Direzione Pd, Matteo avanti senza il partito: «Ho già il mandato per trattare con Berlusconi»
 











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Niente voto, «non c’è bisogno». Matteo Renzi usa la direzione del partito a proprio piacimento, la convoca last minute, la comincia con più di un’ora di ritardo, non la fa votare perché tanto, il nuovo accordo con Silvio Berlusconi sulla legge elettorale, è stato già siglato - letteralmente, con tanto di comunicato congiunto - giusto prima di entrare al Nazareno.
La minoranza del partito si lamenta, i più disertano l’appuntamento, ma l’esito non cambia. A Renzi va bene così, fa il suo intervento, ascolta le risposte mentre controlla twitter, l’adempimento è stato fatto: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi con Silvio Berlusconi», dice inutilmente Alfredo D’Attorre; «Non credo che avremo bisogno di un mandato esplicito», risolve il premier: «Per me possiamo votare o no, non cambia niente».
A Giuseppe Civati non resta che lasciare a casa, platealmente, contro le modalità di convocazione e conduzione della
direzione, la sua ventina di delegati, e di sfornare la consueta battuta polemica: «La prossima volta suggerisco a Renzi di portare direttamente Berlusconi alla nostra direzione», dice sotto il diluvio, prima di entrare nella sede del Pd.
 Polemica inutile, per Matteo Renzi, che il mandato è convinto di averlo già avuto non solo dalla Direzione ma anche e soprattutto dagli elettori: è al risultato delle elezioni europee che pensa, Matteo Renzi, quando spiega alla dimezzata platea i vantaggi del nuovo premio di maggioranza, che, con il rinnovato patto con gli alleati, dovrebbe scattare per la prima lista, superato il 40 per cento.
«Il Pd a vocazione maggioritaria oggi diventa grande, prendiamoci insieme questa responsabilità», dice il premier, pensando al rinnovato "voto utile", alla polarizzazione del quadro politico che dovrebbe produrre la nuova legge elettorale, nonostante l’abbassamento delle soglie di sbarramento, che serve a compensare, «a garantire la rappresentanza».
È un «passaggio storico, il Pd abbandona la coalizione e si candida alla guida del paese». «L’Italicum rischia di diventare l’Unicum», ironizza ancora Civati, «così nasce il partito unico di centro».
 Vorrebbe dire tre no, la minoranza Dem: al patto con Berlusconi, al Jobs Act («ne abbiamo già discusso per mesi», taglia corto Renzi), alla legge di stabilità. È probabile però che non ne dica neanche uno, in aula, se ci sarà il voto di fiducia (salvo i civatiani, che sono ormai più fuori che dentro). E alla fine, che Renzi non abbia voluto un voto dalla direzione è quasi un bene, perché, vedendosi nel pomeriggio, prima della convocazione, le varie anime della minoranza (Fassina, Cuperlo, Civati, Boccia) avevano deciso che in caso di voto in direzione ci si dovesse sottrarre, uscendo.
E invece sono potuti restare avanzando semmai il dubbio che il loro segretario, quando dice che la legge elettorale va approvata entro gennaio, stia pensando al voto anticipato che,
incidentalmente, oltre a misurare nuovamente la sua forza, azzererebbe i gruppi parlamentari e con loro le minoranze: «Qui non c’è nessuno che pensa che la legislatura debba andare avanti senza fare niente» dice chiarissimo Fassina, «però qualche dubbio che l’accelerazione sulla legge elettorale possa servire ad andare alle elezioni mi è venuto, di fronte ad un calendario così stretto. Lo dico con franchezza».Luca Sappino,l’espresso