Napoli-Roma
 







di Italo Pignatelli




Napoli–Roma (andata e ritorno) uno spettacolo ideato e diretto da Leonardo Ippolito al Cilea. Apparentemente è apparsa una serata di musica e canti romani e napoletani  con cantanti-attori che, velocemente, passano da un accento dialettale romanesco alla lingua partenopea universale imitata e studiata in più paesi tra i quali il Giappone che studia ed insegna il repertorio delle melodie nostrane già nelle classi elementari. Ma, in verità, si è subito presentato uno spettacolo impaginato in due schede analitiche della cultura delle due città, capitali entrambe ma diverse per filosofia, per concezione della vita, per differenziazioni di storie vissute, per approccio al quotidiano, per stile di lingua, per la visione del futuro con le sue incertezze, con i suoi dubbi, con le sue sorprese spesso nefaste e drammatiche per il napoletano a differenza del romano gaudente sbruffone godereccio di poco o quasi di niente, canterino per un vinello dei Castelli. Nelle canzonette della Roma degli anni cinquanta/sessanta, subito dopo la Liberazione e nel primo boom economico, si inneggia all’ amore sotto il Cupolone, al venticello del Ponentino, alla banana, fortunato a chi la tiene, ai tramonti del Gianicolo, alle passeggiate lungo il Tevere, alle scampagnate fuori porta. E’ lo stile di vita che Fellini, attento osservatore, ritrae con maestria nel film “La dolce vita” e poi in “8 e mezzo” ed ancora in “Roma”.
Napoli, invece, con la sua antica storia di invasioni, di domini stranieri, di eruzioni del suo eterno amico-nemico Vesuvio, di fame, di lotte civili, di ricerche tenaci della Libertà (Masaniello, La Repubblica partenopea, le Quattro Giornate), canta il suo dramma esistenziale, canta la sua cultura sedimentata nei secoli, canta la sua indole ironica, vivace, fatalista, indomita, sempre ribelle e mai rassegnata, canta il suo peregrinare per il mondo in cerca di fortuna non per arricchirsi ma solo per vivere.
Negli stessi
anni, contemporaneamente, i menestrelli romani cantano a squarcia gola “Roma non fa la stupida stasera” e “come è bello far l’amore quando è sera con una pupa che è sincera” ed Aurelio Fierro, ironicamente, si strugge per “Lazzarella” e Totò, serio in volto, canta, con voce tremolante, occhi languenti neri appassionati, tragicamente il suo inno d’amore per una Grande Donna che, non riuscendo a vedere l’uomo dentro il mimo, lo ha abbandonato, e, incredibile, è una “Malafemmina”.
La luna romana, specchiandosi nel Cupolone, amoreggia complice con gli amanti, ed invece, la “luna rossa” napoletana, induce ad aspettative, a lunghe ed estenuanti attese, a delusioni, ad amori non corrisposti. A Roma si fa festa col vinello di Trastevere ed è veramente festa gioiosa ma, nella nostra città, alla festa del Patrono, succede una inaspettata tragedia: si perde Zazà e con lei l’illusione di un uomo innamorato abbandonato improvvisamente e tradito dal suo unico Amore, che lo cerca disperatamente
tra la calca della folla a cui chiede disperatamente aiuto, singhiozzando, di cercarlo coinvolgendo anche la banda, pazza idea mera illusione, per suonare inni di gioia per il suo ritrovamento e per il suo ritorno tra le sue braccia, ma poi, si rende consapevole della folle e vana ricerca e prende coscienza dell’addio, una fuga improvvisa, di cui non sa darsi, sul momento sbigottito, una spiegazione.
A questo dramma, cantato in farsesco con ritmo allegro di una marcia, fa eco la disperazione, espressa sommessamente con un fil di voce, “...e tu comme si tant’aspra e crudele? Morto me vide e non mme vuò aiutare?” nella ode di autore ignoto “Fenesta vascia” ed in“Core ingrato”, uomo disperato della perdita, dopo aver dato  tutto sé stesso, alla sua amata, perfida ammaliatrice, ed, ancora, un altro amante disperato invoca “aràpete fenesta” mentre aspetta, in strada, al freddo e al gelo, un semplice cenno di saluto con una sola mano od anche spera in una sua apparizione furtiva
immobile ed, ancora, un geloso si strugge, ogni sera, col pianto in gola, in “Voce ‘e notte”, una serenata alla sua amante che, amoreggiando con suo marito, si rasserena, pacatamente, mormorando fra sé “canta isso sulo…ma che canta a ffa”.
“Santa Lucia”, “Torna a Surriento” e “Lacreme napulitane” sono i canti che gli emigranti fischiettano, “me ne resto fora e resto a fatica pe’ tutte quante…,j’ so carne ‘ e maciello. E nce ne costa lacreme st’America”, in solitudine nelle brevi pause di lavoro o, dopo cena all’imbrunire, per comunicare a sé stessi la dura e amara lontananza dalla propria città, dai propri affetti ed anche, perché no, dalla propria cucina, ricca e povera ma tanto prelibata. Gli stranieri presenti a Napoli, turisti o residenti, la cercano e la sostituiscono alla propria per la sua varietà, per i suoi sapori, per la sua velocità di preparazione, per i suoi costi contenuti, per la sua corretta e sobria alimentazione che soddisfa il gusto, la vista, l’olfatto e non
ingrassa.
Leopardi, negli ultimi suoi anni trascorsi tra noi, racconta inebriato ed ingolosito del profumo del pane caldo, del caffé, dei gelati, dei confetti, dei dolci, delle angurie, dei fichi d’India, delle limonate, delle granite, degli spaghetti appena cotti, conditi con la “pummarola ‘ncoppa” spruzzi di formaggio e basilico, comprati e mangiati in strada. Ed ancora Roma “è bella quando piove” e Napoli è, Donna pazzarella vivacemente dispettosa, quando alterna il sole alla pioggia, mentre, quando“chiove chiove a zeffunne” è triste. Si fa fredda l’aria e si fa cupo il cielo ed Ella non è più la stessa. Non ha il suo Sole che, oltre a dare luce e calore, Le da la forza di sperare e di illudersi in un domani meno ansioso, meno tribolante, meno inquietante, meno incerta di arrivare, a sera, tutti intorno ad un tavolo senza raccontarsi tristi o ferali notizie, senza più una numerosa “Corte dei Miracoli” che Pietro, pietosamente, accoglie a sé in Paradiso, oppure, senza ripetersi
mestamente “io vulésse trovà pace, ma una pace senza morte” e augurandosi di risvegliarsi al mattino in una “Napoli milionaria” ed in coro  sentire gridare “nzerrate llà campamo senza i cammurristi”.
Unico punto di incontro tra le due culture è evidenziato con “Gastone” di Ettore Petrolini, chansonier e attore del Ventennio che con ironia e sarcasmo rappresenta la vita e il costume comportamentale del suo periodo. Il Petrolini si presenta sulla scena, davanti ad un pubblico di gerarchi, indolente, nei capelli impomatato, come uso comune dei maschi fascisti, con una piega amara sulla bocca, triste in volto, con voce marcatamente effeminata e beffarda, con movenze da pigro rammollito, e cosa fa se non prendersi gioco del suo pubblico che, divertito e stupidamente applaudente ed ignaro di essere il protagonista goffo dello spettacolo, si diverte tantissimo.
La trasgressione di Ettore somiglia molto a quella espressa da Viviani, da Scarpetta, dai fratelli De Filippo, da Totò,
dalla commedia dell’arte cresciuta nella culla partenopea già nell’antichità. Essa, forse, come linguaggio, è stata un valido veicolo di aggregazione per i tanti stranieri presenti nella Neapolis che, a loro volta, hanno arricchito col loro sapere la cultura e la particolare metodologia di vita del napoletano, ispiratrice per tanti suoi fratelli filosofi, ed, anche, hanno contribuito ad una evoluzione raffinata degli usi, della moda, dell’arte e della cucina.
Ippolito ha concepito lo spettacolo come un abile artista dei fuochi d’artificio di una Piedigrotta con veloci azioni sceniche, con intrecci di melodie e stornelli delle due città, con una raffinata ed elegante coreografia degli stessi cantanti di Anna Prisco; inserisce spicchi di cabaret e di avanspettacolo; si avvale della collaborazione di Antonietta Rodo per i costumi, di Tony Iglio e Ginetto Ferrara per gli arrangiamenti musicali, di Mario Esposito per le luci e l’orchestra, nella sua fossa sotto il palco, è diretta da
Franco Coni, Ginetto Ferrara alla tromba, Franco Vistola al  trombone, Angelo Cavadenti al sax, Gaetano Raffo alla batteria, Massimo Barretta al basso, Dino de Angelis alle tastiere. Otto cantanti, quattro maschi e quattro donne, Natalia Cretella, Antonio De Rosa, Simona Esposito, Christian Moschettino, Naila, Maurizio Murano, Lello Pirone, Daniela Sponsilli. Tutti bravi anzi bravissimi e tra loro vanno menzionati Lello nello sketch “il caffè” con Simona, Maurizio e Antonio, e lo stesso nella macchietta frizzante “sciuscià”( pulitore di scarpe ambulante) con  Natalia e da solo nella “pansé”, fiore che, delicatamente sfumato nei vari colori, dura poco, come il papavero, perché si appassisce come un sogno, ed è presente spesso nelle liriche come dono ricordo da conservare gelosamente tra due pagine di un libro o in una lettera degli innamorati momentaneamente separati. Invece, “Gastone” è interpretato in modo eccezionale, tanto da fare rivedere in azione il Grande, da Maurizio con Simona che da sola ripropone “maggia curà”. Daniela strappa applausi a scena aperta in “tu si na cosa grande” e Christian travolge il pubblico in “o sole mio”
Lo spettacolo, effervescente con una carrellata di canzoni intrecciate tra di loro con maestria, dura circa due ore che si trascorrono piacevolmente ricordando Sordi, Ferri, Rascel, Caruso, Taranto, Murolo, Carosone.
Si replica sabato e domenica .
Il teatro fa bene disintossica come il latte e ti fa meditare. Il riflettere è l’unico energetico per il cervello ed è una medicina, senza controindicazioni, per tenere lontano lo spettro della vecchiaia, ultima soglia su cui è obbligo soffermarsi a lungo per dare agli altri, ai giovani in particolare, la memoria della storia seme del domani.