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LE TENSIONI NEL CUORE DELL AFRICA |
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di Cecilia Pennacini
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«Tutto, tutto si può fare in questo paese» diceva il direttore dell’avamposto della «Compagnia» a Marlow, protagonista del capolavoro di Joseph Conrad, Cuore di tenebra , in viaggio verso il cuore del Congo. In realtà si trattava di un viaggio nel cuore oscuro dell’Europa coloniale che, sotto il pretesto di una sua presunta missione civilizzatrice, aveva dimostrato nei confronti dei «selvaggi» africani una rapacità totalmente priva di scrupoli. Sono passati più di cento anni, ma il Congo continua a essere preda di molteplici interessi, e la millenaria civiltà dei Grandi Laghi, che nel passato aveva dato vita a regni fiorenti e raffinati, appare ancora scossa da forze devastanti. Un paesaggio equatoriale, verdeggiante di colline, montagne impervie, fiumi impetuosi e laghi immensi, dove una terra fertile per il pascolo e l’agricoltura ha consentito l’antico insediamento e l’incontro di diverse culture, ha visto negli ultimi cinquant’anni un susseguirsi di conflitti e di tragedie. Al progresso promesso dall’Occidente, dalle Ong e dalle agenzie internazionali si oppone paradossalmente l’esperienza di un percorso involutivo, segnato dal caos e dall’anomia. Effetti collaterali L’ultima crisi si consuma da alcuni mesi nel Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo. È di pochi giorni fa la notizia che circa quattromila soldati dell’esercito regolare ruandese hanno passato il confine per dirigersi verso nord, nell’ambito di un’operazione militare concordata con il governo della Rdc. Obiettivo dell’operazione: fermare e disarmare le varie milizie presenti nell’area, tra cui le Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (Fdlr), in parte composte da genocidari hutu rifugiati in Congo dopo 1994. Il 22 gennaio, il generale Laurent Nkunda, comandante dei ribelli tutsi, viene arrestato e imprigionato in Ruanda. Il fallimento della missione Onu (Monuc) sembrerebbe aver spinto i governi congolese e ruandese ad allearsi per ristabilire l’ordine, tentando di arrestare nel contempo il sistematico saccheggio delle risorse minerarie. Tuttavia l’aumento della presenza militare in un’area che il corrispondente della Bbc Mark Doyle ha definito «l’Israele dell’Africa» (Bbc News, 20 gennaio 2009) non può che lasciare presagire pesanti «effetti collaterali» a danno di una popolazione da mesi in fuga dai saccheggi e dalla violenza, sistemata in campi profughi sovraffollati nell’area di Goma, o accampata - senza ricevere alcun aiuto - in ricoveri di fortuna al nord, sulle montagne di Lubero e di Butembo, dove i campi non sono neanche stati allestiti. Soldati corrotti e mal pagati non perdono occasione per rubare i poveri beni delle famiglie in fuga. La gente, in particolare le donne con i loro bambini, appaiono inermi e rassegnate di fronte alla violenza, agli stupri, alla fame e alle malattie, conseguenze in apparenza inevitabili di questo stato di cose. La violenza ha segnato pesantemente la storia recente dei Grandi Laghi: il genocidio del Ruanda e le sue conseguenze di lunga durata, i conflitti e l’instabilità del Burundi, la guerra civile scatenata dall’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) di Joseph Kony nel nord dell’Uganda, che ora si è trasferita nell’Ituri dove Kony ha ripreso a uccidere e razziare, spingendo decine di migliaia di persone a fuggire nel vicino Sudan. Ma è necessario risalire più indietro nel tempo per tentare di comprendere la logica che sottende a questo stato di cose. Per quel che riguarda in particolare la Rdc, lo storico congolese Muzong Kodi ( Corruption and Governance in the D rc, Iss, 2008) ha di recente indicato nella corruzione strutturale della vita politica e economica l’origine del collasso di uno stato che non riesce a controllare il suo immenso territorio, lasciandolo troppo spesso in preda ai conflitti, ai signori della guerra e alle imprese straniere. Conseguenze della corruzione sono infatti l’estrema debolezza dello stato, la mancanza di sicurezza, l’assenza di infrastrutture di ogni tipo, una situazione che impedisce a tutti gli effetti lo sviluppo economico e sociale Tuttavia bisogna osservare che il sistematico drenaggio di risorse perpetuato dalle élite a danno delle popolazioni non è certo un’invenzione dello stato post-coloniale. Nei suoi confini attuali, il Congo nasce dalle ceneri di uno stato che la Conferenza di Berlino (1884-85) aveva istituito come possedimento privato di Leopoldo del Belgio (il quale entrò così in possesso di un territorio ottanta volte più grande del suo piccolo regno), posto sotto l’amministrazione di un’associazione internazionale, di cui fece parte tra gli altri l’Italia. Anche per via del suo particolare statuto, lo Stato Indipendente del Congo fu teatro di uno sfruttamento estremo delle risorse naturali e umane, poi denunciato da un’inchiesta i cui risultati portarono alla creazione, nel 1908, della colonia belga. L’avorio, il caucciù, i minerali preziosi, avevano scatenato l’avidità degli Europei, inducendoli a trasformare le compagnie commerciali, che un po’ ovunque avevano costituito l’avanguardia del colonialismo, in progetti di conquista e di amministrazione del territorio e dei suoi occupanti: in essi il lavoro forzato, le deportazioni di massa, le violenze fisiche di ogni genere sembrarono reintrodurre surrettiziamente una forma ufficiosa di schiavitù, nonostante la sua abolizione ufficiale una cinquantina d’anni prima. Una tensione funzionale La catastrofe della seconda guerra mondiale, cui gli africani parteciparono combattendo per una causa che faticavano a comprendere, innescò un ineluttabile processo di cambiamento che portò, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, all’indipendenza delle colonie. L’Europa smobilitò rapidamente, lasciando la pesante eredità di stati il cui tessuto sociale, politico e culturale era stato irrimediabilmente sconvolto. Gli effetti di una transizione troppo rapida e mal amministrata furono quasi ovunque devastanti: i massacri in Ruanda e in Burundi portarono nell’arco di quarant’anni al genocidio, l’Uganda scivolò rapidamente verso le dittature di Amin e di Obote, mentre in Congo il modello predatorio di Leopoldo venne in qualche modo riprodotto da Mobutu Sese Seko, che dal 1965 al 1997 drenò per se stesso le immense risorse del paese, divenendo uno degli uomini più ricchi del pianeta. Solo nel 2006 il Congo si è dato un governo eletto democraticamente, e tuttavia il giovane presidente Joseph Kabila stenta a uscire dal vecchio, consolidato modello: l’avorio e il caucciù sono stati sostituiti da nuovi prodotti come il coltan (un minerale indispensabile per la produzione di circuiti stampati, di cui l’ottanta per cento dei giacimenti si trova appunto nel Kivu), l’uranio, l’oro, i diamanti, il legname. La presenza nella zona di varie milizie unita alla corruzione dei rappresentanti dell’esercito regolare impediscono di fatto l’esercizio di un controllo statale, favorendo il commercio illegale che, attraverso i paesi confinanti, porta i minerali verso le loro destinazioni finali, nel nord del mondo, arricchendo i vari intermediari senza che la popolazione ne tragga alcun profitto. La tensione militare appare dunque funzionale al mantenimento del sistema. Come leggere, in questa prospettiva, l’ingresso ufficiale del Ruanda sulla scena dei contendenti e l’arresto di Nkunda? L’attuale presenza in Congo dell’esercito ruandese indica una strategia militare e non diplomatica. Ma disarmare le forze ribelli che combattono nella boscaglia potrebbe diventare un affare lungo, sanguinoso e ulteriormente destabilizzante, utile a perpetuare quel caos in cui prosperano i commerci illeciti. Non dobbiamo però incorrere nell’errore di pensare che prima dell’arrivo degli Europei la regione vivesse in una sorta di pacifica età dell’oro priva di conflitti e contraddizioni. Jan Vansina ha ricostruito la storia del regno Nyiginya, antecedente dell’attuale Ruanda ( Le Rwand a Ancien : Le Royaume Nyiginya , Paris, Karthala, 2001), uno stato che - a partire dal XVII secolo - si diede una struttura gerarchica, fondata sulla classificazione occupazionale di pastori tutsi e agricoltori hutu, sull’istituzione di un sistema di clientela, su una corte dedita a complessi rituali intesi a conferire alla regalità un potere divino e infine sull’istituzione di quello che può essere considerato il più antico esercito della regione. La cultura della convivenza L’organizzazione militare dell’antico Ruanda prevedeva battaglioni cui accedevano in via ereditaria esclusivamente i pastori tutsi. Tale organizzazione proiettò il regno verso la conquista di territori vicini. Saranno gli europei, al loro arrivo nella regione a fine Ottocento, a conferire alla classificazione hutu-tutsi una valenza razziale, giustificando geneticamente la presunta superiorità politica e culturale dei tutsi e gettando i fondamenti di un’ideologia che portò infine alla tragedia del 1994. Resta però inconfutabile il fatto che il Ruanda precoloniale si fondasse su un sistema che, escludendo interi gruppi dalla responsabilità civile, portava in sé i germi del conflitto e dell’anomia. Tuttavia, a tali forze disgreganti si opponevano, qui come nelle altre società dell’area, meccanismi strutturali di bilanciamento del potere che, uniti a una cultura della diplomazia e della risoluzione pacifica dei conflitti, furono in grado di garantire lunghi periodi di pace e stabilità. Le società precoloniali coltivavano tradizioni mirate a sviluppare la convivenza pacifica tra gruppi sociali ed etnici diversi. In Burundi figure di anziani saggi, i Bashingantahe , erano istituzionalmente preposti alla ricomposizione dei conflitti, attraverso tecniche di mediazione fondate sulla parola e sulla concertazione. Inoltre, in tutta la regione dei Laghi veniva praticata la medesima religione tradizionale, il Kubandwa, sorta intorno al XVII secolo in concomitanza con l’emergere dei regni. I medium incaricati dei culti attraversavano confini etnici e linguistici, diffondendo credenze condivise, fondate sui valori dell’apertura all’altro e della tolleranza per il diverso. A tali pratiche religiose e terapeutiche si sta oggi tornando con crescente attenzione: a cinquant’anni dall’indipendenza, è in atto una diffusa riscoperta delle tradizioni, una ricerca di identità che si rivolge al passato ma allo stesso tempo si proietta verso il futuro. In questo spirito nel 1993 l’Uganda ha re-instaurato in una forma culturale alcuni dei suoi regni tradizionali. Accanto ai capi e ai sovrani sono così riapparsi anche i medium e i guaritori, che erano stati pesantemente sanzionati dai colonizzatori e dai missionari. Riunitisi in associazioni, questi specialisti rituali stanno avviando un dialogo con il sistema sanitario e con la società più in generale. I luoghi sacri della tradizione tornano a essere meta di pellegrinaggi e di pratiche che in parte si rinnovano, inglobando anche influssi islamici e cristiani. Verso un rinascimento africano Per quanto spuria e creativa, la riscoperta delle tradizioni, la condivisione di un mondo di valori che garantiva nel passato il dialogo tra gruppi, risponde oggi a un bisogno profondo di riconoscimento della propria storia, dei propri saperi e delle proprie divinità, da parte di chi troppo a lungo ne è stato privato con la violenza. È ciò che l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki ha definito il sogno di una African Renaissance, di un «rinascimento africano», che dovrebbe segnare la fine del «postcolonialismo» (Achille Mbembe, Postcolonialismo , Meltemi, 2005). Come tutti i rinascimenti, anche questo comporta inevitabilmente una parziale re-invenzione del passato, ma allo stesso tempo si proietta verso il futuro con la speranza del cambiamento. ANTROPOLOGIA Un universo morale condiviso nei miti e nei riti del Kubandwa La consapevolezza che la regione dei Laghi avesse prodotto un’unica grande civilizzazione emerse con chiarezza nell’opera dell’antropologo belga Luc De Heusch, «Le Rwanda et la civilisation interlacustre» (Éditions de l’Université Libre de Bruxelles, 1966), alla luce dell’analisi di un vasto corpus mitologico che risultò ampiamente condiviso a livello regionale, nonostante le aporie e le contraddizioni tipiche delle tradizioni orali. A tale mitologia è connessa la religione tradizionale del Kubandwa, comune a tutte le popolazioni dell’area, praticata da medium e fedeli di origine diversa in luoghi sacri che risultano spesso posti sui confini dei regni (Cecilia Pennacini, «Kubandwa. La possessione spiritica nell’Africa dei Grandi Laghi», Il Segnalibro, 1998). Un universo morale condiviso, fondato sui valori dell’ospitalità, dell’apertura all’Altro e della diversità si consolidò nelle pratiche di questa religione «universalistica», cui gli stessi capi erano sottomessi.de Il Manifesto |
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