Miracolo Adriatico? Conservare è meglio che trivellare
 











Lo scorso 18 maggio, Romano Prodi, in un editoriale per il Messaggero, ha chiesto alla sinistra italiana uno sforzo di innovazione per superare il tabù delle trivellazioni, specie in Adriatico. Secondo Prodi, un ritorno in grande stile delle trivellazioni in Italia non potrebbe che produrre benefici diretti, attraverso un aumento delle entrate dello Stato, e indiretti, con un miglioramento della “bolletta energetica” e vantaggi in termini occupazionali. Federica Guidi, ministro dello Sviluppo Economico con una lunga esperienza in Confindustria, ha prontamente dato via libera ad esplorazioni e trivellazioni.
In un’ipotetica risposta al Presidente Prodi, ecco spiegato perché, per l’Italia e per gli italiani, è assai meglio conservare che trivellare.
Lei scrive testualmente che il raddoppio della produzione italiana (specie in Adriatico) consentirà di “aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi di euro ogni anno”. Gli studi di
Nomisma, sui quali lei stesso si è basato, valutano le attuali entrate fiscali derivanti dall’estrazione di idrocarburi in Italia1,3 miliardi di euro l’anno. Se così fosse, le entrate dello Stato aumenterebbero di 1,3 mld e non di 2,5 mld ogni anno nel caso in cui si raddoppiasse la produzione!
Mi domando poi come sia possibile che lo Stato italiano non abbia autonomi strumenti per quantificare con esattezza gli introiti derivanti dallo sfruttamento delle ricchezze naturali e si veda costretto ad affidarsi ad una società privata per venirne a capo. Basterebbe, in questo caso, prendere ad esempio la trasparenza norvegese.
Mi permetto anche di farle notare che tutti i governi che hanno propagandato miracolosi raddoppi della produzione nazionale raramente hanno raggiunto gli obiettivi prefissati. E’ poi assai difficile che un improbabile raddoppio della produzione possa produrre un raddoppio delle entrate fiscali in un contesto culturale e politico in cui le imprese lamentano una
tassazione eccessiva e premono sui governi con ogni mezzo per ottenere una riduzione della fiscalità.
Riguardo il possibile impatto benefico sulla “bolletta energetica italiana”, è certamente vero che un aumento della produzione nazionale di idrocarburi ne permetterebbe una riduzione. Ma per ridurre la bolletta energetica basterebbe ridurre i consumi, migliorare l’efficienza del trasporto pubblico, aumentare il parco macchine elettriche, etc. Insomma, vi sono molti altri modi per incidere - includendo con ciò un dialogo politico con i paesi produttori in cui si scambi l’energia con la tecnologia, come si faceva negli anni ‘70 - che sarebbero ben più auspicabili rispetto al rilancio in grande stile delle trivellazioni.
Lei sottolinea anche presunta “neutralità” rispetto al proseguimento dello sforzo per la promozione delle energie rinnovabili. Anche qui, nutro dei dubbi. Le imprese pubbliche privatizzate hanno diminuito i loro investimenti nella ricerca e nell’innovazione,
proseguendo con ciò una tradizione della grande impresa privata italiana che preferisce le rendite di posizione ai rischi imprenditoriali. Se si consente a queste imprese di investire nella tradizionale estrazione degli idrocarburi senza forzarle a reinvestire i proventi nelle “rinnovabili", questo avverrà assai probabilmente a discapito di investimenti in progetti più innovativi.
L’industria è un pilastro di una società avanzata e la cultura industriale è un indispensabile patrimonio da non disperdere(pena la trasformazione dell’Italia in un parco giochi per turisti). Ignorare le conseguenze ambientali dell’estrazioni di idrocarburi in Adriatico non costituisce però un’adeguata difesa della cultura industriale italiana. Come si fa a sottovalutare i danni prodotti dalla presenza di centinaia di piattaforme in un mare piccolo, turistico e importante per la pesca? Come si fa a non considerare i problemi legati allo smantellamento futuro di queste piattaforme? Come si fa ad ignorare
del tutto il fenomeno della “subsidenza” rispetto al quale esiste un’abbondante, se non univoca, letteratura?
Non solo le tasse in Italia sulla produzione di idrocarburi sono basse ma le “royalties” sono bassissime. La royalty di 1/8 (16,5% circa) si è affermata nell’industria mineraria fin dall’età moderna e poi si è trasmessa all’industria petrolifera americana. In una regione europea come la Bassa Sassonia le royalties sono oggi pari al 37%: perché non imitiamo i tedeschi sulle buone pratiche piuttosto che sull’assurda religione del pareggio in bilancio?
Il livello risibile delle royalties pagate sull’estrazione degli idrocarburi in Italia (tra il 4 e il10 per cento) non alcun senso. Tasse e royalties andrebbero aumentate in misura appropriata: ciò consentirebbe di ricavare almeno parte significativa di quelle maggiori entrate per lo Stato che lei auspica tramite un incremento della produzione.
Nel valutare l’appropriato livello di fiscalità rispetto alla produzione di
idrocarburi bisogna considerare che essi sono un dono naturale e andrebbero estratti esclusivamente negli interessi dei cittadini, limitando il profitto alla “normale” remunerazione del capitale investito. La Gran Bretagna, dopo la vittoria elettorale di Margaret Thatcher nel 1979, rappresenta il caso emblematico di come le ricchezze naturali della collettività (in questo caso del Mare del Nord) siano state sfruttate a beneficio di un ridottissimo gruppo di capitalisti che ne hanno ricavato giganteschi profitti- il diffuso desiderio di secessione in Scozia sta a testimoniare i rischi della coesione nazionale generati dalla dilapidazione delle risorse naturali.
Almeno da mezzo secolo negli stessi paesi esportatori di petrolio si è sviluppata una corrente di pensiero che va sotto il nome di “conservazionismo”. I conservazionisti considerano gli idrocarburi un bene prezioso e non rinnovabile, pensano che bruciarli in immense quantità per produrre energia non sia il modo più
intelligente di utilizzarli, e ritengono che quanto meno gas e petrolio vengono estratti, tanto più si garantirebbe il benessere delle generazioni future. In fondo, non dilapidiamo in un momento di difficoltà nemmeno 70 mld di riserve auree di Bankitalia, sebbene queste siano teoricamente rinnovabili!
Se questi ragionamenti riguardo la priorità della conservazione sono nati in territori giganteschi e relativamente spopolati come il Venezuela, non dovrebbe forse la classe dirigente di un paese piccolo, densamente popolato e con così grandi problemi di dissento territoriale come l’Italia, farne un assunto di fondo? Giuliano Garavini