuonato per primi contro Apple, rea di mantenere in Irlanda e in altri paradisi fiscali somme gigantesche per evitare le aliquote americane (35 per cento la tassa sugli utili), permettono al Delaware di mantenere un regime societario assolutamente fumoso per le società, di cui poi approfittano senza fallo tutti i nuovi colossi, Facebook e Google, eBay e Amazon. «Le aziende mettono in campo lobby potentissime
e, finora, hanno reso impossibile cancellare i buchi legislativi che consentono le situazioni più critiche», sostiene Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze. «Non sono certamente un fautore dell’uso della magistratura per scopi di supplenza a queste falle ma», dice Visco,   «al momento, non vedo alternative». La caccia al tesoro di Maestri è solo all’inizio.Alfredo Faieta,l’espresso