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Un’esperienza musicale sociologica |
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Rosario Ruggiero
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Che la musica sia una forma di espressione ibrida è realtà evidentissima. Quale forma di espressione, d’altronde, non lo è? L’arte dei suoni è storia, in quanto manifestazione di risultati tecnici e valori squisitamente epocali. È filosofia, in quanto ricerca del bello, quindi estetica. È scienza, giacché impostata su attente ricerche di acustica. È tecnologia, per il secolare lavoro legato alla fabbricazione dei suoi strumenti. È medicina, per le sue riconosciute virtù terapeutiche. È gioco, con i suoi strabilianti virtuosismi. É danza. È teatro. Ma non è solo questo. Estate, mare, bagnanti, spiaggia affollata (seppur non più come appena pochi decenni fa), e dagli altoparlanti dello stabilimento balneare (uno dei pochi con ancora in vigore questo uso), a iosa, incessantemente, le canzoni più recenti, con le loro melodie e le loro tematiche espresse dai testi. Il giovane animatore turistico, addetto alla scelta dei brani da proporre, passa tra gli ombrelloni a chiedere i più vari desiderata per il giorno dopo, così, il dì seguente, nel succedersi delle canzoni richieste, ha luogo un sorprendente fenomeno: uno, due, tre, quattro, cinque celeberrimi, indimenticati successi estivi degli anni Sessanta, canzoni spensierate, senza alcuna pretesa se non quella di esprimere, nella maniera più banale possibile (melodica, armonica, ritmica e testuale) la gioia di vita di un’epoca di rinascita economica, fauste speranze e veloce miglioramento della qualità della vita. E subito, con l’immediatezza tipica di certi fenomeni della psiche, un tuffo nel passato, da dove riemergono, sorprendentemente, atmosfere oramai, da anni, poco per volta, inavvertitamente, relegate nel dimenticatoio, ma certo mai estinte. Ecco gli eleganti motoscafi in legno, le spiagge brulicanti di vivace umanità, chi a giocare a tamburello, chi a bocce, chi a costruire castelli di sabbia, chi a far tuffi dagli scogli o, in alto mare, dal pattino, chi, in gruppo, ad afferrare la ragazza o il ragazzo di turno e lanciarlo, suo malgrado, in acqua, chi, infine, a ballare sullo stabilimento (danze certo stupide ma mai irreggimentati da irriducibili animatori in movimenti coordinati collettivi quando non in esercizi di “risveglio muscolare” per fisici attempati ed atleticamente improbabili), tutti gli ombrelloni gremiti, nessuno tristemente vuoto, ed in nessun modo, nella più profonda intimità, un sottile senso di colpa per quanti assenti giacché non sono più tempi di ampia villeggiatura (trenta o sessanta giorni continui nella stessa località) ma, per lo più, semplici ferie spese a sprazzi, pochi giorni per volta, prediligendo gli spostamenti da un luogo all’altro. Nel frattempo l’altoparlante continua, imperterrito, ad effondere i suoi canti ed i suoi argomenti: pinne, fucile, occhiali, pretestuose richieste alla genitrice di andare a comperare del latte, tanto “che mi importa del mondo quando tu sei vicino a me?”, d’altronde “il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno, ed il giorno verrà”, quel giorno alla luce del quale, “legata a un granello di sabbia” o tra “mille bolle blu”, “sei diventata nera come il carbon”, quando non “rossa spellata … come un peperone”, col desiderio che qualcuno, giunto a determinazione, si dica “stasera mi butto … con te” e diventare insieme “la coppia più bella del mondo”. E mentre l’altoparlante continua infaticabile, sulle ali di quelle melodie la musica si rivela anche ineguagliabile strumento emozionale per una riflessione sociologica che non è per nulla trascurabile. |
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