Perché costituzionalizzare istituzioni classiste
 











Populismi, disuguaglianze e democrazia
Che ne è dell’eguale dignità politica dei cittadini in un mondo in cui le disparità economiche aumentano continuamente? Le istituzioni elettorali e rappresentative delle democrazie contemporanee sono davvero attrezzate per far fronte alla polarizzazione economica e alle disparità di potere che ne derivano? Quali riforme bisogna attuare per far sì che le istituzioni politiche facciano da argine alla piena, altrimenti incontrollata, delle diseguaglianze economiche, e per promuovere e difendere l’eguaglianza politica?
Sono queste le domande attorno alle quali, a nostro parere, deve svolgersi l’analisi dei movimenti populisti. Alcuni populismi si contrappongono programmaticamente alle crescenti diseguaglianze economiche, agli ultra-ricchi che diventano sempre più ricchi. Lo fanno in nome di quelli che Machiavelli chiamava i più, e che invece movimenti come Occupy Wall Street chiamano il 99%, ossia la stragrande
maggioranza dei cittadini contrapposta a coloro che possiedono enormi ricchezze. Ci sono ovviamente movimenti populisti con tendenze all’autoritarismo e al razzismo, che minacciano le minoranze e le utilizzano come capri espiatori. Questi populismi vanno combattuti con forza. Ma l’allarmismo unilaterale contro la sfida populista alle istituzioni democratiche, così caratteristico del dibattito pubblico e accademico dei nostri giorni, corre il rischio di soffocare il grido di dolore dei cittadini di cui ci parla John McCormick. Questo allarmismo impedisce di affrontare seriamente quella che, come mostra Jeffrey Winters, è la minaccia suprema alla libertà dei cittadini nella maggior parte delle società umane, ossia il potere oligarchico, le risorse economiche che si concentrano nelle mani di pochissimi, e l’impatto che questo ha sulla distribuzione del potere politico.
Chi sono oggi gli oligarchi? Sono quella frazione minuscola della popolazione fatta di persone che controlla enormi
ricchezze, o perché le possiede o perché le gestisce, come nel caso di coloro che gestiscono le attività di banche e società finanziarie. I gruppi di potere oligarchico sono gruppi con enorme influenza politica e le oligarchie finiscono sempre inevitabilmente per costituirsi, come ci ricorda Machiavelli stesso, in tutte le repubbliche libere. Anzi, in particolare nelle repubbliche libere: le moderne democrazie sono tra le società più diseguali della storia. Oggi le oligarchie si sono globalizzate e finanziarizzate. A causa di questi cambiamenti il loro potere politico è diventato più difficile da individuare e da contrastare. È per questo che le idee anti-oligarchiche con radici populiste possono essere una risorsa.
Il problema della diseguaglianza economica ha una dimensione istituzionale. Accanto alla necessaria discussione su possibili politiche redistributive che possano porre rimedio all’eccessivo e sproporzionato accumulo di ricchezze nelle mani di pochi, occorre chiedersi
quali istituzioni politiche possano essere in grado di attuare politiche di questo tipo e di garantire stabilità a lungo termine a distribuzioni più egalitarie dei frutti della cooperazione sociale.
La nostre riflessioni su questo tema partono da un’analisi critica delle tesi di Nadia Urbinati, sia quelle esposte in un commento ad un nostro precedente articolo, sia quelle esposte nei suoi recenti libri Democrazia in diretta (Feltrinelli, 2013) e Democrazia sfigurata (Università Bocconi Editore, 2014). Urbinati ha ribadito quella che lei considera la sostanziale adeguatezza della democrazia rappresentativa e della sua logica, e ha messo in guardia verso le sirene del populismo, che a suo dire annuncerebbero inevitabilmente svolte autoritarie, pericolosi abusi contro le minoranze, e politiche solo apparentemente popolari. In contrapposizione a Urbinati, John McCormick ha invece sostenuto la necessità di cambiare radicalmente le regole del gioco e superare la logica della
rappresentanza, o perlomeno affiancare le istituzioni esistenti a istituzioni come l’assegnazione di alcune cariche politiche per mezzo del sorteggio, i frequenti referendum che richiedono la partecipazione non-mediata da rappresentanti eletti, l’esistenza di cariche non accessibili agli ultra-ricchi, ecc. La nostra posizione – come chiariamo qui sotto – è vicina a quella di McCormick e per certi aspetti va oltre quella di McCormick.
È un dibattito comunque che ci auspichiamo possa contribuire positivamente alla discussione sulle riforme istituzionali in Italia, discussione purtroppo imperniata sulla contrapposizione fra conservatori dello status quo costituzionale — talvolta ben motivati, come nel caso appunto di Urbinati — e riformatori non certo ispirati da preoccupazioni democratiche, ma invece infastiditi dalla deliberazione parlamentare e decisi, nel nome dell’efficienza, a dare carta bianca ad esecutivi forti e pronti ad eseguire quelle riforme strutturali che i potentati
economici invocano. Purtroppo la discussione si svolge come se non ci fossero alternative, come se si debba per forza scegliere fra l’arroccarsi a difesa della Costituzione esistente e l’abbracciare il riformismo di stampo efficientista che cerca di ridurre al minimo gli spazi democratici.
Si tratta peraltro di un dibattito necessario anche a livello europeo, dove le posizioni sono in qualche modo invertite. Coloro che difendono lo status quo tecnocratico-elitista a livello dell’Unione Europea spesso coincidono con gli innovatori istituzionali a livello domestico, in quanto vorrebbero importare l’efficientismo tecnocratico dell’UE all’interno dei singoli paesi dell’UE, e soprattutto di quelli che non riescono ad attuare da soli le riforme invocate dai potentati economici. Questi si contrappongono a coloro che ritengono possibile e auspicabile, per sopperire al cosiddetto deficit democratico dell’UE, un’evoluzione in senso più marcatamente elettoral-rappresentativo delle istituzioni
dell’Unione. Questi ‘riformisti’ a livello dell’UE, che vorrebbero meno tecnocrazia e più democrazia rappresentativa, sono spesso istituzionalmente conservatori a livello domestico e difendono la Costituzione nazionale da modifiche in direzione efficientista e tecnocratica.
Ma chi vuole curare il deficit democratico con la democrazia rappresentativa spesso non si avvede dei limiti intrinseci di questo modo di intendere la democrazia, limiti che discutiamo qui sotto e che la scala continentale e sovra-nazionale finirebbe inevitabilmente per amplificare. È questa angustia dialettica tra quelli a favore della tecnocrazia e quelli a favore della rappresentanza che le pratiche politiche e le idee dei movimenti populisti possono in qualche modo aiutare a superare, indicando la strada verso uno sperimentalismo democratico radicale (e possibilmente anti-oligarchico) a tutti i livelli, da quello locale a quello sovra-nazionale.
Bisogna chiedersi se l’eguaglianza formale, i meccanismi di
accountability e gli spazi di contestazione previsti dalle istituzioni democratico-rappresentative siano sufficienti, come Urbinati sembra suggerire, per garantire sufficiente inclusività al sistema politico. E bisogna chiedersi quale sia il modo migliore di promuovere e articolare l’eguaglianza politica in un momento in cui le pressioni in direzione tecnocratica sono fortissime e in cui l’aumento sempre maggiore delle diseguaglianze economiche procede a passo spedito.
Si tratta di un dibattito in qualche modo congenito ai sistemi democratico-rappresentativi moderni, soprattutto se è vero come sostiene Urbinati che il governo rappresentativo è da ultimo basato su una finzione, una fragile costruzione legale che rappresenta i cittadini — in realtà diversissimi per reddito, ricchezza e condizioni sociali — come eguali. Urbinati ha ragione quando, in diversi passaggi dei suoi libri, ribadisce la necessità di accingersi sempre di nuovo a quella “costante opera di manutenzione” mirata a
“impedire che diseguaglianze socioeconomiche si travasino nel potere politico”. Alla luce delle crescenti disuguaglianze, l’urgenza di quest’opera di manutenzione si fa oggi dirompente e – come sosteniamo qui sotto – gli strumenti teorici e pratici per quest’opera di manutenzione vanno molto oltre quanto Urbinati ci suggerisce.
La finzione della rappresentanza e le diseguaglianze economiche
La democrazia rappresentativa moderna, nella ricostruzione di Urbinati, ha quattro caratteristiche istituzionali principali: “(a) la sovranità del popolo espressa mediante l’elezione dei rappresentanti; (b) la rappresentanza come relazione di libero mandato; (c) un meccanismo elettorale che assicuri un certo grado di responsabilità verso il popolo da parte dei rappresentanti che parlano e agiscono in suo nome; (d) il suffragio universale che fonda la rappresentanza sull’uguaglianza politica” (Democrazia in diretta, p.89). Tutte e quattro queste caratteristiche delle democrazie
contemporanee hanno in realtà un legame essenziale con il principio di eguaglianza politica dei cittadini. L’elezione a suffragio universale garantisce che il processo politico sia emanazione dell’intera cittadinanza e non di sottogruppi privilegiati, come accadeva quando il suffragio era limitato a classi ristrette di possidenti. Il conteggio numerico dei voti incarna in maniera diretta il principio secondo cui ogni cittadino ha lo stesso peso politico: ognuno vale uno. Il mandato libero, ossia l’indipendenza legale degli eletti da elettori e partiti, scinde il legame fra rappresentanti e interessi di parte, permettendo la partecipazione dei rappresentanti alla deliberazione politica quali portatori di visioni imparziali del bene comune della comunità, in modo da permettere la neutralità e l’imparzialità delle decisioni politiche.
Nel quadro teorico di Urbinati, il mandato libero dei rappresentanti gioca un ruolo chiave nella promozione dell’eguaglianza politica. Fu il mandato
libero, nell’interessante ricostruzione storica di Urbinati, a rompere il carattere gerarchico dei regimi politici non democratici dell’ancien régime: “Liberare i rappresentanti dagli elettori (da quegli specifici elettori dai quali ricevevano il voto) significò liberare gli elettori dall’arbitrarietà della loro appartenenza. Soprattutto comportò liberare l’assemblea dal condizionamento diretto degli interessi sociali ed economici per dare a tutti i sudditi indistintamente una legge uguale” (Democrazia in diretta, p.133). Secondo questa prospettiva, in assenza di mandato libero l’elezione dei rappresentanti subirebbe un’involuzione verso forme di delega basate sull’appartenenza a particolari ceti sociali, di cui i rappresentanti sarebbero ridotti a semplici portavoce, come appunto avveniva nei sistemi politici dell’ancien régime.
Il mandato libero necessariamente allenta il controllo del popolo sui rappresentanti, relegandolo a quella forma di supervisione a singhiozzo che sono le
elezioni, le quali sono tra l’altro una forma di controllo a posteriori, che funziona esclusivamente sulla base dell’eventuale timore dei rappresentanti di non essere rieletti. Anche nel resoconto di Urbinati questa forma di accountability non può essere sufficiente: i rappresentanti sarebbero eccessivamente indipendenti dagli elettori se l’unica cinghia di trasmissione fra le due parti fossero le elezioni. Per una democrazia rappresentativa funzionante occorrono, secondo Urbinati, anche i partiti politici e qualche forma robusta di contropotere, come la stampa libera. I partiti garantiscono un controllo temporalmente continuo degli eletti, ossia indipendentemente dalle elezioni. Questo perché i rappresentanti sono vincolati al mandato degli elettori per affinità ideologica e altri meccanismi informali mediati dall’appartenenza ai partiti (Democrazia in diretta, p. 99). Il mezzo di opinione, ossia il “potere negativo” nelle terminologia di Urbinati (Democrazia in diretta, p.105), vincola ulteriormente il comportamento dei politici, sottoponendolo a forme di scrutinio e sorveglianza, seppur legalmente inerte. Dunque, il mandato libero è una necessaria finzione legale: il mandato dei rappresentanti è formalmente e legalmente libero, perché incarna l’eguaglianza politica dei cittadini e permette ai rappresentanti di partecipare quali deliberatori imparziali al processo legislativo, ma di fatto è vincolato da forme di controllo ideologiche (i partiti) e dalla sorveglianza del pubblico (tramite i mezzi di opinione), oltre che dal giudizio ex post degli elettori. È questo il punto di equilibrio su cui si fonda il governo rappresentativo secondo Urbinati.
D’altra parte, la rappresentanza e il mandato libero si espongono ad una critica importante, delineata con forza da Marx, come ricorda la stessa Urbinati. Marx sostiene che “uguaglianza e libertà formale sono i due corni della religione civile che lo stato moderno ha creato per riuscire a meglio proteggere gli
interessi della classe dominante” (Democrazia in diretta, p.136). Grazie all’eguaglianza legale e ai dispositivi della democrazia rappresentativa, anche là dove le maggioranze dovevano per ragioni demografiche essere espressione dei meno abbienti, “il numero finiva per non contare: grazie al mandato libero i potenti potevano legiferare rivendicando un’imparzialità che non c’era, raggirando cioè la forza del numero” (Democrazia in diretta, p.140). L’elezione a suffragio universale dovrebbe teoricamente garantire la formazione sistematica di maggioranze che siano espressione degli interessi delle persone comuni, le quali sono sempre molto più numerose degli ultra-ricchi. Ma di fatto ciò non avviene mai, in quanto il mandato libero viene usato dai potentati economici per influenzare la condotta degli eletti. L’eguaglianza politica formale può essere mantenuta senza pericolo per i potentati economici di vedersi scavalcati da politici che portano avanti gli interessi della gente, perché i potentati economici possono dirottare il comportamento dei rappresentanti, formalmente liberi dal mandato dei loro elettori. Urbinati sembra rispondere a questa importante obiezione sostenendo che nessun critico, e men che mai Marx, è stato in grado di proporre una teoria della cittadinanza democratica alternativa a quella che lei ricostruisce. Secondo Urbinati occorre tenersi saldi ai quattro principi del governo rappresentativo, malgrado la possibilità di dirottamenti oligarchici.
Questa tesi è sorprendente se si considera la valutazione impietosa di Urbinati quanto alla performance della democrazia rappresentativa nei trente glorieuses, ossia in quello che è ritenuto il suo periodo di maggior gloria, i trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale (Democrazia in diretta, p.138). In quel periodo, i partiti politici popolari potevano contemporaneamente farsi portatori di visioni politiche imparziali, rispettando dunque la finzione della rappresentanza, e favorire gli
interessi di larghi strati della popolazione. Questo funzionò fin tanto che durò l’espansione economica, perché la forte crescita economica permetteva agli ultra-ricchi di arricchirsi senza impoverire le persone comuni. In quel contesto, i partiti potevano in effetti presentarsi quali difensori dell’interesse generale, e gli elettori in maggioranza potevano considerarsi “partecipi uguali della società democratica” in una “piattaforma di generalità che non soddisfacendo nessuna parte in maniera assoluta accontentasse tutti benché in maniera contenuta”.
La buona performance della democrazia rappresentativa sarebbe quindi, anche agli occhi di Urbinati, un caso dovuto più al contesto di crescita economica del secondo dopoguerra che al fatto che questo sistema politico effettivamente promuovesse e proteggesse l’eguaglianza politica e ciò che ne consegue per gli interessi della gente comune. Questa contingenza sembra tra l’altro suffragata da prove empiriche nel recente lavoro di Thomas
Piketty (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani 2014), il quale sostiene la sostanziale eccezionalità del periodo post-bellico. Piketty riconduce questa eccezionalità a una serie di fattori difficilmente ripetibili e in qualche caso non certo auspicabili, come l’enorme distruzione di capitale fisico causata da due guerre mondiali, distruzione che aveva temporaneamente tramortito gli oligarchi e allentato la loro presa sul potere politico.
L’illusione del buon funzionamento delle democrazie rappresentative moderne cominciò a svanire negli anni settanta, quando con l’interruzione dell’espansione economica fu ovvio che il gioco distributivo era diventato a somma zero, che non era più possibile per gli ultra-ricchi arricchirsi senza portar via risorse al resto della popolazione, e che le emergenti politiche economiche liberiste avrebbero sempre più “soddisfatto espressamente gli interessi della minoranza sociale” (Democrazia in diretta, p.139), ossia degli oligarchi. Fu questo, per
Urbinati, l’inizio della crisi della democrazia rappresentativa e dei partiti, i quali a quel punto non riuscirono più funzionare negli stretti spazi consentiti dalla finzione della rappresentanza.
Non è chiaro come, viste queste premesse, Urbinati possa schierarsi con quel tipo di democrazia rappresentativa, e con i principi che ne stanno alla base, quando il successo di quel tipo di modello, come lei stessa ammette, “è il riflesso di una certa omogeneità socio-economica (di un largo e solido ceto medio) – una condizione che non è facile da ottenere né da preservare” (Democrazia in diretta, p.142) e di condizioni macroeconomiche del tutto atipiche. Anche se ci si adopera per “mobilitare lo strumento della legge proprio per correggere le diseguaglianze affinché il loro pesi non si riversi sulla legge” (Democrazia in diretta, p.142), ad esempio riformando le regole per il finanziamento delle campagne elettorali, come può questo sforzo essere sufficiente a far funzionare la finzione
della rappresentanza in un contesto in cui, grazie proprio ai difetti della democrazia rappresentativa, coloro che avrebbero il compito di fare le riforme non hanno alcun interesse a farle?
Le opportunità di influenza politica dei potentati economici nei meandri del governo elettorale e rappresentativo — ossia le opportunità di cattura oligarchica — si sono peraltro moltiplicate in tempi recenti. Non solo i costi crescenti delle campagne elettorali le rende facilmente manipolabili da coloro che possono finanziare i candidati, ma anche la crescente rilevanza politica degli esperti, sia nell’amministrazione sia nei partiti, fornisce a coloro che controllano finanziariamente l’informazione e la produzione culturale leve potenti. I partiti, come giustamente denuncia Urbinati, sono ormai poco di più di contenitori che si raccolgono attorno a figure carismatiche, e i programmi politici sono stesi non già sulla traccia di ideologie contrapposte ma sotto dettatura di consulenti e
think-tank, per loro natura influenzati dalle élite sociali, intellettuali ed economiche. Inoltre, c’è una continua osmosi fra università d’élite, organi di consulenza, banche d’affari, organismi internazionali e politica, osmosi che appunto rende la casta politica non solo auto-referenziale, ma del tutto embedded rispetto agli interessi delle minoranze sociali più potenti. L’impatto dei creditori, e soprattutto dei più grandi fra essi, sui mercati dei titoli pubblici è un ulteriore canale di pressione da parte degli oligarchi sulle decisioni che riguardano tutti: il giudizio dei mercati sulle decisioni di governo o parlamento è in larga misura il giudizio degli oligarchi (spesso esteri) su decisioni che potenzialmente potrebbero danneggiarli.
Insomma, nei trente glorieuses il governo rappresentativo ha potuto accompagnare l’espansione del potere politico e delle risorse a disposizione dei più solo grazie a circostanze storiche favorevoli e probabilmente non ripetibili. Oggi il
contesto appare del tutto sfavorevole perché questa inusitata performance possa ripetersi.
La rappresentanza è di per sé strutturalmente incapace di limitare il potere di quelli che controllano enormi risorse economiche, proprio perché l’eguaglianza formale, di cui l’elezione a suffragio universale e il mandato libero sono l’incarnazione, non solo non limita il potere dei potentati economici ma anzi ne garantisce ampi margini di manovra.
Democrazia non rappresentativa e politica anti-oligarchica
Come uscire da questa impasse pur preservando l’eguaglianza politica, il cui legame con le istituzioni elettorali e rappresentative sembra per certi versi inscindibile nella teoria di Urbinati? Si dovrebbero studiare soluzioni non rappresentative e non elettorali che promuovano l’eguaglianza politica effettiva meglio di quanto facciano i sistemi attuali. Alcuni esempi sono: il sorteggio delle cariche pubbliche come alternativa alle elezioni, meccanismi di mandato
imperativo che permettano agli elettori di revocare la loro fiducia ai rappresentanti, e istituzioni esplicitamente classiste, ossia istituzioni che escludano dagli aventi diritto coloro che controllano enormi risorse finanziare e siano progettate per limitarne il potere.
Si tratta di una proposta irricevibile per Urbinati: se le istituzioni fossero classiste in questo senso — ossia anti-oligarchiche — Urbinati negherebbe che possano produrre decisioni legittime. Il governo rappresentativo si basa per Urbinati sull’idea di un corpo politico di cittadini formalmente eguali i cui interessi, talvolta contrastanti, possono in ogni caso essere mediati da assemblee deliberative che producono leggi imparziali. Questa è la piattaforma di generalità di cui dice Urbinati. Ma contro questa idea bisognerebbe invece ammettere che in ogni società il contrasto fra gli appetiti quelli che Machiavelli chiamava i Grandi e il desiderio dei più di viver liberi dall’oppressione è tale che solo in
situazioni eccezionali si può pensare che un’assemblea deliberativa di eletti come quella immaginata da Urbinati possa gestirlo in maniera appropriata.
In questo senso, l’eguaglianza politica formale che per Urbinati è irrinunciabile può essere addirittura un ostacolo alla promozione e alla difesa dell’eguaglianza politica sostanziale. Il trattare tutti formalmente come eguali favorisce coloro che eguali di fatto non sono, perché controllano enormi risorse economiche. L’eguaglianza politica formale nasconde l’inevitabile stratificazione gerarchica della società, impedendo dunque di progettare strumenti istituzionali adeguati per contrastare le disuguaglianze economiche e politiche.
È da questo punto di vista che si capisce in che senso possa essere necessario costituzionalizzare istituzioni classiste. Si tratta di introdurre formalmente una serie di strumenti legali che controbilancino lo strapotere dei potentati economici, strumenti che però siano decisamente più robusti delle
esangui regolazioni dei conflitti di interesse a cui si limita la legislazione attuale. Questi strumenti darebbero una garanzia di empowerment alla gente comune vis-à-vis i potentati economici.
È vero che in condizioni speciali tale costituzionalizzazione potrebbe non essere necessaria, come quando appunto la crescita economica semplifica i rapporti fra gli ultra-ricchi e il resto della popolazione. Ma in ogni altro caso, trattare i cittadini come formalmente diseguali, nel nome del realismo di Machiavelli, è di fatto l’unico modo per difendere l’eguaglianza politica. Non la tolleranza verso la diseguaglianza ma bensì la dolorosa ammissione dell’esistenza di radicali divergenze di interesse fra oligarchi e persone comuni è la caratteristica della Repubblica romana dell’antichità che, come suggeritoci da Machiavelli, dovrebbe ispirare riforme istituzionali davvero democratiche. Si tratta peraltro di una caratteristica che Machiavelli attribuisce alla Roma repubblicana sulla base
della sua interpretazione polibiana della costituzione mista, ma la coscienza che qualsiasi sistema politico sia espressione della preminenza di un certo ceto era diffusa nel pensiero classico. Basti pensare alla definizione aristotelica di democrazia come forma di governo in cui accedono alle cariche anche i non possidenti.
La democrazia, per essere veramente tale, deve in alcuni casi formalmente discriminare a favore di coloro che non controllano grandi risorse economiche e finanziarie. Senza tale discriminazione formale non è in generale possibile promuovere e proteggere l’eguaglianza politica sostanziale.
Urbinati ritiene che tali proposte, violando il principio di eguaglianza politica formale – pur nel nome dell’ideale ‘buono’ dell’eguaglianza politica sostanziale – debbano necessariamente situarsi al di fuori del contesto democratico e costituzionale dei regimi politici liberali contemporanei. Secondo Urbinati, la violazione dell’eguaglianza politica formale impedisce ai
cittadini di considerare le decisioni politiche quale emanazione di procedure imparziali. Ossia, in questa prospettiva, gli ultra-ricchi potrebbero legittimamente rifiutarsi di accettare le decisioni di istituzioni che li discriminano. Si devono però fare delle distinzioni importanti a questo proposito.
Urbinati osserva che eventuali decisioni arbitrariamente punitive di una minoranza devono considerarsi illegittime perché negano protezione legale — anche nel caso si tratti di una minoranza potente e privilegiata — e perché impediscono ai membri di tale minoranza di partecipare da eguali alla società politica. Ma fermo restando che a tutti deve essere garantita protezione da abusi arbitrari, è di fatto vero che la concentrazione di enormi risorse economiche e finanziari nelle mani di pochi è strutturalmente pericolosa per il buon funzionamento dell’intera comunità politica. Dato che è spesso il potere oligarchico a impedire ai più di partecipare pienamente alle decisioni politiche,
discriminare a favore dei più trova la sua legittimità proprio nel fatto che questa discriminazione è essenziale per proteggere e promuovere l’eguaglianza politica sostanziale di tutti.
Non vi è niente di arbitrario e abusivo nel pensare alla creazione di istituzioni imparziali che incarnino delle pregiudiziali anti-oligarchiche in nome dell’eguaglianza politica sostanziale di tutti. Queste pregiudiziali sarebbero inaccettabili solo se non legittimamente motivate, o solo se implementate in modi irrispettosi della dignità degli individui. Insomma, è il pericolo di abusi arbitrari, non il trattamento diseguale in quanto tale, a fare problema nei casi che ha in mente Urbinati.
Dopotutto, la discriminazione a favore di coloro che non controllano enormi risorse economiche non è molto diversa da forme di discriminazione positiva legalmente statuita presenti in alcuni ordinamenti, ad esempio quando occorre rimediare a forme di ingiustizia recidive (si consideri la discussione sulle
cosiddette quote rosa o altri esempi di affirmative action). Nel caso delle diseguaglianze economiche l’argomento è se possibile ancora più convincente che in quei casi, visto che il gruppo ‘favorito’ da tale discriminazione legale includerebbe la stragrande maggioranza dei cittadini mentre quello ‘sfavorito’ sarebbe composto non certo da vittime di ingiustizie ma da una minuscola minoranza ultra-privilegiata, una minuscola minoranza che, per motivi strutturali e non per le intenzioni dei singoli, risulta essere pericolosa per la vita democratica. Non è che coloro che possiedono o gestiscono enormi ricchezze siano persone intrinsecamente pericolose. Tutt’altro. È solo che le enormi ricchezze, e gli interessi che queste generano negli individui, creano degli sbilanciamenti nel sistema politico. La discriminazione a favore delle persone comuni e contro gli oligarchi è insomma semplicemente uno strumento di controbilanciamento.
Ora, se si accetta l’idea che istituzioni esplicitamente
classiste, e quindi che non rispettano l’eguaglianza formale, possano essere plausibilmente prese in considerazione, viene meno l’argomento principale a favore del mandato libero dei rappresentanti. Essi devono trasformarsi in meri portavoce. Ciò eviterebbe il pericoloso infingimento del mandato libero criticato da Marx. In altri termini: vi è la necessità di appiattire la rappresentanza fino a renderla difficilmente manipolabile dai potentati economici. Bisogna cioè eliminare lo iato fra cittadini ed elettori, permettendo a questi ultimi di revocarne il mandato in qualsiasi momento, ad esempio tramite frequenti valutazioni plebiscitarie del personale politico. Questo appiattimento rinvigorirebbe il senso inclusivista del suffragio universale: erodendo i margini di manovra dei rappresentanti, si legherebbero più strettamente i comportamenti dei rappresentanti agli interessi di coloro che non appartengono ai ranghi oligarchici, liberando così i processi politici (almeno in parte) dalla spropositata influenza dei potentati economici. Ossia, eliminare il mandato libero è un modo per avvicinarsi all’ideale dell’ognuno vale uno.
Un modo radicale ma rigoroso di porre rimedio ai problemi della rappresentanza è quello di sostituire il parlamento degli eletti con un’assemblea di sorteggiati, come avveniva nella democrazia ateniese per alcune cariche politiche. Se il mandato imperativo assottiglia la finzione della rappresentanza a un minimo, il sorteggio la elimina completamente. I sorteggiati partecipano all’assemblea in qualità di cittadini e non come rappresentanti eletti o portavoce di altri. Visti i numeri, un’assemblea di sorteggiati garantirebbe maggioranze sistematiche al 99% piuttosto che agli oligarchi o a persone che ne fanno gli interessi. I sorteggiati inoltre non sarebbero vincolati da quegli organismi come i partiti che, se in teoria dovrebbero costituire la cinghia di trasmissione fra rappresentanti ed elettori, sono spesso élite chiuse e asservite ai
poteri economici. Il sorteggio mantiene pienamente la promessa del suffragio universale di evitare che il processo politico sia un’emanazione di piccoli gruppi privilegiati, promessa che le elezioni purtroppo non riescono a mantenere. Il sorteggio impedisce peraltro il carrierismo politico, per non parlare dai continui flussi di personale dal mondo economico a quello politico (e vice versa) che verrebbe del tutto precluso da tale sistema.
Se il sorteggio appiattisce la rappresentanza fino a dissolverla, una riforma istituzionale di stampo classista, come proposta da McCormick in Machiavellian Democracy (Cambridge University Press, 2011), è quella che crea cariche simili al tribunato della plebe della Repubblica romana. Si tratta di cariche a cui coloro che controllano enormi concentrazioni di ricchezza non possono candidarsi, e alla cui elezione non possono partecipare. Il tribunato è importante dal punto di vista simbolico ed espressivo, proprio perché porta all’aperto e rende
visibile nel contesto istituzionale esplicito la divergenza di interessi fra i cittadini comuni e potentati economici. L’esistenza di istituzioni “plebee” — che andrebbero ripensate anche alla luce della caratteristiche attuali dei poteri oligarchici, in parte molto diversi da quelli presenti nella Roma antica — allerterebbe tutti del pericolo politico generato dai potentati economici.
Di nuovo: tale istituto violerebbe il principio di eguaglianza formale, visto che preclude l’accesso di certe persone a certe cariche. Ma tale violazione dell’eguaglianza formale, se implementata nel modo giusto, sarebbe uno strumento per promuovere e sostenere l’eguale dignità politica dei cittadini, controbilanciando la sproporzione di forza dovuta alle diseguaglianze economiche.
Cosa ne è dunque del parlamento come spazio discorsivo-deliberativo in cui i rappresentanti con mandato libero possono liberamente, appunto, discutere e collettivamente decidere su come promuovere il bene comune,
trascendendo interessi egoistici di parte? Il parlamento, come altri spazi discorsivi-deliberativi, è facile preda delle élite, e i legami tra élite e potere economico sono forti. Spazi deliberativi-discorsivi di questo tipo, in una prospettiva come quella che stiamo articolando, vanno perciò riformati o eliminati, a favore invece di spazi discorsivi più aperti, dove le persone comuni possano esprimersi e partecipare il più direttamente e liberamente possibile.
Questa può sembrare una proposta provocatoria se avanzata sullo sfondo delle tendenze fondamentali della teoria democratica contemporanea, che sembra esaltare incondizionatamente gli spazi discorsivi-deliberativi. Ma non tutti gli spazi deliberativi-discorsivi hanno lo stesso potenziale democratico: una cosa sono i dibattiti parlamentari, ben altra cosa sono le conversazioni spontanee che nascono tra persone comuni quando c’è da prendere una decisione che riguarda tutti. E non si tratta comunque di negare l’importanza degli
spazi deliberativi-discorsivi di tipo parlamentare, ma solo di mostrarne i limiti e di affiancarli modalità di partecipazione e di decisione meno difficilmente manipolabili dai poteri economici. Il ricorso a referendum e plebisciti è ad esempio potenzialmente utile, perché garantisce alla mera forza del numero un potere decisivo contro lo strapotere, anche deliberativo e discorsivo, delle élite.
Occorre in altre parole irrobustire in tutti i modi quel ruolo di controllo tradizionalmente demandato al parlamento elettivo con mandato libero, e che tale istituzione non riesce invece a svolgere perché facile preda degli interessi di pochi. La nostra proposta è chiaramente anti-parlamentare e anti-partitica. Siamo sicuramente d’accordo con Urbinati quando denuncia certa retorica anti-parlamentare e anti-partitica quale strumento della deriva amministrativa e tecnocratica dei governi. Riteniamo però che, proprio per contrastare quella deriva, vi sia bisogno non di ricostituire e di
rifondare il ruolo di partiti e parlamenti, ma piuttosto di sostituirli con istituzioni genuinamente in grado di porre rimedio allo sbilanciamento del sistema politico dovuto alle enormi diseguaglianze economiche.
Si tratta di una proposta radicale. Ma ci pare che questi brevi suggerimenti siano un buon modo di interpretare e articolare positivamente il grido di dolore della gente che i movimenti populisti cercano di esprimere. I populismi più interessanti avanzano, talvolta esplicitamente, idee anti-oligarchiche ed esperimentano con soluzioni anti-rappresentative. Sono per questo motivo delle risorse preziose per la diffusione fra i cittadini di idee anti-oligarchiche e per portare avanti la discussione sulle necessarie riforme istituzionali.
Il populismo comporta molti rischi, soprattutto quando viene associato a progetti autoritari, liberticidi, o comunque fondamentalmente anti-democratici. Ma anche gli scettici dovrebbero riconoscere che forse è proprio grazie all’attività di
disturbo dei populisti che esiste ancora la possibilità nel dibattito pubblico di superare la falsa dicotomia fra i fautori delle istituzioni tradizionali (elettorali e rappresentative) e quelli desiderosi di tecnocrazia che invece le criticano sulla base di una loro presunta macchinosità ed inefficienza.
Se abbiamo ragione, per promuovere la causa dell’inclusione, della vera democrazia e del governo popolare, e per rilanciare il progetto dell’eguaglianza economica, occorre un radicale sperimentalismo istituzionale. Occorre anche il coraggio di sovvertire le regole del gioco costituzionali più rispettate, a partire dai principi fondamentali della Costituzione italiana. McCormick ci ricorda come la possibilità di rivedere le regole del gioco deve far parte del costituzionalismo democratico. A nostro avviso, per preservare quella che per molti è l’eccezionale natura progressiva della Costituzione della Repubblica Italiana, bisogna modificare la carta costituzionale in profondità, per
adattarla all’esigenza ormai ineludibile di indebolire il potere economico e finanziario che sta riducendo sempre più gli spazi democratici.
Gli strumenti escogitati dall’Assemblea Costituente del 1946-48 non sono più sufficienti. Soltanto cambiando la carta costituzionale possiamo difendere alcuni dei valori fondamentali che essa esprime. In particolare, sarebbe utile cominciare un dibattito approfondito sull’Articolo 3, che l’Assemblea Costituente — proprio confrontandosi su questi temi — ha dedicato al tema dell’eguaglianza politica e dell’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. La continua manutenzione richiesta dalla democrazia dovrebbe portarci ad affrontare sempre di nuovo questo tema. Così recita l’attuale articolo:
Art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ci permettiamo, un po’ presuntuosamente, di offrire alla discussione un nuovo Articolo 3, che metta in primo piano e affronti in maniera più diretta e decisa i temi a cui si riferisce l’attuale versione, e che garantisca spazio, nella seconda parte della carta, a strumenti anti-rappresentativi mirati appunto a contrastare i danni strutturali alla vita democratica generati dall’esistenza di potenti oligarchie:
Proposta di modifica dell’Art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e politica e sono eguali davanti alla legge. Questa pari
dignità deve essere attivamente e costantemente promossa e protetta.
È dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La Repubblica istituisce meccanismi di controllo che permettono al popolo di contrastare le oligarchie rapaci e il potere conferito dall’accentramento e dall’accumulazione di risorse economiche e finanziarie.
La democrazia è in crisi a causa delle crescenti diseguaglianze economiche. È in crisi per la mancanza di strumenti istituzionali che promuovano e proteggano l’eguaglianza politica sostanziale e che controbilancino il potere politico che accompagna le grandi concentrazioni di risorse economiche. Bisogna avere il coraggio, anche con l’aiuto di alcune idee populiste, di democratizzare la politica in senso anti-rappresentativo e anti-oligarchico. Il rischio che si ripetano errori gravissimi, o che se ne
commettano di nuovi altrettanto gravi, c’è e va tenuto ben presente. Ma il rischio che invece non si faccia abbastanza e si venga risucchiati in un sistema dove il controllo popolare è di fatto inesistente è forse ancora più grave.micro-Lorenzo Del Savio-Matteo Mameli