J.J. ANNAUD UN ARTIGIANO DI TALENTO.
 







di Antonio NAPOLITANO




Nato nel 1943 a Juvisy-sur-Orge Jean Jacques Annaud si è diplomato a Parigi allo IDHEC (Istituto di alti studi cinematografici).
È là che ha approfondito con studi severi la teoria ma la pratica l’ha fatta in concreto con i numerosi cortometraggi girati per la TV (in genere, di tipo "Carosello").
Nel 1976 ha ottenuto finalmente di girare il suo primo vero film "La victoire en chantant" che, dopo il successo in America (Oscar 1978 per la migliore opera straniera) verrà ribattezzato "Bianco e nero, a colori".
Si tratta di una  esilarante farsa sulla prima guerra mondiale nell’Africa equatoriale francese dove un distaccamento di militari "bons vivants" si prepara, in modo goffo, a fronteggiare il temuto assalto da parte dei tedeschi, allora ancora in possesso di qualche colonia nel continente nero.
Il gruppo francofono è ritratto con graffiante ironia, e, in particolare, quei due anomali missionari che si incaricano di istruire i sudditi di colore all’uso delle armi, tra l’altro arrugginite.
Vi è una decisa satira del bellicismo più balordo, specie quando si scopre che tale trafelata mobilitazione è andata avanti dopo che la guerra si era conclusa da un pezzo .
L’unico carattere ben scolpito (e con gusto intelligente) è quello di J.Dufilho, attore colto e raffinato, ma gli altri si rivelano spesso semplici anche se divertenti macchiette.
Su un diverso (ma ugualmente strabiliante ambiente) si focalizzerà l’obiettivo di Annaud ne "Il sostituto" ("Coup de tête") (1979) con Patrick De Waere e Corinne Marchand.
Il calciatore che è al centro delle vicende è un ciclotimico scattoso (e "coureur de jupons"), che, però, viene ingiustamente accusato di stupro per poi essere temporaneamente rilasciato dato il suo ruolo di "cannoniere"  della locale squadra, da lui, appunto, condotta alla vittoria.
È carnevalesco il trionfo a lui decretato e di cui approfitterà per vendicarsi dei calunniatori, a suon di schiaffoni.
P.De Waere risulta adattissimo alla parte assegnatagli, dato che gli vengono naturali mattane e raptus d’ogni specie.
La Marchand (già splendida "Cléo" per la Varda) è messa piuttosto in ombra e finisce sovente col tacere sia pure in maniera eloquente.
Il tutto è dominato dal tono di burla al mondo dei tifosi e degli ultrà, raffigurati quali monomaniaci senza altro ideale o  passione che per il pallone e l’agognato gol.
La maturità espressiva del regista  si espliciterà ancor meglio ne "La guerra del fuoco" (1989), che ci riporta all’età della pietra e a quei nostri remoti progenitori.
Nel film, risulta preziosa la consulenza dell’etologoD.Morris riguardo alla gestualità di quegli ominidi dagli inarticolati e reboanti fonemi.
Un’altra svolta tematica sarà costituita nel 1986  dа "Il nome della rosa" il longseller di Umberto Eco (con S.Connery e F.Murray Abrahams che recitano con consumata bravura).
La trama appare assai
scarnita ma efficace nel ritmo apposto all’indagine del "francescano" Guglielmo da Baskerville (!) che deve districarsi tra dissimulazioni e diatribe parateologiche.
Certamente, è messo da parte tutto l’armamentario di erudizione medievistica del semiologo alessandrino ma ciò non svantaggia l’aspetto foscamente colorato e iperromanzesco del thriller che si finge narrato da "Adso" da Melk (Watson?).
Due anni dopo, Annaud gira "L’orso", cioè la storia di Youk, rimasto orfano di mamma- orsa, uccisa da un precipitare di massi dall’alto della montagna.
Il piccolo si farà adottare, bon gré - mal gré, da un grizzly che da tempo viene braccato da una coppia di brutali cacciatori.
Il racconto visivo non perde un sol colpo e l’abilità sorprendente del regista è quella di catturare ogni espressione di gaudio o di angoscia, esperita da quella creatura viva e senziente. Così, egli realizza una nobile saga ecologica scevra del tutto di quelle prediche e di quei vaniloqui di cui si riempiono la bocca certi ambientalisti che, poi, vanno consumando benzina a tutto gas per ciarlieri convegni.
"L’amante" del 1991 sarà, invece, tratto da uno scritto autobiografico di M.Duras che ricorda (con la propria voce fuori campo) la sua giovinezza trascorsa nell’Indocina francese.
Da brillante liceale, per sfuggire ad una madre lagnosa e ad un fratello manesco ella accetterà le avances del giovane e ricco cinese incontrato sul traghetto per Saigon sul quale ha imbarcato la sua Rolls-Royce.
Con insolito montrisme, Annaud indugia parecchio suglia exploits sensuali della coppia, ma è evidente che solo il cinese sarà coinvolto in una vera passione e, infine, deluso si darà all’oppio, come già ha fatto suo padre.
La parte della gelida francesina è giocata passabilmente da una semisconosciuta attrice destinata a diventare una delle tante meteore dello schermo.
Come personaggio della Duras, solo al ritorno in Francia, dopo lunghi anni,  ella prenderà coscienza del suo agire da "indifferente" e riverserà il rammarico nelle pagine che va scrivendo.
Nel 1995, da artigiano versatile, Annaud girerà, in forma documentaria e veramente ineccepibile, "Le ali del coraggio" sull’epica traversata delle Ande del pilota francese Guillaumet.
In "Sette anni in Tibet" (1997) darà poi conto della vita dell’alpinista tedesco H.Harre che, evaso dalla prigione militare in India nel 1943, giungerà a Lhasa dove intreccerà amichevoli rapporti con l’adolescente Dalai Lama. Seguiranno  giorni di interessanti scoperte da parte dei due giovani che hanno a loro disposizione atlanti, proiettori e vari altri strumenti aggiornati.
Il passaggio del protagonista dalla fede in Hitler a quella in Buddha è, in verità, esposto solo esteriormente e senza i graduali snodi necessari ad una conversione così profonda.
Più meditate ed intense sono le riprese dei luoghi di quella misteriosa regione e degli antichi riti esercitati dai suoi abitanti.
Ben più
riuscito sarà, nel 2000, "Il nemico alle porte". È un epica pellicola sulla battaglia di Stalingrado, in cui i due protagonisti diventano diretti avversari pur senza conoscersi affatto, dato che sono entrambi  tiratori scelti dei rispettivi eserciti.
Viene narrato, così, con virile ammirazione, l’enorme sacrificio di vite dei russi decisi a difendere il suolo patrio, quali figli generosi e tra loro fratelli (come perfino Stalin comincerà a chiamare i "tovarishi" che combattono eroicamente al fronte contro l’invasore).
Le ampie inquadrature su sfondo  rosso-fuoco, le bluastre sequenze sul grande fiume che inghiotte i caduti danno conto esatto di quello scontro che decise le sorti del secondo conflitto mondiale e che resta un periodo storico indimenticabile.
Nei due cecchini nemici Annaud ha ben simbolizzato l’unanimismo slavo dedito a scommesse estreme, allorché ritenute giuste, dato l’idealismo romantico non spento in quelle vaste regioni.
E il vasto successo internazionale sarà più che meritato, anzi appariranno sofisticate certe riserve da parte di chi poi corre ad magnificare delle standard pellicole western e prende per acquile  certi pappagalli nostrani e certi imitatori pedissequi.
Il mestiere di Annaud va sfiorando ormai il suo limite superiore e, con giusto tempismo decide di tornare al regno animale verso cui non lesina affetto e partecipazione.
"I due fratelli" (2004) sono, appunto, i cuccioli orfani di una mamma tigre uccisa da trafficanti di reperti antichi nella zona del Mekong, agli inizi del ’900.
Essi saranno sbalestrati a più riprese tra i vari padroni (brutali circensi ma anche  eccentrici borghesi).
Il regista appunta i suoi strali soprattutto sui con colonialisti francesi dell’epoca e sui loro pretenziosi e ridicoli quisling.
E finisce col mostrare come più genuini e sensibili i due tigrotti, dalla splendida pelliccia adorna di affascinanti geometrie e di vividi colori (che tanto incantarono William Blake).
Anche l’ambiente esotico  non è sottoposto a quei giochi calligrafici di maniera. E l’allusivo happy end è motivato, forse, dalla speranza che Kumeal e Shanga troveranno un luogo al riparo della gratuita crudeltà degli uomini.
L’ultima realizzazione di Annaud è stata "Sa Majesté Minor" (2008) fantasiosa ricostruzione della civiltà pre-omerica: la storia di un bambino allevato da una scrofa e delle sue  successive metаmorfosi.
Gustosissima risulta la rivisitazione degli ambienti naturali cioè la dimora dei fauni e delle ninfe in quel tempo bucolico.
Insomma, un divertissement sulla mitologia classica con venature di effervescente humour, anche se con qualche rischio di kitsch.
I migliori prodotti dell’artigiano Annaud restano, comunque, i film dedicati agli animali data l’immediatezza della comunicativa lì raggiunta. Perchè egli riesce, in quei casi, a cogliere sul vivo il loro evolversi vitale tra lotte, fughe ed amori.
E
mettendo spesso in contrasto la loro elegante agilità con quei goffi inseguimenti da parte delle "scimmie nude” assai più aggressive.
Anche se le gli habitat sono,  forse, ottenuti con "abili mosaici" di geografia come ha notato qualche recensore pignolo, a noi pare fuori luogo questa osservazione nel contesto di un discorso estetico che si basa sull’immaginario.
Ciò che prevale è che, non poche volte, l’appassionato e talentuoso  mestiere si sublima in brani di verace poesia. Cosa che può capitare soltanto a chi lavori con serio impegno e creda alle proprie idee e ai propri più schietti sentimenti.