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La corsa per il Colle: Renzi vuole un presidente che regni ma non governi
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I Palazzi del potere romano, ministeri, sedi istituzionali, segreterie di partito hanno cominciato una settimana diversa dal solito, come in preda a una scossa dagli esiti imprevedibili. Telefonate roventi e cellulari staccati. Personaggi solitamente disponibili che si fanno negare. E altri, in genere abbottonati, improvvisamente ciarlieri. Ci si riscopre cambiati, all’indomani della nota ufficiale del Quirinale con cui Giorgio Napolitano, non smentendo che esista la possibilità di sue dimissioni dalla presidenza della Repubblica alla fine dell’anno, ha di fatto aperto la corsa alla sua successione. Tanto basta a scatenare l’ansia degli inquilini dei palazzi della politica. Se non altro perché mai come questa volta la gara è aperta a tutti, l’elenco dei candidati è interminabile. Al punto che uno che i requisiti per essere un ottimo presidente li ha tutti, Romano Prodi, si tira fuori preventivamente: «Non voglio andare al Quirinale». Che poi è il modo migliore per arrivarci. Si preparano elezioni presidenziali senza precedenti in quasi settant’anni di vita repubblicana. È la prima volta che lo stesso Parlamento è chiamato a votare due volte per un presidente: nell’unico caso di mandato terminato prematuramente, quello del presidente Antonio Segni eletto nel 1962 e dimissionario due anni dopo, in mezzo ci furono le elezioni politiche. È la prima volta che un presidente del Consiglio in carica non voterà per un presidente della Repubblica: alle ultime presidenziali Matteo Renzi era ancora sindaco di Firenze, si provò a inserirlo tra i delegati regionali della Toscana ma dal Pd arrivò un rifiuto. Oggi lo sgarbo non si ripeterebbe, ma nel frattempo il sindaco si è trasferito a Palazzo Chigi. Eppure è evidente che sarà Renzi il Grande Elettore, il kingmaker del nuovo presidente, sia pure assente dall’aula in cui si vota. Un allenatore che schiera la squadra dalla tribuna, sperando di non incassare qualche autogol. Ed è contro il candidato di Renzi, per indebolire la leadership del premier, che si muoveranno tutti gli altri. Fuori e dentro il Pd. La platea elettorale dei 1007 grandi elettori è in apparenza la stessa dell’aprile 2013, quella che ha affossato le candidature di Franco Marini e di Prodi prima di rieleggere Napolitano. Anche se sono cambiati i numeri della maggioranza: nel 2013 il centrosinistra (Pd più Sel) poteva contare in partenza su 496 voti, poco meno del quorum della maggioranza assoluta prevista dal quarto scrutinio in poi (504). La maggioranza di governo che si è riunita a Palazzo Chigi per parlare di legge elettorale (Pd-Ncd-Scelta civica-Per l’Italia, transfughi di Sel, gruppo misto) può contare su almeno 570 grandi elettori parlamentari, cui vanno aggiunti i delegati regionali: il Pd ha vistosamente aumentato la sua quota, avendo conquistato in questo anno e mezzo Sardegna, Piemonte e Abruzzo (e in arrivo ci sono le regionali in Calabria, un’altra regione che potrebbe passare al Pd). Una quota di sicurezza ragionevole, nel caso in cui Renzi decidesse di procedere a colpi di maggioranza (dalla quarta votazione in poi: fino a quel momento il quorum è più alto, i due terzi, 672 voti), senza coinvolgere Forza Italia e Movimento 5 Stelle, oltre che la Lega e Sel. Ma non è questa la volontà del premier. Nella storia presidenti eletti a maggioranza fragile sono andati incontro a un settennato travagliato. E soprattutto sul nuovo presidente Renzi gioca molte altre partite: il futuro delle riforme, il destino della legislatura. E la trasformazione dell’Italia, senza un passaggio formale, in una Repubblica del premier. Passaggio decisivo, dopo i decenni della Repubblica dei partiti, in cui l’inquilino del Quirinale era un notaio degli equilibri decisi dalle segreterie, in particolare da quella di piazza del Gesù, la Dc. E dopo il ventennio del bipolarismo all’italiana in cui, per uno scherzo del calendario, Berlusconi non ha mai potuto eleggere un candidato gradito (se stesso o Gianni Letta) perché quando si è votato, nel 1999, nel 2006 e nel 2013, la maggioranza era in mano al centro-sinistra. Fino agli ultimi tre anni nel segno di Re Giorgio, che ha utilizzato fino al limite tutti i poteri consentiti dalla Costituzione sul potere di nominare il premier e di sciogliere (o non sciogliere) anticipatamente le Camere. Oggi Renzi vorrebbe utilizzare l’occasione della scelta di un nuovo presidente per scrivere una riforma costituzionale di fatto, senza toccare la Costituzione. Il premier-segretario del Pd immagina un presidente che regna ma non governa, non nomina il premier, non decide sul momento di tornare alle urne, a bassissimo peso politico. Per questo, quando di recente ha parlato in pubblico di elezione presidenziale, Renzi ha ripetuto che per quell’incarico serve una figura istituzionale, non un nome da sondaggio sui social network. Sembra l’anticipo della scelta di un personaggio politicamente sbiadito, magari poco conosciuto all’opinione pubblica più larga, e comunque non necessariamente popolare. Un metodo, dunque, opposto a quello che finora ha mosso il premier in altre decisioni, per esempio quella di spedire Federica Mogherini nella commissione Ue, giovane e donna, fortissima sul piano mediatico. La scelta di un nome di secondo piano avrebbe anche il vantaggio, agli occhi del premier, di stanare Forza Italia e M5S con un candidato non caratterizzato politicamente, difficile da respingere. L’eventuale approvazione di una nuova legge elettorale con premio di maggioranza alla lista più votata, quasi un’elezione diretta del leader del partito, con i voti di Forza Italia completerebbe l’operazione. Il passaggio a una Repubblica tendenzialmente presidenziale, una Repubblica del premier, all’inglese, modello sindaco d’Italia. Ecco perché a Roma i telefoni si sono fatti roventi. Un identikit di questo tipo taglia fuori nomi forti come Prodi o Giuliano Amato, ma anche Walter Veltroni, troppo ingombranti, lascia in campo solo fino a un certo punto l’opzione di una donna politica perché il ministro Roberta Pinotti è tutt’altro che una personalità scolorita, e anche Dario Franceschini o Piero Fassino o Sergio Chiamparino sembrano più danneggiati che favoriti dal curriculum di lungo corso. Meglio dirigersi verso qualche giudice o ex giudice costituzionale, tanto più se donna. «Sia chiaro: una soluzione del genere un bel pezzo di Pd non può accettarla», sbotta un democratico con importante incarico di governo, mica Civati o un pasdaran di maggioranza. Perché in gioco non è solo il nome del futuro inquilino del Quirinale, ma un delicato schema istituzionale di pesi e contrappesi. Un presidente forte, garante della Costituzione, che sappia dire qualche no al premier di turno, come ha detto lo scrittore Alessandro Baricco parlando del suo amico a Palazzo Chigi, ieri Berlusconi, oggi Renzi, domani chissà? Oppure un presidente che anticipi una futura riforma costituzionale in senso presidenzialistico? Se così fosse, nulla di male in teoria. Ma meglio che a pilotarla sul Colle ci sia una mano sicura, piuttosto che una assenza della politica. Marco Damilano,l’espresso
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