Spread, ecco perché l’Italia torna sulle montagne russe Mario Draghi
 











Non si tratta di un attacco concertato contro l’Italia e tantomeno contro la finanziaria forse eccessivamente ottimista varata dal suo primo ministro Matteo Renzi. Questa volta le cause dello sforamento dello spread italiano oltre quota 200 e dello scivolone di tutte le borse europee, Milano in testa, è banalmente riconducibile a un insieme di fattori, nessuno dei quali da solo sarebbe determinante nel creare lo sconquasso ma che presi insieme fanno ragionare sul perché nelle settimane a venire i mercati finanziari assomiglieranno sempre più a gigantesche montagne russe.
Intanto partiamo da un dato esemplificato dai record storici di Wall Street: da un paio d’anni a questa parte i mercati mondiali hanno preso a crescere vertiginosamente regalando ritorni sostanziosi a chi ha avuto il coraggio di investirvi e anticipando, magari un pelino troppo, la stabilizzazione non solo finanziaria ma anche economica della zona euro. Che a oggi però non si
vede. O meglio, dopo una stagione in cui la Troika (ovvero il trio formato da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione europea) ha esaltato i successi dei paesi sotto tutela (diretta o indiretta) come Spagna e Irlanda ma anche Portogallo e Grecia, ora i numeri negativi di una Germania indebolita e i litigi di questa con Francia e Italia, riottose verso la sua ricetta di austerità, hanno messo in allarme gli investitori. Che si sono accorti di avere spinto troppo sull’acceleratore e di avere creduto troppo in una rapida guarigione di tutta l’Unione europea.
In Germania a calare, complice un’economia mondiale complessivamente debole, sono state soprattutto le esportazioni, fonte storica del successo teutonico, e così le stime di crescita del Pil di quest’anno sono state abbassate dall’1,8 all’1,2 per cento, per non parlare di quelle dell’anno prossimo che anziché sfiorare il 2 per cento si sono appiattite sull’1. Dettaglio che, insieme a una serie di
riforme anti-austerità sul mercato del lavoro varate da un governo in alleanza con i socialisti, ha messo in discussione il suo ruolo di locomotiva dell’Unione europea.
In Grecia, lo spauracchio di elezioni anticipate in primavera che potrebbero portare al potere il governo di Syriza, il partito della nuova sinistra nato in opposizione alle drastiche misure di austerità imposte ad Atene, unitamente alla volontà dell’attuale premier Antonis Samaras che, in vista delle elezioni, vuole recuperare la sovranità economica con un anno di anticipo rispetto al programma della Troika, ha riportato l’attenzione su quello che sembrava un problema ormai superato. Un ritorno alle origini della crisi economica che ha richiamato lo spettro del 2011.
E poi ci sono l’orgogliosa ma sempre più indebitata Francia – principale destinazione europea dell’export tedesco – che ha deciso di sforare nuovamente il limite del deficit del 3 per cento in barba alle pressione del potente ministro delle finanze
tedesche Wolfang Schauble, e la sclerotica Italia, che tanto promette e poco mantiene. Insomma, ultimamente l’economia reale non ne ha proprio voluto sapere di aderire a quelle che sono state le aspettative dell’economia finanziaria. I mercati se ne sono finalmente accorti e hanno corretto il tiro. Potrebbero farlo di nuovo.
Tra l’altro a far paura sono i risultati che dovrebbero uscire a fine ottobre dai test sulla capacità di tenuta delle principali banche europee (le banche sotto esame a fine mese saranno circa 130). Nel mirino dei controllori, tra le altre, ci sono alcune banche italiane e perfino alcune casse di risparmio tedesche su cui la crescita baldanzosa del Paese aveva fin qui steso un velo colorato.
Ma non basta. Come ha segnalato Gillian Tett sul “Financial Times”, l’immensa liquidità con cui le banche centrali, Federal Reserve in testa, hanno inondato il mercato dal 2008 ad oggi, non si è poi tradotta in maggiore soldi a disposizione di investitori e consumatori.
Anzi, gli investimenti nell’economia reale globale si sono tristemente ridotti. Come mai? I motivi vanno ricondotti al moderno “inceppamento” dei sistemi finanziari dovuto almeno a un paio di ragioni.
Innanzitutto gli investitori si stanno comportando sempre più spesso come un gregge, andando nella stessa direzione, aiutati in questo anche da modellini matematici che operano tutti in base agli stessi dati e le stesse formule. Dunque è diventato più difficile fare incontrare la domanda con l’offerta. Poi ci sono le dimensioni dei fondi d’investimento globali, che sono diventate sempre più grandi. Nei mercati emergenti, ad esempio, i primi 20 gestori detengono il 30 per cento di tutte le azioni e le obbligazioni: circa il doppio di dieci anni fa. Ne va da sé che le loro scelte finiscono per influenzare massicciamente e di colpo i listini globali.
Infine ci sono le prossime mosse delle principali banche centrali, le vere “domine” di questa crisi. Salvo rallentamenti, la banca
centrale statunitense, forte di un’economia la cui crescita si aggira tra il 3 e il 4 percento, dovrebbe mettere fine entro questo mese al suo programma di “quantitative easing”, ovvero di inondazione del mercato di liquidità, dettaglio che da settimane sta tenendo gli investitori sul chi va là. Al contrario, la banca centrale europea è impegnata in un duro braccio a braccio con Schauble proprio sull’opportunità di lanciare il famoso bazooka e impegnarsi in un profondo acquisto di obbligazionario e cartolarizzazioni garantite da attività finanziarie/beni immobili per permettere all’economia di finanziarsi a tassi irrisori.
La Germania fino a oggi si è opposta con vigore, impaurita anche dall’effetto che tassi vicino allo zero potrebbero avere sulle sue compagnie assicurative e sui risparmi pensionistici dei cittadini. Ma se il suo ruolo di locomotiva d’Europa dovesse davvero venire meno, allora forse il bazooka di Mario draghi potrebbe finalmente prendere la mira. Federica
Bianchi,l’espresso