La Libia, la Grecia e la rapsodia in blu di Matteo Renzi
 











Eugenio Scalfari

Tripoli bel suol d’amore / sarai italiana al rombo del cannon": era il 1911 e l’Italia (governo Giolitti) conquistava lo "scatolone di sabbia" della Tripolitania, avendo mancato, preceduta dai francesi, di occupare la Tunisia allora molto più ambita. Mussolini e Pietro Nenni, da buoni socialisti quali erano, avevano cercato con tutti i mezzi di fermare la guerra, perfino facendo stendere i loro compagni sui binari dello snodo di Bologna per ostacolare i treni che portavano i soldati a Napoli e a Palermo per partire verso la Quarta Sponda, mentre Gabriele D’Annunzio celebrava l’impresa con le sue Canzoni d’Oltremare.
Tempi antichi, anzi antichissimi. La Libia  -  dove nel frattempo è stato scoperto il petrolio  -  non esiste più. Esistono governi che si odiano tra loro o fingono di ignorarsi: Tripoli, Tobruk con le bande di Bengasi e Misurata e circa duecento tribù della più varia estrazione e tre regioni geopolitiche:
Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. E poi il deserto e le sue oasi.
In aggiunta c’è anche una propaggine del Califfato, che non si sa bene a chi si riferisca perché i capi sono locali; hanno occupato Derna e Sirte. In questo "puzzle" si muovono liberamente spacciatori di uomini e di droghe, gli scafisti e gli schiavisti che conducono centinaia di migliaia di famiglie dall’Africa sub-equatoriale fino al mare e si dirigono verso l’Italia per poi, in grande maggioranza proseguire verso la Francia, la Germania, in Belgio insomma nell’Europa che offre più occasioni di lavoro. Ne muoiono a migliaia nel viaggio in mare ma il flusso non si arresta anzi crescerà sicuramente col passare del tempo.
Questa è la situazione dove l’Italia è tra i Paesi più minacciati, ma lo è anche l’Europa nel suo complesso. Perciò bisogna farvi fronte, bisogna indurre (costringere?) i governi libici ad una sorta di "union sacreé", bisogna prendere contatto con le principali tribù e arrivare ad un
accordo.
Forse ci vorrà anche un’adeguata e non simbolica presenza di militari in funzione di "peacekeeping" o addirittura di "peace-enforcing" ma affinché siano adeguate al compito in un Paese che è sei volte l’Italia, gli esperti ne valutano la consistenza a novantamila uomini, più i necessari appoggi navali e soprattutto aerei. Pensare all’Egitto è inutile, non dispone di forze adeguate e comunque ha ben altri problemi da risolvere.
Chi deve fornire l’ombrello internazionale, sia per la mediazione politica sia per l’"enforcing" militare, sono (in teoria) l’Onu, l’Europa, la Nato.
Matteo Renzi, con la rapidità che gli è propria negli annunci, ha già rivendicato la guida italiana sia per l’aspetto politico sia per quello eventualmente militare. Del resto ricorre proprio oggi l’anniversario del suo insediamento a Palazzo Chigi un anno fa. La leadership anche sul caso libico sarebbe per lui (anche per noi italiani?) un vero e proprio festeggiamento.
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Non so se Renzi
conosca le canzoni di D’Annunzio, ma questa semmai sarebbe una lacuna trascurabile. Il vero guaio è che a questo fine le sedi decisionali sono fuori dalla sua portata. L’Onu non deciderà un bel niente, impedita come è dalla presenza della Russia e della Cina nel Consiglio di Sicurezza. È vero che il 2 marzo il nostro presidente del Consiglio andrà a Mosca per incontrare Putin. Sarà certamente accolto benissimo, una montagna di caviale e litri di vodka specialissima. Putin non si muove ma parla con tutti, dal presidente egiziano alla Angela Merkel e Hollande (lì però si parlava di Ucraina e il discorso è alquanto diverso).
A Renzi darà tutte le rassicurazioni: la Russia è contro il terrorismo e quindi non lo favorirà in nessun caso. Ma i terroristi libici hanno a che fare con il Califfato? Quello che è certo è che fornire truppe non è mai avvenuto in Africa e quindi è certo che truppe russe non ci saranno. Quanto al voto nel Consiglio dell’Onu, le varie nazioni che vi partecipano
possono tutt’al più avallare un intervento solo se sarà stato deciso da altri enti internazionali ma non sotto la sua bandiera. Potrà nominare un moderatore, ma non sarà certo Putin a determinarne la scelta. Tantomeno Renzi. Saranno, ovviamente, gli Usa.
Il viaggio di Renzi a Mosca serve a metterlo in bella vista a Roma. Tornerà soddisfatto e ci racconterà di un pieno successo e questo è tutto. E l’Europa? Come sempre è divisa: la Francia vorrebbe una presenza militare, la Germania no. L’Italia, tutto sommato, neppure, sempre che non si riveli indispensabile. Insomma pensare ad un piano europeo per la Libia è escluso. Salvo la Mogherini, titolare della politica estera e della difesa dell’Ue. Via, come direbbe Enrico Mentana, questa è una mia battutaccia. Resta la Nato e questa sarebbe lo scudo più appropriato, ma anche qui sono gli Usa a decidere. Perciò, caro Renzi, rassegnati: sulla costa libica noi possiamo anzi dobbiamo occuparci solo degli sbarchi di immigranti sulla nostra
costa ed anche questa non è una bazzecola. Il resto sarà deciso altrove. O forse  -  speriamo di no  -  da nessuno.
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La querelle tra Grecia ed Europa invece è andata a buon fine o almeno la soluzione provvisoria c’è stata: Tsipras ha ottenuto che i governi europei gli prestino altri 7 miliardi. Ma ha accettato le riforme contenute nel memorandum europeo che richiamava gli impegni già presi dalla Troika col precedente governo. Ora dovrà convincere la piazza e non sarà un’impresa facile. I greci però che l’hanno appoggiato con stragrande maggioranza nel voto e in piazza, avevano anche manifestato la loro contrarietà ad uscire dall’euro. Su questi tue tasti contraddittori Tsipras giocherà la sua partita e probabilmente  -  si spera  -  la vincerà.
Non dimentichiamo che il suo vero interlocutore non è stato Schäuble che addirittura si è permesso di insultare il governo di Atene violando con ciò il prestigio dovuto alla sovranità dei
governi nazionali, ma è stato Mario Draghi che aveva già deciso di proseguire per un mese il finanziamento delle banche greche aumentandone addirittura l’ammontare.
In realtà se c’è una persona e un’istituzione che sta mettendo al sicuro l’euro e si occupa anche di favorire la crescita e l’avvio dell’Europa verso un vero Stato continentale, questo è lui e la Bce. Anche l’Italia ha in Draghi il suo efficiente "testimonial". Se le nostre esportazioni hanno ripreso a correre non è un merito delle imprese italiane ma del cambio euro-dollaro che ormai è ad un passo dalla parità. Ne deriva la ripresa della domanda di beni e servizi italiani, mentre si riduce il prezzo del petrolio (ma lì Draghi non c’entra) che ci frutta un risparmio notevolissimo da impiegare nel modo migliore. Per esempio nell’abbattere interamente il cuneo fiscale. Tutti questi miglioramenti si sono prodotti al di fuori dal raggio d’azione del governo, come la ripresa dell’esportazione e la plusvalenza
nell’importazione di materia prima energetica. Questi elementi rappresentano un preliminare che darà rilancio agli investimenti e quindi, quando gli impianti saranno tornati al loro tetto naturale, anche ad un aumento dell’occupazione. In tutto questo la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia "classista" non sfugge a nessuno. Queste sono scelte politiche sulle quali i sindacati si sono già manifestati contro, ma dove la parola definitiva spetta al governo. Un punto tuttavia deve esser chiaro: il Jobs Act è teoricamente una buona legge ma produrrà i suoi effetti nella misura in cui riprenderanno gli investimenti e la madre di questa ripresa è stata appunto la Bce e lo sarà ancora di più quando avrà inizio ormai tra pochissimo tempo la "quantitative easing". Questo e solo questo renderà funzionante il Jobs Act, senza di che tutto rimane fermo e le imprese non assumono.
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Sui dettagli, tutt’altro
che trascurabili, del Jobs Act non mi diffondo. Ci sono altri servizi sul nostro giornale che fin da ieri aveva già compiuto un’attenta e oggettiva analisi della legge, i suoi pro e i suoi contro nonché i consensi e le critiche delle parti interessate. A me premeva sottolineare che quella legge produrrà effetti positivi solo quando le misure monetarie e creditizie delle Bce avranno dispiegato tutti i loro effetti; in parte sono già in atto e col passare del tempo lo saranno ancora di più.
Mi resta ancora un punto da esaminare che non ha nulla a che fare con quanto fin qui è stata materia di riflessione: l’andamento nel mondo del concetto e della prassi della democrazia. C’è un sondaggio internazionale che ne parla ed è assai istruttivo e al tempo stesso molto preoccupante.
La democrazia partecipata, cioè col consenso del popolo e l’esercizio dei suoi diritti, è in forte declino. Questo fenomeno varia da paese a paese sia nelle forme sia nelle date in cui quel fenomeno ebbe
inizio, ma il processo di decadimento è generale in tutti i continenti che compongono il nostro pianeta. Per noi il decadimento cominciò una trentina d’anni fa ed è andato aumentando nel ventennio berlusconiano ma, continua ad aumentare sempre di più. Il fenomeno si manifesta soprattutto in Occidente dove le democrazie partecipate sono nate e si sono sviluppate. Il sondaggio accenna anche alle cause che fanno da sottofondo al fenomeno ma in questo caso non si tratta più di sondaggio bensì di interpretazione dei sondaggisti. La causa si chiama indifferenza, soprattutto da parte dei giovani. O addirittura lo si può chiamare nichilismo. I giovani non si interessano alla politica né alla storia e al lascito di esperienze che il passato consegna al presente e si disinteressano anche del futuro.
Ovviamente non tutti i giovani sono indifferenti e nichilisti e non tutti gli indifferenti e nichilisti sono giovani, ma le dimensioni del fenomeno sono quelle già dette. Attenzione: non sono dei
bamboccioni che vivono nelle braccia protettive di mamma e papà; sono giovani fattivi, arditi, creativi. Ma la democrazia partecipata non rientra nei loro interessi. A questo si deve aggiungere che alcuni (molti) governi approfittano di quest’indifferenza e addirittura la anticipano sottraendo diritti politici al tessuto costituzionale sicché, quand’anche la maggioranza dei giovani cambiasse atteggiamento, i diritti concernenti la democrazia partecipata non ci sarebbero più o sarebbero stati fortemente ridotti Consegno ai nostri lettori queste considerazioni. Se mi leggono questo è un segno che vedranno questo fenomeno con analoghe preoccupazioni. Quei diritti mi riguardano anche personalmente perché, pur essendo vecchio, ne usufruisco e vedendoli ridotti o aboliti anche io protesto e me ne dolgo.Eugenio Scalfari,repubblica