I due piani di Renzi per la corsa al Colle
 











Era la sera di un lunedì di fine inverno, il 10 febbraio: quel giorno il premier era atteso al Quirinale per l’ora di cena, lo aveva annunciato lui stesso dai giochi invernali di Sochi in Russia. E l’incontro ci fu, ma con un clamoroso scambio di posti e un commensale a sorpresa. Invece di Enrico Letta, inquilino di Palazzo Chigi ancora soltanto per qualche giorno, quella sera al Colle salì il nuovo segretario del Pd, Matteo Renzi. Fino a quel momento il Quirinale era apparso ambiente estraneo, per non dire ostile, alla retorica della rottamazione, appena qualche settimana prima l’ex sindaco di Firenze si era presentato in grigio nel salone delle feste per la cerimonia degli auguri di Natale, unico in abito chiaro, una mosca bianca nella folla dei notabili repubblicani fasciati di scuro. Quella sera, invece, ogni diffidenza si sciolse, nel colloquio informale, quasi familiare, tra il giovane leader, Giorgio Napolitano e la moglie Clio.
Un
guardarsi in faccia, a tratti per così dire intimo, tra due uomini divisi da una differenza di cinquant’anni di età e ancor più distanti per cultura, sensibilità, esperienze, e che pure erano chiamati dalle condizioni a trovare un’intesa. Il momento decisivo, in cui la legislatura ha cambiato verso.
Via il governo Letta, che per mesi al presidente era apparso l’unico in grado di mantenere la stabilità necessaria agli occhi delle cancellerie europee. E con il cambio a Palazzo Chigi, una partita in cui tenere insieme il governo Renzi, la riforma della Costituzione. E, unico non detto ma elemento essenziale della svolta, i tempi e la scelta del successore di Napolitano. Il vero patto che regge la nuova stagione politica, meno pubblicizzato di quello del Nazareno tra il capo del Pd e Silvio Berlusconi, ma più resistente, più tenace e forse più carico di conseguenze per il futuro.
In questi mesi, da quel momento in poi, Matteo Renzi non ha mai parlato di Quirinale. Mai una sillaba sui
potenziali candidati o sui criteri di scelta. Neppure una smentita di rito nei confronti di chi scrive che nel patto con Berlusconi ci sarebbe il veto sul nome di Romano Prodi. E nessuna conferma, ci mancherebbe, sulle voci per cui le sue preferenze andrebbero a una donna, il ministro della Difesa Roberta Pinotti. Dissimula distacco, come se la cosa non lo riguardasse. E invece il premier sa bene che la scelta del capo dello Stato è la madre di tutte le battaglie, l’ora felice oppure orribile in cui le leadership si consolidano, o vanno a sbattere.
È stato così per un capo potentissimo della Prima Repubblica, il toscano Amintore Fanfani, cui dice di ispirarsi il ministro Maria Elena Boschi, che non riuscì mai a veder premiato il suo candidato al Quirinale per colpa dei franchi tiratori, né tantomeno a farsi votare dal suo partito, la Dc, fino a subire l’onta dell’offesa in una scheda anonima nel 1971: «Nano maledetto/mai sarai eletto».
Precedenti che consigliano prudenza al
premier fiorentino, anche perché, con il primo passo della riforma costituzionale che arriva a destinazione, con la prima lettura a Palazzo Madama, lo spettacolo inedito di un’assemblea elettiva che riforma se stessa, taglia due terzi dei suoi componenti e le loro future indennità, per la prima volta dal 1948 saranno modificate anche le regole per l’elezione del presidente della Repubblica: ritoccato il quorum di voti necessario, stravolta la platea dei grandi elettori da cui spariranno gli attuali 315 senatori sostituiti dai futuri cento (consiglieri regionali, sindaci e senatori nominati a tempo).
Non si sa quando entrerà in vigore questo delicato pezzo di riforma che incide sulla scelta del garante delle istituzioni, diventato il regista del sistema negli ultimi anni a cavallo tra il primo e il secondo mandato di Napolitano. E soprattutto nei palazzi comincia a circolare una domanda niente affatto accademica: il successore dell’attuale inquilino del Quirinale sarà scelto con la
vecchia Costituzione, o con la nuova, in una prossima legislatura?
Non è una questione soltanto teorica, da professoroni costituzionalisti. Renzi ha sempre giurato che la legislatura arriverà alla fine naturale, nel 2018. E che il suo governo, soprattutto sul fronte economico, è impegnato in un programma di mille giorni: un tempo lungo. Visto dal lato del Quirinale, il punto di vista di Napolitano, l’orizzonte è invece decisamente più breve. Nell’ultimo incontro con la stampa parlamentare, il 22 luglio, il presidente ha provato a sgombrare il campo dal «gioco sterile delle ipotesi, previsioni poco fondate e premature» sulla durata del suo bis al Colle, ma al tempo stesso ha fornito almeno due indizi sui tempi di uscita, anzi, tre.
Il primo: «Non si devono dare interpretazioni estensive a situazioni e necessità, essenzialmente istituzionali, che possano far considerare opportuna e utile una mia ulteriore, eccezionale permanenza nell’incarico».
Il secondo: «Il pesante carico di
doveri e funzioni, alla mia età, ben nota».
Il terzo: «Ho ritenuto opportuno e necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase impegnativa del semestre italiano di presidenza europea».
Tre indicazioni che svelano con chiarezza la strada preferita da Napolitano. Arrivare al 31 dicembre, data di chiusura della presidenza italiana della Ue. Dopo quella data, ogni momento per lasciare sarà buono. E non ci saranno nuovi appuntamenti istituzionali che possano convincere il presidente a cambiare quello che è un suo diritto e che in cuor suo ha già deciso: festeggiare il novantesimo compleanno, il 29 giugno 2015, da privato cittadino.
Una road map - è il fatto nuovo degli ultimi giorni - che ora si intreccia con il calendario delle riforme renziane. Il Senato che chiude le votazioni sulla Costituzione prima della pausa di agosto era l’obiettivo dichiarato del premier, ma era tutt’altro che scontato riuscire nell’intento. Il successo dell’operazione, tra canguri,
tagliole, voti segreti a rischio e risse parlamentari, apre la strada a un doppio binario: è possibile ora che in autunno la Camera completi la prima lettura della riforma costituzionale, mentre il Senato voterà sulla legge elettorale, l’Italicum, nella sua ennesima versione, questa volta con le preferenze (destinate, almeno in apparenza, a restituire un pallido potere di scelta sui deputati ai cittadini) e con i premi e le soglie di sbarramento modificate.
Se l’agenda viene rispettata, in primavera Camera e Senato potrebbero votare la riforma costituzionale in seconda lettura. Con una maggioranza dei due terzi entrerebbe in vigore subito, ma Renzi ha già annunciato che «in ogni caso» chiederà agli italiani di esprimersi sulla Costituzione riscritta con un referendum, a segnare il nuovo inizio. Magari nel giugno 2015, quando Napolitano starà per compiere novant’anni.
Un intreccio di date, di esigenze politiche e personali. È probabilmente questa «l’interpretazione estensiva del
mandato» cui fa riferimento il presidente (per escluderla): che qualcuno possa chiedergli di restare in carica ancora qualche mese, per suggellare la sua seconda presidenza, evento eccezionale, con la riscrittura della Costituzione finalmente portata a termine, dopo tanti anni di appelli a vuoto. E che possa essere Napolitano il presidente che firma la nuova Carta, co-fondatore a pieno titolo della nuova Repubblica, accanto al giovane premier che in una sera di febbraio salì al Colle a chiedere di essere messo nelle condizioni di provarci. A fare il governo e le riforme.
Se così fosse, i tempi della successione a Napolitano si allontanerebbero. Ma soprattutto cambierebbe fisionomia il nuovo inquilino del Quirinale. Una nuova fase eccezionale: dopo un presidente novantenne, rieletto per l’incapacità dei partiti di mettersi d’accordo, c’è ora la necessità di un presidente di transizione, a fare da ponte tra le vecchie e le nuove istituzioni, eletto con il vecchio sistema (l’attuale: i
mille grandi elettori, i deputati, i senatori, i delegati regionali) da questo Parlamento, uscito dal voto a sorpresa del 2013, con i suoi fragili equilibri, ma proiettato verso il futuro, con un assetto istituzionale totalmente diverso. Fortemente sbilanciato verso Palazzo Chigi. Modello Enrico De Nicola, capo di Stato provvisorio mentre si scriveva la Costituzione. Il presidente della nuova Italia.
L’identikit di un presidente-ponte, garante non più della sacralità della Costituzione - com’è stato per quasi settant’anni, con l’eccezione del Picconatore Francesco Cossiga - ma del cambiamento, è coerente con un doppio profilo. Un nome politicamente forte, in grado di gestire il passaggio, in cogestione con Renzi. Oppure un presidente meno esposto, chiamato a far da notaio alle scelte dei partiti. Di certo la maggioranza che eleggerà il nuovo presidente non può prescidendere dall’asse Pd-Forza Italia, o meglio Renzi-Berlusconi, che ha retto finora alla prova dei voti parlamentari
sulle riforme. Più che un patto segreto, è un’ovvietà: è questo l’arco costituzionale su cui si regge la Nuova Repubblica.
In teoria basta questo a escludere dai giochi il candidato con il curriculum più forte, Romano Prodi: un anno fa l’ex Cavaliere minacciò di abbandonare il Paese se il Professore, suo nemico storico, fosse stato eletto al Quirinale. Ma da quel momento è passata un’era politica. E, sorpresa, è stato il “Giornale” di casa Arcore a titolare a tutta pagina «Prodi scagiona Berlusconi» il giorno della deposizione dell’ex premier nell’aula del tribunale di Napoli al processo per la compravendita dei senatori in cui è imputato Berlusconi.
La pace si firma con i nemici, è antico adagio. Ma se Prodi fosse un nome troppo pesante, la lista dei candidati è lunga: giudici della Consulta, da Giuliano Amato a Sabino Cassese a Sergio Mattarella, il sindaco di Torino Piero Fassino, Roberta Pinotti che non è soltanto la suggestione della donna al Quirinale. E Pier Ferdinando
Casini   che spera in una figura terza, modello Napolitano, magari un ex presidente della Camera sganciato da un partito di appartenenza. Insomma, uno come lui. Marco Damilano,l’espresso