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Renzi a caccia del tesoro rosso |
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Caccia a Ottobre rosso in tre mosse, la prepara Matteo Renzi dopo una settimana di cortei, manifestazioni, raduni alla stazione Leopolda, insulti in piazza, minacce di scissione. Primo: stanare la minoranza interna del Pd sul Jobs Act in votazione alla Camera. Secondo: esasperare le differenze fino a provocare la rottura. Terzo: mettere le mani sull’eredità del passato, non soltanto culturale, ma materiale. Il finanziere Davide Serra, uno dei volti della Leopolda, martedì 28 ottobre si è iscritto ufficialmente al Pd. Iscrizione pesante sul piano simbolico, ma leggera per le casse del partito: sul conto del circolo dei democratici londinesi sono arrivati15 euro. Nulla in confronto a quanto sta per scatenarsi nel cuore del partito. Qualche giorno fa i segretari cittadini del Pd hanno ricevuto una mail di convocazione, sono invitati il 4 novembre a un incontro nella sede nazionale di largo del Nazareno con il tesoriere del Pd, il deputato renziano Francesco Bonifazi. L’ordine del giorno, com’è nello stile Renzi, non lascia spazio ad ambiguità: è venuto il momento di incamerare il tesoro degli ex-Ds che dopo sette anni di vita del Pd ancora sfugge completamente al controllo del partito. Un patrimonio di 2300 immobili più 410 opere d’arte stimato in oltre mezzo miliardo, di proprietà della rete delle 55 fondazioni costituita dall’ex tesoriere dei Ds senatore Ugo Sposetti dai nomi fantasiosi: Bella Ciao di Ravenna, Canavese democratico, Avvenire di Como... Un bene sensibile, un valore non negoziabile, altro che articolo 18, gli affetti più cari. Il paradosso di un partito vivo (il Pd) che in molti casi paga l’affitto a un partito sulla carta defunto sette anni fa. Per impedire che sezioni, palazzi e “I funerali di Togliatti” di Renato Guttuso siano assorbiti dal Pd renziano Sposetti è pronto a combattere: «Sto sereno!». Bilancio 2013 alla mano, nega l’esistenza della dote. «Gli immobili valgono 1 milione e 300mila euro, pignorati. I debiti arrivano a 157 milioni». Cifre che riguardano la sede dei Ds di via Nazionale e non le altre fondazioni in Italia. Ma Sposetti resiste. In attesa che succeda qualcosa. «Qualcosa di nuovo nascerà a sinistra». A dirlo non sono i presunti capi di un’ipotetica scissione, accorsi alla manifestazione della Cgil di piazza San Giovanni, gli ex candidati alla segreteria Gianni Cuperlo e Pippo Civati, gli ex bersaniani Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. A prevederlo, è stato alla Leopolda chi negli schemi classici sarebbe la vittima annunciata, il premier-segretario Renzi. Ma nella caccia a Ottobre rosso le parti sono invertite, Renzi è il predatore, i dissidenti sono la selvaggina. Nelle vecchie liturgie il segretario di turno faceva sfoggio del cosiddetto spirito unitario, per far ricadere addosso a chi se ne andava la responsabilità della rottura. Chi rompeva l’unità si macchiava di una colpa terribile: aveva creato le condizioni per una vittoria della destra. Nel nuovo Pd è tutto cambiato: la destra non è più un problema, il nemico dichiarato di Renzi è a sinistra, sono i sindacati, i reduci, quelli che usano ancora il gettone e il rullino, gli intellettuali che si lamentano di tutto e somigliano al brontolone «pensionato del quartiere». Un ostacolo da saltare, una zavorra da eliminare, per procedere alla vera operazione: la fondazione del Partito della Nazione renziano aperto all’elettorato moderato in cerca di casa. Una scissione a sinistra del Pd darebbe maggiore credibilità alla creatura. La prospettiva galvanizza i renziani e atterrisce i candidati alla scissione. La banda dei 4 (Cuperlo, Civati, Fassina, D’Attorre) si incontra nella sede di Nens, il centro studi fondato da Pier Luigi Bersani e da Vincenzo Visco, o nella stanza di Fassina a Montecitorio, in seduta permanente. «Abbiamo la riunionite», renzeggia uno dei presenti, ma non c’è bisogno di chissà quale conclave per capire che in quattro hanno quattro posizioni diverse sul da farsi. D’Attorre, il più legato a Bersani, è per combattere Renzi ma all’interno del Pd e nel prossimo congresso, insomma se ne riparla tra qualche anno. Cuperlo è indeciso: «Extra ecclesiam nulla salus», sospira, fuori dal Pd non c’è salvezza, ma anche dentro è un girone infernale. Fassina non voterà la fiducia al governo sul Jobs Act ma vuole restare nel Pd. Civati è sempre più tentato dal mollare il partito. Divisioni speculari a quelle che si agitano all’interno della Cgil. Il 25 ottobre ha dimostrato di saper trascinare ancora la sua base in piazza ma non ha deciso quale strategia adottare nei confronti di Renzi, né quali rapporti tenere con la minoranza del Pd che vorrebbe essere il braccio politico-parlamentare del sindacato, una cinghia di trasmissione alla rovescia. Due giorni prima della manifestazione l’organizzazione di Susanna Camusso aveva spedito un messaggio per i parlamentari: «il corteo sarà solo sindacale, restate a casa». Poche ore dopo è arrivato il contrordine, con Cuperlo che chiamava i dirigenti della Cgil: «Ma insomma, ci dite che dobbiamo fare?» Nel sindacato rosso la leader dei pensionati Carla Cantone è contraria a proclamare uno sciopero generale e predica la necessità di dialogare con il governo, in polemica con la Camusso: «No al muro contro muro, o peggio, alla finzione del muro contro muro». Il capo della Fiom Maurizio Landini è invece convinto che si andrà fino in fondo: «Lo sciopero generale si farà». «La Cgil è sfidata dal premier, non ha altra scelta, deve andare avanti. E su questa strada nascerà un partito neo-socialista alternativo al Pd», prevede l’ex dirigente sindacale Luigi Agostini, che all’inizio degli anni Duemila lasciò la Cgil per aderire ai Ds su posizioni riformiste, contro l’allora leader Sergio Cofferati. «Ma era un’altra epoca. Ora in Francia il premier Valls vuole cambiare nome al Partito socialista. E l’economia di Renzi è quella dei focolarini: parla dei singoli casi, Giuseppe, Maria, Marta, e non di un capitalismo finanziario che negli anni della grande crisi si è fatto più brutale». La battaglia del sindacato e quella della minoranza Pd hanno un punto di incontro annunciato: il voto della Camera al Jobs Act, senza modifiche sarà il passaggio definitivo con cui Renzi avrà la delega, i pieni poteri, per procedere alla riforma del mercato del lavoro. È in quell’occasione che si prepara il doppio strappo. La fiducia richiesta dal premier per inchiodare la minoranza, o si sta dentro o si sta fuori, dalla maggioranza e dal Pd. E la reazione dei dissidenti. Civati si prepara a cogliere l’occasione per uscire dal partito in cui ormai vive da estraneo. L’annuncio arriverà nei tempi e nei modi della politica, ma il deputato lombardo non crede sia possibile costruire un’alternativa a Renzi dentro il Pd. Voterà no al Jobs Act come ha votato no al decreto Sblocca Italia. E poi comincerà a lavorare a un progetto alternativo al Pd, sperando di trascinare con sé qualche altro nome storico del partito: «Se con me venisse Cuperlo sarebbe una ferita che Renzi non potrebbe ignorare: siamo i due candidati che lo hanno sfidato al congresso, la conferma che il Pd è diventato una formazione personale», ripete ai suoi. Il resto della minoranza teme di finire schiacciata nella resa dei conti. «Attenzione, chi esce dal Pd offre un bel regalo a Renzi. Fare politica significa preparare le trappole, non cascarci», sintetizza Sposetti. Lo spettro che si aggira in quella che fu la Ditta di Bersani, essere intrappolati tra il partito di Renzi, sempre più centrista e con le porte aperte, spalancate, per gli elettori berlusconiani in uscita e una formazione residuale a sinistra, guidata dall’ex gemello della Leopolda Civati o dal capo della Fiom Landini. Sono gli unici due nomi pronunciati con rispetto da Renzi nell’ultimo fine settimana. Per l’amico Pippo c’è stato l’appello a tornare a discutere insieme. Per Landini il premier manifesta stima. Nella Cgil e nella minoranza Pd sospettano che le affettuosità nascondano l’esistenza di un accordo con il capo della Fiom, una replica del patto del Nazareno a sinistra. Una spartizione delle zone di influenza: a Renzi il potere, il governo e il ceto medio, a Landini e Civati l’opposizione e la rappresentanza di un blocco sociale delimitato. Con la Camusso costretta a inseguire Landini su posizioni radicali per non farsi sfuggire di mano la leadership sindacale. E con il risultato che il partito alla sinistra del Pd sarebbe guidato da un altro sindacalista mediatico, più credibile di Fausto Bertinotti, ma minoritario, innocuo per Renzi, forse vantaggioso. Ecco perché lo scontro che sta per aprirsi nel Pd sul controllo delle proprietà delle fondazioni di Sposetti è un passaggio decisivo dell’operazione. Sfilare all’apparato post-comunista, quel che resta, posti di comando e il patrimonio accumulato in quasi cento anni di storia significa per Renzi arrivare al pieno controllo del partito che diventerà il motore dell’operazione. Un partito senza confini nella destra ex berlusconiana, da costruire in tempo breve, perché le elezioni anticipate restano sullo sfondo. L’eredità immobiliare del Pci dovrà essere sacrificata per finanziare il progetto di un soggetto che assomiglia alla Democrazia cristiana per composizione sociale e collocazione al centro del sistema politico. È la preda che Renzi intende conquistare. Sacrificare l’Ottobre rosso per far rinascere, infine, la Balena bianca.Marco Damilano,l’espresso |
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