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L’Europa prigioniera della Germania
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La crescita non si ottiene accumulando debiti. Wolfang Schäuble, potente e marmoreo ministro delle Finanze tedesco, lo continua a ripetere a chi chiede alla Germania di essere più comprensiva con gli altri e con se stessa. La maggioranza dei tedeschi è d’accordo con lui. Curiosamente in tedesco le parole debito e peccato hanno la stessa etimologia (“schuld”). Senza contare che l’obiettivo di un deficit pari a zero è ormai questione di pochissimi mesi, dopo quasi mezzo secolo di bilanci nazionali in rosso. Volerlo centrare sarà pure, come dice un celebre istituto di ricerca tedesco, solo una questione di prestigio e non un salutare obiettivo di politica economica. Ma il prestigio conta, e la Germania ha tutta l’intenzione di rimanere negli anni a venire la nazione più prestigiosa d’Europa. Con buona pace dei francesi (che ancora non si rassegnano a non condividere più la leadership a Bruxelles), degli scossoni di mercato e dei rallentamenti dell’economia. Persino della propria. Già perché esattamente quando Berlino si prepara a riposare sugli allori di un riconoscimento politico ed economico guadagnato con fatica, la sua economia, che fino ad oggi sembrava un panzer inarrestabile, qualche scossone lo comincia a registrare, se non altro perché essendo inserita in un contesto globale non prescinde dalla sorte dei vicini. Accusato il colpo, la banca centrale tedesca ha recentemente abbassato le stime di crescita del Pil dall’1,8 all’1,2 per cento per il 2014 e all’1,3 per cento (dal 2 per cento) per il 2015. A calare sembrano essere soprattutto le esportazioni, fonte storica del successo teutonico. Non una sorpresa, considerando che oltre la metà finiscono all’interno dell’Unione europea, con un buon 37 per cento proprio nella debole Euro zona. Poi c’è l’economia cinese, la vera carta Jolly di questi mesi. Tra aumento del costo del lavoro interno e debole domanda globale il rallentamento è ormai accertato: la crescita si è fermata (per ora) al 7,4 per cento del Pil e la moneta locale, lo yuan, potrebbe essere presto svalutata. I cinesi producono meno in uno sforzo di consumare di più. Ma in tempi di austerità anti-corruzione voluta dal leader Xi Jinping finiscono per ridurre anche i consumi totali, soprattutto quelli dipendenti dall’estero (i tedeschi qui esportano quasi il dieci per cento delle loro produzioni). Come se non bastasse, l’economia tedesca è rallentata dalle conseguenze economiche del conflitto russo-ucraino, con quelle sei mila aziende teutoniche presenti in casa-Putin, e, ultimamente, dai compromessi interni che Angela Merkel ha dovuto sottoscrivere per governare con i socialdemocratici: il salario minimo di 8,5 euro all’ora a sostegno soprattutto dei lavoratori sottopagati nel settore dei servizi e l’abbassamento dell’età pensionabile a 63 anni, molto più vicina a quella “reale” dei famosi 67 anni che la Germania aveva adottato negli anni Novanta. «La Germania non sta certo entrando in recessione e probabilmente nemmeno l’Europa ma sicuramente la sua economia sta rallentando», spiega Martin Lueck della banca di investimento Ubs. Tra gli indicatori più consistenti ci sono l’indice che misura la fiducia dei consumatori e quella delle imprese, in calo da mesi. Il rimedio? Un immediato ritorno agli investimenti pubblici come strumento di rilancio dei consumi interni. Sono ormai in molti a chiederlo a gran voce dentro e fuori il Paese. Se negli anni Novanta la Germania investiva il 23 per cento del suo Pil, adesso non arriva al 17, al di sotto della media dei paesi industrializzati che si aggira intorno al 20. L’economista Marcel Fratzscher nel suo libro “L’illusione tedesca”, ha avvertito che a forza di risparmiare i tedeschi non spendono nemmeno nelle aree di bisogno, dalle infrastrutture al Wi-fi pubblico per arrivare alle scuole. La Francia, che ha presentato all’Europa un budget 2015 con un deficit al 4,3 per cento del Pil, ben superiore alla soglia del 3 per cento consentita dagli accordi europei, ha proposto a Berlino uno scambio: un taglio della spesa pubblica francese di 50 miliardi di euro contro investimenti pubblici tedeschi di uguale entità. Perfino Mario Monti ha sostenuto la bontà di aprire la borsa degli investimenti anche a costo di non raggiungere un deficit pari a zero. «Assumendo che un Paese abbia bisogno di migliori infrastrutture e che il suo governo potesse prendere a prestito denaro a tassi di interesse inferiori all’1 per cento, se ignorasse l’occasione non agirebbe forse contro gli interessi delle generazioni future?» si è domandato dalle pagine del “Financial Times”. Ma Berlino non ci vuole sentire. «Una caduta della crescita non è un cataclisma», ha ribadito il ministro dell’Economia Sigmar Gabriel: «Non ci sono motivi di politica economica per cambiare corso». Sono finiti i tempi in cui francesi e tedeschi prendevano insieme decisioni simili come avvenne nel 2003 quando entrambi i Paesi decisero di sforare il vincolo del 3 per cento di deficit di bilancio per darsi il tempo necessario a sistemare le proprie economie. Adesso i tedeschi guardano ai cittadini dell’Esagono dall’alto in basso. Nelle discussioni con i francesi mettono sul tavolo la disponibilità a compiere investimenti principalmente privati ma non sono disposti ad alimentare la crescita a suon di debito pubblico. La giustificazione? Metà Europa sta soffrendo di debito eccessivo e la stessa Germania ne ha sofferto spaventosamente, con le conseguenze storiche bene note, negli anni Venti e Trenta. «I tedeschi non vogliono che i loro figli debbano soffrire per il debito accumulato oggi», sottolinea Lueck. Questa è la priorità. A sostegno della propria posizione la Germania non ha soltanto una ritrovata forza politica sulla scena mondiale. Ha anche un sistema economico che, a differenza di quello italiano, ad esempio, ha saputo vincere la sfida della globalizzazione degli ultimi vent’anni facendo leva su diversi fattori: la profonda e, soprattutto tempestiva riforma del mercato del lavoro, portata avanti negli anni Novanta dal governo di Gerhard Schroeder che le ha consentito di avere oggi un tasso di disoccupazione intorno al 5 per cento, invidia del mondo industrializzato; una solida struttura di piccole e medie imprese a forte contenuto tecnologico, coadiuvate da un sistema di burocrazia interna messo al loro servizio (e non viceversa come da noi); e, infine, un numero impressionante di gruppi industriali globali, capaci di imporsi nei mercati esteri, a cominciare dalla difficile Cina di fine anni Novanta. Dei 16 principali colossi manufatturieri europei ben la metà sono tedeschi. I due gruppi industriali più grandi del Vecchio Continente coincidono con le due maggiori aziende automobilistiche del Paese: Volkswagen (197 miliardi di euro di fatturato) e Daimler (118 miliardi). Poche posizioni più in basso si trova la prestigiosa Bmw. Il principale gruppo chimico europeo, la Basf, non solo è anch’esso tedesco ma non esistono equivalenti per dimensioni nel Vecchio Continente e neppure negli Usa, visto che la concorrente Dow Chemical ha dimensioni inferiori. La Siemens, con i suoi 76 miliardi di euro di fatturato, è addirittura soprannominata la General Electric d’Europa: opera in talmente tanti Paesi da essere più sensibile ai cambiamenti del prodotto interno lordo globale che non a quelli della Germania. Tedesca è anche la principale banca d’investimento europeo, la Deutsche Bank e, rimanendo nel settore finanziario, Allianz, la prima azienda assicurativa in Europa che, come la francese Axa, è sempre più un’istituzione finanziaria globale che una mera venditrice di polizze. Si tratta di gruppi con fatturati superiori ai 70 miliardi di euro, quando non ai 100 come nel caso della Volkswagen, della Daimler e di Allianz, che permettono a Berlino di attraversare con maggiore serenità eventuali momenti di tempesta. Eni ed Enel a parte, all’Italia, di contro, erano rimaste solo il gruppo Exor (di cui fa parte la Fiat) e le Assicurazioni generali. Adesso la Fiat ha spostato la testa Oltreoceano. Ma quello che fino ad oggi è stato un indispensabile punto di forza dell’economia teutonica rischia però, se non controllato, di trasformarsi in debolezza. Proprio in quanto globali queste aziende con l’avvento della crisi dell’euro hanno smesso di investire in Europa e nella stessa Germania e hanno preso ad scommettere sull’estero con grande fervore. Il mercato privilegiato è quello degli Stati Uniti, l’unica economia avanzata che si è lasciata alle spalle i tempi duri (la crescita del Pil è prevista intorno al 3 per cento nel 2015). Quello che l’anno scorso sembrava un trend provvisorio quest’anno si è trasformato in una vera e propria condizione economica. Sulla soglia dell’autunno in meno di una settimana quattro dei maggiori nomi dell’industria tedesca – ZF, SAP, Siemens e Merck – hanno investito in aziende americane per un importo complessivo di 36,1 miliardi di euro. Una cifra esorbitante, considerando che fino ad oggi le operazioni tedesche in Europa non avevano superato i 5 miliardi di euro per trimestre. Eppure un ammontare comprensibile considerando che i 30 pesi massimi della Borsa tedesca a fine 2013 disponevano di ben 81 miliardi di euro di liquidità complessiva (rispetto ai 68 dell’anno precedente). A far fare le valige alle multinazionali tedesche sono soprattutto gli alti costi dell’elettricità (circa quattro volte quelli statunitensi) e la prolungata stagnazione in cui le misure d’austerità della Merkel hanno fatto sprofondare l’Europa e ora la stessa Germania. Il pericolo è che se gli investimenti privati dovessero continuare a diminuire e su quelli pubblici persistesse un veto, oltre a quella del resto d’Europa, anche la competitività teutonica comincerebbe a risentirne. «L’economia tedesca può avere successo solo se gli investimenti in entrata e quelli in uscita sono bilanciati», spiega Ralph Wiechers, economista dell’associazione industriale Vdma: «Il governo dovrebbe puntare a migliorare le condizioni di investimento». ?Infrastrutture obsolete, investimenti inesistenti e consumi ridotti non sono una ricetta di crescita. Neppure nella sana Germania. Certo, come insegna l’Italia, di rendita si può anche vivere a lungo. Ma per continuare ad essere la locomotiva d’Europa occorre essere in grado prima di andare avanti con le proprie forze e poi di tirarsi dietro tutti gli altri vagoni. La sosta in stazione, per quanto meritata, non potrà essere troppo lunga. Federica Bianchi,l’espresso
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