Gli schiavi DI DUBAI
 







di Michaela De Marco




Vengono da India, Pakistan, Bangladesh, Nepal, Filippine. Si indebitano per fare il viaggio, non riescono mai a saldarlo e restano intrappolati nel sistema del «kafala», il padronato che requisisce i passaporti e fornisce baracche e lavori malpagati. Sono i lavoratori degli Emirati, l’altra faccia dei grattacieli che impreziosiscono Dubai. Sono l’80% della popolazione, ma quasi non esistono
Cosa ha permesso agli Emirati arabi uniti di diventare l’economia più dinamica del Golfo? La fortuna si fonda su due elementi: il petrolio e una manodopera a costo irrisorio, per lo più di provenienza asiatica. L’industria del petrolio, dopo i suoi esordi negli anni ’60, ha chiamato schiere di lavoratori stranieri; un settore commerciale in espansione, e poi l’industria del turismo, hanno alimentato un boom dell’edilizia che a sua volta ha chiesto braccia straniere.
Risultato: oggi i lavoratori stranieri negli Emirati sono oltre tre quarti dei 4,4 milioni
di abitanti del paese. Ma sono una popolazione discriminata, sottoposta a condizioni di vita durissime. Paghe misere (un massimo di 300 dollari) che a volte non vengono neanche saldate, condizioni di lavoro con orari disumani (12/18 ore al giorno) e la totale assenza delle minime condizioni di sicurezza. I datori di lavoro requisiscono i passaporti ai lavoratori e li forzano a firmare contratti scritti in arabo che li vincolano a percepire salari più bassi rispetto a quelli promessi.
Quasi tutti i lavoratori che raggiungono gli Emirati, da paesi come l’India, il Pakistan, il Bangladesh, il Nepal, lo Sri Lanka o le Filippine, contraggono debiti per pagarsi il viaggio: saldarli diventa praticamente impossibile, sono costretti dunque a restare. In trappola, per molti l’unica via d’uscita è la morte. Il numero di suicidi tra gli immigrati negli Emirati è impressionante.
Quando finiscono le loro ore lavorative tornano nei quartieri dormitorio costruiti in pieno deserto, il più
lontano possibile dalle grandi città, perché «non turbino la quiete pubblica». Gli alloggi sono situati in campi di lavoro divisi tra donne e uomini, vincolati ad un solo datore di lavoro: il cosiddetto sistema kafala, che sottopone i lavoratori alle dipendenze del «padrone». I dormitori sono fatiscenti e insufficienti: venti persone in un solo (piccolo) appartamento. Niente acqua, niente elettricità e nessuna assistenza medica.
Sindacati, scioperi e picchetti sono vietati, e le proteste si concludono in pestaggi, espulsioni collettive o arresti. Nel 2006 vennero pestati a sangue migliaia di indiani, birmani, cingalesi e thailandesi che avevano deciso di scioperare. Ma non si sono rassegnati, e hanno istituito una sorta di società di mutuo soccorso con un suo sito internet, che raccoglie le loro lamentele e le loro richieste.
E tutto questo per il lusso degli oligarchi, per i loro eccessi, per i loro imponenti «elefanti bianchi», ossia i mastodontici edifici che fanno di Dubai
un’avanguardia dell’edilizia contemporanea.
Gli immigrati negli Emirati rappresentano circa l’80% della popolazione e il 95% della forza lavoro. Un tale squilibrio demografico spaventa il potere, il quale risponde attuando politiche di esclusione e discriminazione. Si mormora che quest’invasione possa provocare un crollo di regime. Il governo corre ai ripari, e fa in modo di controllare il numero degli espatriati e di limitare la proprietà agli stranieri, ha anche esortato gli abitanti degli Emirati a fare più figli. Il governo si è inoltre mobilitato per garantire agli autoctoni un’istruzione adeguata per permetter loro di «mantenere le posizioni dirigenziali del paese». Il 2008 è stato infine dichiarato l’«anno dell’identità nazionale». Lo scontento degli immigrati rende tutto più difficile.
Sarah Leah Whitson, direttore per il Medio Oriente di Human Rights Watch, il 7 novembre scorso ha presentato alla stampa il suo rapporto. Il giorno stesso, il primo ministro e
vice-presidente degli Emirati, ordinò al ministro del Lavoro di dare immediata attuazione a un pacchetto di riforme tese a migliorare le condizioni di tutela dei lavoratori migranti. Tutto è rimasto però sulla carta e le tensioni tra i lavoratori non si sono placate.
Il governo ci prova in tutti i modi, a contenere lo scontento dei suoi servi. Nel 2006 ha anche censurato Syriana, il film di Stephen Gaghan con George Clooney, per le scene in cui compaiono i lavoratori schiavizzati. Il rischio era «alto», poiché qualsiasi operaio straniero negli Emirati si sarebbe potuto immedesimare nella storia di Wassim, uno dei personaggi del film, e magari sentirsi spinto ad una qualche forma di ribellione.
Di recente la crisi finanziaria globale ha investito anche Dubai, e gli operai temono il peggio. Non è ancora chiaro quanto la crisi sia strutturale o quanto invece il riflesso di quella dell’Occidente. L’ammontare del debito pubblico non è ancora chiaro, si parla di cinquanta o
addirittura settanta miliardi di dollari. Il governo parla di dieci miliardi e respinge gli allarmismi. In ogni caso, molti mega-progetti sono stati rimandati e oltre quattromila persone sono già rimaste senza lavoro. Si teme che le già precarie condizioni di lavoro dei migranti possano addirittura peggiorare. de Il Manifesto