ANDREJ WAJDA
CINEMA E COSCIENZA STORICA .

 







di Antonio Napolitano




Dott.Korczak

Un’altro regista da tempo piuttosto trascurato dai nostri distributori è il polacco Andrej Wajda autore di fama internazionale e di indiscussa profondità.
Nato a Suwalkj nel 1926 ed ancora attivo, egli ha -nel 2007- rievocato, con misurato sdegno, la tragedia dell’eccidio dei tanti militari suoi compatrioti in "Katyn" un documentato reportage, alieno da qualsiasi sensazionalismo (e , forse perciò, non fatto circolare sui nostri schermi, avidi di "successi" al box office).
Del resto è stato quasi sempre presente in lui il tema della coscienza dei fatti (e misfatti) storici, alcuni personalmente vissuti al tempo della seconda guerra mondiale. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti sotto la guida del pittore B.Wroblensky, aderente alla corrente "neorealista", Wajda si diplomerà in regia  cinematografica a Lodz, e lavorerà per qualche anno come assistente di A.Ford.
Il suo esordio di autore coinciderà con "l’ottobre polacco", quel movimento che, fin dal 1954, si proponeva la destalinizzazione del cinema "democratico-popolare".
E, infatti,"I dannati di Varsavia" ("Kanal",1957) denunciava in modo drammatico l’inazione dell’esercito sovietico al momento dell’insurrezione della capitale polacca contro i nazisti.
In esso, si trovano le giuste correlazioni tra vicende personali e collettive, finendo col mostrare come la dignità sia un valore al contempo esistenziale e politico, al di là di ogni  bla-bla  ideologico.
L’assunto sarà ribadito l’anno dopo con "Ceneri e diamanti"  (1958) descrizione approfondita dell’ultimo giorno di guerra.
L’attore Cybulskj, è efficacissimo nella parte del tormentato protagonista che ha ricevuto l’ordine di far fuori il compatriota che torna da Mosca con il compito di instaurare un regime "satellite" dello stato sovietico.
Il film otterrà un importante premio alla mostra di Venezia del 1959.
Nel 1961, Wajda realizza "Samson", storia di un giovane ebreo  che mostrerà ai suoi detrattori di saper morire per la sua "seconda patria", con limpida opzione di coscienza.
L’anno seguente, Wajda è invitato ad una coproduzione franco-nipponico-italiana e coll’episodio "L’amore a vent’anni"  si interrogherà sulla irrequieta gioventù di già ignara degli anni terribili e per questo incapace di valutare i problemi nonchè i rapporti con quegli anziani che li hanno vissuti.
Nel ’69, con "A caccia di mosche"  esaminerà un altro settore della popolazione, quello degli intellettuali che gli appaiono  disorientati, perplessi, come impaniati in una vischiosa ragnatela tra troppi "distinguo e sillogismi".
L’anno seguente, realizza "Paesaggio dopo la battaglia", tornando all’impegno giovanile con una storia sul  dopo-lager, un amore tra un ex-internata e un brillante giovane, che si conclude con la morte di lei.
"Film lucido, dolente, disincantato ma non disperato" è il commento di M.Morandini.
Nel 1971, in
Andrej Wajda
"Pilato e gli altri" affronterà un argomento a lui non consueto sulla traccia del capolavoro di M.S.Bulgakov, "Il Maestro e Margherita". L’attualizzazione della vicenda è complicata dallo stile recitativo "straniato", alla Brecht. Dopo "Il bosco di betulle" (1972) e  "Le nozze" (1973), nel 1975, "La terra promessa" viene a rappresentare, pur con toni oltre i righi, il fenomeno storico della nascita del capitalismo industriale la città di Lodz. Tre giovani soci affronteranno i problemi della fabbrica tessile da essi impiantata e tra incontri e scontri (gridati) si arriverà poi all’incendio e alla rivolta operaia che segneranno il loro effettivo destino.
Questione ben più vicina al suo tempo è quella indagata da Wajda sia ne "L’uomo di marmo" (1976) sia ne "L’uomo di ferro" (1981).
Nei due film, vengono analizzati "in corpore vivo" i significati ultimi dello "stakanovismo"  visto come una forma di alienazione del lavoro umano (oltre che una sorta di sleale concorrenza portatrice di attriti e conflitti).
Grande risonanza avranno queste due opere anche in Occidente, in cui gran parte della "sinistra" viene marcando un sempre più chiaro distacco dal "Paradiso comunista".
E cade così l’accusa di "formalismo barocco-espressionistico"  che qualche critico aveva formulato gli inizi nei confronti di Wajda (G.C.Castello).
Nell’intervallo tra i due film menzionati, il regista aveva diretto "Direttore d’orchestra" (1979), un apologo sull’arte e sull’esilio subìto da non pochi artisti  indipendenti. Ottima la performance di J.Gielgud scelto per il ruolo principale e ben fuso "l’intreccio tra musica e psicologia che ottiene un risultato politico" (T.Kezich).
Nel 1982, Wajda gira tra Polonia e Francia un possente ed epico "Danton". 
È una riflessione approfondita  su un segmento di storia, cellula germinale dei tanti fenomeni estremistici che si susseguiranno in Europa a seguito della grande utopia francese.
Depardieu è splendido nella sua immedesimazione col personaggio e l’opera è pervasa da oscuri cromatismi ben rispondenti al clima di terrore instaurato dal dogmatico Robespierre (a a sua volta reso con stile impeccabile dall’attore W.Pszoniak).
Né mancano richiami simbolici a quanto di tirannico ancora inquina la temperie politica nella patria di Wajda.
Più debole e melodrammatico risulterà nell’83  "Un amore in Germania".
Si tratta della relazione che nasce tra una contadina tedesca e un prigioniero di guerra polacco, che ha un finale tragico nella morte per impiccagione del soldato che ha rifiutato ogni compromesso. E, purtroppo, nella parte femminile Anna Schygulla calca troppo  sui pianti e sulle smorfie di dolore fino a perdere credibilità.
Ben diversa misura mantengono gli interpreti dei "Demoni" (1988). Si tratta di un cast di attori  in prevalenza francesi (dalla I.Huppert a B.Blier) oltre ad un O.Sharif in stato di grazia.
Il regista qui riesce a
condensare con aspro talento la fitta trama psicologica del romanzo di Dostoevskij, facendone risaltare gli snodi cruciali e l’alta temperatura drammatica.
E nel 1990 Wajda otterrà a Cannes il Premio della Giuria per il complesso della sua opera. E a Cannes l’anno precedente ha presentato "Il dottore Korczak" sulla tragica fine di un medico avente in cura gli orfani del ghetto di Varsavia.
Nessuno di loro scamperà allo sterminio finale.
L’ottima sceneggiatura a cura di Agnieska Holland (che spesso ha collaborato con Wajda) e la forte resa antiretorica dell’attore Pszoniak (già perfetto Robespierre) contribuiscono a portare il film ad un alto livello espressivo.
I riconoscimenti internazionali si susseguono ormai con frequenza e vanno dal "British Film Academy Award" al "Leone d’oro" (alla carriera) attribuitogli a Venezia ’98 "per l’importanza di quanto fatto in più di 40 anni di attività artistica".
Nel 1999  "Pan Tadeusz" anch’esso invitato a Venezia (ma non circolato in Italia), è la vicenda di un giovane spinto a sposarsi dallo zio sullo sfondo della imminente invasione napoleonica (1812). È un adattamento del romanzo del poeta A.Mickiewicz non sempre  risolto nella strutturazione e assai concitato nella recitazione fino ai limiti del parodistico.
Nel 2003 "Vendetta" segnerà il ritorno alle tradizioni del suo paese con una "microstoria" alla "Giulietta e Romeo". Notevole l’exploit comico di R.Polanski nella parte di un giullare affetto da mania di persecuzione e assai conciliante lo "happy end", del resto non ingiustificato.
Nel 2005  Wajda filma il docudrama "Solidarnosc, Solidarnosc" ispirato, appunto, alle lotte del movimento che ha riportato la Polonia ad un clima di (seppur imperfetta) democrazia e conferma del suo impegno etico nei confronti della storia passata e presente.
Nel complesso, l’impulso morale ha dominato l’attività filmica di Wajda che è riuscito cosi a dare possenti ritratti di personaggi incarnanti il destino della nazione.
Purtroppo, da noi, dopo un vivace interessamento alla sua opera, a partire dagli anni ’80 si è rarefatto il discorso su di lui, pur essendo evidente che i temi trattati dai suoi successivi film non deviavano della linea seguita con encomiabile coerenza.
Era il  caso, perciò, di ricordarlo a quanti hanno a cuore il cinema come testimonianza dei problemi che si pongono oltre la più spicciola e banale quotidianità del nostro vivere.