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Tsipras sogna un’altra Europa e l’Italia cosa fa? |
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L’Italia e la Grecia nel loro rapporto con l’Europa e con i propri elettori si trovano in due situazioni molto diverse tra loro ma anche accomunate da alcune importanti analogie. Entrambi i loro leader hanno promesso molto, i due Paesi sono funestati da pesanti debiti e vorrebbero cambiare la politica economica europea. Entrambi infine sono ammirati e politicamente amati dalla maggioranza degli elettori nei loro rispettivi Paesi. Comincerò dunque ad occuparmi di Alexis Tsipras e concluderò con Renzi: ci riguarda molto più da vicino e si merita dunque il finale. Il governo greco guidato da Tsipras e dal suo ministro delle Finanze si poneva all’inizio quattro obiettivi: trasferire il suo debito all’Europa per cinquanta anni e senza interessi; ottenere nuovi prestiti senza rimborsare quelli già scaduti ed effettuati da vari Paesi, tra i quali anche l’Italia, e dalla Bce; rifiutare la "Troika" e gli impegni da lei imposti; negoziare una nuova politica economica europea ed anche istituzioni più democratiche e meno burocratiche alla guida dell’Europa. Il primo obiettivo è stato ovviamente rifiutato e fu Draghi qualche giorno fa a dirglielo con la dovuta fermezza. Del resto, avrebbe suscitato proteste più che giustificate da parte del Portogallo e di altri Paesi membri dell’Eurozona che la "Troika" ha assistito imponendogli i massimi sacrifici da essa presunti come inevitabili medicine. Il secondo (nuovi prestiti e prolungamento di quelli in scadenza) è stato anch’esso rifiutato: un Paese fortemente debitore non può contrarne altri a cuor leggero senza neppure accettare il controllo della "Troika". Su questo punto Draghi ha chiesto il rimborso immediato del prestito concesso direttamente dalla Bce, in mancanza del quale la Banca centrale non rinnoverà il suo sostegno alle banche greche in stato di pre-fallimento. Il terzo obiettivo, la politica di crescita, sarà il vero oggetto delle consultazioni che si apriranno nei prossimi giorni e che probabilmente avranno soluzione positiva; se vogliamo evitare il default della Grecia e lo scossone che ne deriverebbe all’intera economia europea è su questo tema che bisogna lavorare. Questo, del resto, è un obiettivo condiviso da gran parte dei Paesi dell’Eurozona e dalla stessa Banca centrale. Infine la revisione delle istituzioni di Bruxelles. Il significato di questa richiesta è verosimilmente un passo verso l’Unione federata anziché confederata, con le relative cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Questa a me sembra la posizione più positiva tra quelle che Tsipras spera di ottenere; non riguarda solo la Grecia e dovrebbe essere quella di tutta l’Unione. Purtroppo non lo è, neppure dell’Italia, ma lo è però della Bce. Può sembrare paradossale che la spinta verso gli Stati Uniti d’Europa venga da un Paese che si trova sull’orlo d’un precipizio e grida anche nelle piazze la propria disperazione. Potrebbe esser messo in condizione di uscire dall’euro e chiede non solo flessibilità e soccorso monetario ma addirittura la nascita di uno Stato che si chiami Europa ed abbia i poteri finora dispersi su 28 Paesi. Se si verificasse su questo punto una coincidenza politica tra Tsipras e Draghi, anche l’adempimento degli impegni economici della Grecia diventerebbe più facile. Ma gli avversari sono molti, anzi tutti, Renzi compreso: i governi nazionali non vogliono perdere la loro sovranità. Ecco un tema sul quale Renzi dovrebbe dare le dovute ma mai fornite spiegazioni. La sua passione per il cambiamento riguarda solo l’Italia e non l’Unione europea della quale siamo perfino i fondatori? ***Siamo così al tema Renzi che direttamente riguarda noi, europei ed italiani. Il nostro presidente del Consiglio ha fatto, con l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, un vero capolavoro politico, l’abbiamo scritto domenica scorsa e lo ripetiamo. Personalmente ho parecchie riserve su Renzi ma la verità va riconosciuta e sottolineata proprio da chi su altri temi ha manifestato e dovrà ancora manifestare ampi motivi di dissenso. Si parla, a proposito del Pd renziano, di partito della Nazione. Esiste già oppure è un obiettivo per il quale Renzi lavora alacremente? E qual è il significato di un’immagine che prende quel nome come vessillo? Ci sono due modi di intendere quel nome. Uno, indicato nei suoi scritti, è sostenuto da Alfredo Reichlin e significa un partito che ha capito quali sono i concreti interessi del nostro Paese e cerca di attuarli utilizzando gli insegnamenti della Storia e dell’esperienza. Pienamente accettabile. L’altro modo di intendere quel nome è un partito che riscuote un tale consenso elettorale da essere di fatto un partito unico avendo ridotto gli altri a piccole formazioni di pura testimonianza. Questo è il senso che Renzi ha dato a quel nome, naturalmente non escludendo affatto il primo significato ma subordinandolo al potere concreto e quasi esclusivo del partito della Nazione. Per ora tuttavia quel partito non c’è: nell’attuale Parlamento, diretta espressione del popolo sovrano, siamo in presenza di una situazione tripolare. Fu eletto col "Porcellum" e il Pd lucrò il premio di maggioranza alla Camera, ma restarono tre grandi schieramenti: Pd, Pdl (i berlusconiani allora avevano il nome di Popolo della Libertà) e il Movimento 5 Stelle. Tripolare. E tale durerà fino al 2018, stando all’impegno assunto e sempre ripetuto da Renzi nelle sue pubbliche esternazioni. Un Parlamento tripolare non consente l’inverarsi del partito della Nazione, ma ne permette l’avvio, anche con le riforme della Costituzione e in particolare con quella che riguarda il Senato, sempre che arrivi in porto, visto l’ultimo voltafaccia di Berlusconi. L’ex Cavaliere, bruciato dall’elezione di Mattarella, ha improvvisamente scoperto che c’è una deriva autoritaria nelle riforme che aveva sostenuto fino a ieri. E che quindi il patto del Nazareno non c’è più: vedremo quanto a lungo manterrà questa posizione. L’uomo, si sa, non è famoso per la sua coerenza. Ma vale comunque la pena di riprendere il tema del Senato, specie ora che spetterà al nuovo Capo dello Stato promulgare le leggi una volta che arrivino sul suo tavolo. *** Quella legge di riforma prevede che il Senato (continuare a chiamarlo così mi sembra ridicolo) diventi Camera delle Regioni, ne sostenga gli interessi in Parlamento, sia il custode dei loro poteri amministrativi e legislativi, ne sorvegli la legalità dei comportamenti ed eventualmente ne punisca quelli ritenuti politicamente illegittimi. Quanto al resto, il Senato previsto perderà quasi tutti i suoi poteri attuali salvo quelli che riguardano leggi costituzionali e trattati europei. Sono favorevole a riservare il potere di fiducia soltanto alla Camera, in nessun Paese europeo di solida democrazia la cosiddetta Camera Alta detiene quel potere e ben venga dunque su questo punto il regime monocamerale. Ma proprio perché dare o togliere la fiducia non spetterà più ai senatori, possiamo e anzi dobbiamo lasciare intatti i loro poteri di controllo sull’Esecutivo e sulla pubblica amministrazione. Il potere Legislativo ha un duplice ruolo: quello di approvare le leggi e quello di controllare il governo nei suoi atti esecutivi. Ridurre al monocamerale anche questi atti dell’Esecutivo ha il solo significato di accrescere la sua libertà di azione; la rapidità è un bene che l’esistenza di due Camere non ha mai danneggiato, come molti sostengono ma come i dati smentiscono. Quindi la legge di riforma può e deve su questo punto essere emendata. Ancor più necessario - perché può rischiare anche l’incostituzionalità - è modificare il testo di legge per quanto riguarda l’elezione dei senatori. La riforma attualmente prevede che siano designati dai Consigli regionali. Qui c’è un’incoerenza di estrema gravità: un organo preposto alla vigilanza sulle Regioni, i cui membri sono eletti da chi dovrebbe essere da quell’organo controllato ed eventualmente sanzionato, anziché dal popolo sovrano. Per di più in un Paese dove una delle maggiori fonti di malgoverno e corruzione è presente proprio nei Consigli regionali. Mi sembra assolutamente necessario che sia il popolo ad eleggere direttamente i senatori. Mi permetto di segnalare quest’aspetto della legge di riforma costituzionale affinché sia adeguatamente modificato. La forma attuale è un fallo e l’arbitro ha diritto e dovere di fischiare indicandone la punizione (in questo caso la modifica). *** Post scriptum . In una recente intervista televisiva a Maria Latella, il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha preannunciato un suo disegno di legge che presenterà nei prossimi giorni. Riguarda l’obbligo del vincolo di mandato che attualmente è escluso da un articolo della Costituzione. Ora anche i Cinquestelle dicono la stessa cosa. Dunque Grillo e Salvini vogliono che un membro del Parlamento eletto su candidatura del partito cui aderisce non possa in alcun caso votare contro il suo partito del quale ha l’obbligo di eseguire pedissequamente gli ordini. Se la sua coscienza glielo impedisce, la sola via di fuga che può adottare sono le dimissioni dal Parlamento. Se questa proposta venisse accolta, sarebbe sufficiente un numero di parlamentari estremamente limitato. Magari una cinquantina, che rappresentino proporzionalmente i consensi ottenuti dal partito cui appartengono. Per di più non ci sarebbe nemmeno bisogno di discussioni e basterebbe spingere dei bottoni per registrare il voto di quel gruppetto di persone. Una proposta così può essere fatta soltanto da chi vuole instaurare per legge una dittatura. Oppure da un pazzo. Scelgano Salvini e Grillo in quale di questi due ruoli si ravvisino. Eugenio Scalfaro,repubblica |
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