Ancora una preziosa testimonianza su Giuseppe Terracciano
 







Rosario Ruggiero




Tra le difficoltà di una ricerca storica va sicuramente annoverato il reperimento di documenti utili, i quali è possibile dividere in reperti materiali ed oggettivi (scritti, immagini, e più) e rievocazioni mnemoniche, quindi umane, psicologiche e, perciò, opinabili.
Ad aumentare le informazioni, e tentare di ridurre ogni dannosa parzialità, allora, il confronto tra le diverse fonti. Per questo, a coronamento di già due articoli, tra i quali un’intervista al concertista Achille Giordano, dedicati alla figura di Giuseppe Terracciano, ragguardevolissimo pianista malauguratamente poco noto specialmente per quanto riguarda il suo altissimo magistero interpretativo, e unitamente alla divulgazione informatica fatta di sue esecuzioni, oggi facilmente reperibili ed ascoltabili, questa terza pubblicazione che riporta i risultati di una chiacchierata recentemente avuta con un’altra persona che ebbe modo di frequentare lungamente quell’artista, il
sacerdote Paolo Saturno, già docente di conservatorio per ben otto lustri, ed allievo nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, dell’insigne maestro, nonché, di questo, anche amico.
E se il giudizio di padre Saturno è poco benevolo sul carattere di Giuseppe Terracciano, ammiratissima è, senza alcuna esitazione, l’opinione sul valore artistico: «Mai sentito una sola remora sul suo straordinario pianismo e sul concertista, ben più noto specialmente all’estero, in Svizzera, Spagna, Francia e Germania certamente. D’altronde, nella sua città, Napoli, non amava esibirsi. Formidabile poi la sua cultura musicale che lo invogliava ad illustrare i brani in programma prima dell’esecuzione e ad inclinare a sceglierne frequentemente di rari. Allievo di Florestano Rossomandi, di Guido Agosti e di Alfredo Casella, per sua ammissione, allo strumento sedeva sostanzialmente immobile, ripudiando, anche in altri pianisti, la gestualità plateale, superflua e, dal punto di vista
esecutivo, certo pericolosa. Il suo era uno studio delle composizioni da eseguire accuratissimo, che avveniva dapprima sul testo, sul quale apponeva curiosamente infinite annotazioni con matite di diversi colori nel precipuo obiettivo di una penetrazione spirituale e psicologica, del brano e dell’autore, quanto più profonda possibile. Riteneva, infatti, che il brano andava memorizzato prima con l’occhio, quindi con la mano, e all’uopo, una volta ebbe anche a raccontarmi di avere addirittura studiato in treno, senza ausilio alcuno di pianoforte, una intera composizione, per poi eseguirla, incredibilmente, all’arrivo, direttamente in concerto».