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G.AMELIO: DA CINEFILO A CINEASTA DI SERIE A. |
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di Antonio NAPOLITANO
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“Il ladro di bambini” di Gianni Amelio è stato tra i film prescelti per celebrare quest’anno a Torino, il 139° anniversario dell’Unità di Italia e rileggere gran parte della Storia del nostro Paese. Definito anni fa “cinefilo enciclopedico” (M.Sesti, 1994), Amelio, nato a Catanzaro nel 1944, ha saputo con metodo e passione scalare vari gradi in salita da animatore di cineclub ad autore di spot fino a regista di consistente spessore. Trasferitosi a Roma nel 1965 per frequentarvi i corsi del Centro sperimentale, dirige – nel 1970- il suo primo lungometraggio “La fine del gioco”,un reportage sulla devianza giovanile, in buona parte influenzata dagli spettacoli violenti della TV. Del resto, già nella lontana intervista concessa a Sesti, egli dichiarava di non essere d’accordo con quanti proclamano l’adolescenza “un Eden oggetto di nostalgie”. Nel 1973, girerà, per la RAI-TV “La città del sole”, dal testo utopico di T.Campanella. In essa, la vita dei “Solari” appare regolata dalle virtù cardinali nonché dal lavoro agricolo e dalla pastorizia senza escludere l’addestramento alle armi, in caso di difesa del suolo patrio. Ciononostante, il dotto monaco calabrese rimarrà vittima di confratelli corrotti e pronti alla calunnia e passerà molti anni in dura prigionia. Non mancano, nel telefilm, zone di oscurità narrativa data la difficoltà di esporre tesi filosofiche col lessico referenziale cioè poco astrattivo delle immagini. Nel 1978 “La morte al lavoro” (da un racconto di H.Ewers), è una specie di angosciosa vicenda alla E.A.Poe, incentrata proprio sul mondo del cinema con allusioni alla possibile perdita di identità da parte degli attori. Ben costruita, l’opera otterrà il premio FIPRESCI al Festival di Locarno. Il lavoro di Amelio continuerà con “Il piccolo Archimede” (1980), il cui protagonista è un contadinello toscano dall’incredibile talento matematico. L’introspezione dei vari personaggi è di estrema finezza così come certi paesaggi vengono ritratti con mano rinascimentale. La presenza di Laura Betti è certamente un valore aggiunto di non poca entità. Nel 1982, nella temperie di sconcerto ( e di rimorsi) sopravvenuta all’assassinio di Moro e della sua scorta, il regista dà con “Colpire al cuore” la conferma della sua piena capacità. In più, ha a disposizione interpreti quali Trintignant e la Morante. Lo slogan degli anni di piombo appare rovesciato perché qui non sarà lo Stato a venir colpito dalla cieca furia dei demoni nostrani, ma gli individui e le famiglie. Ed è il figlio ad esser più maturo del padre, un professore che si è lasciato coinvolgere dai giovani brigatisti, suoi alunni . L’atmosfera è resa con tratti laconici ed incisivi ed è analizzata con occhio vigile dal regista: sembra quasi pronosticare il disincanto che avvolgerà l’Italia nei tempi che verranno. Il film sarà premiato con due “Nastri d’argento” e un “David di Donatello”, pur suscitando non poche polemiche, in genere pretestuose. Nell’’83, “I velieri”, da un racconto di A.Banti tratta dei ricordi di un adolescente relativi al sequestro da lui subito. Non mancano concessioni al calligrafismo e perplessità, dato che gli attori (spagnoli) sembrano talvolta a disagio nelle loro difficili parti. Ben sei anni passeranno prima che il cineasta calabrese torni alla macchina da presa con “I ragazzi di Via Panisperna” (1989), con Virna Lisi, E.Fantastachini e M.Adorf. I fatti riguardanti Ettore Majorana allievo di E.Fermi sono condotti con misura , anche se è un po’ enfatizzata la delusione del più giovane per la freddezza dell’anziano collega. Un neo lo ha rilevato T.Kezich in quel flash-back sul trauma infantile di cui pare resa responsabile la madre di Ettore: illazione da potersi trascurare. Il 1991 è l’anno di “Porte aperte” (da L.Sciascia), una storia che descrive un processo svoltosi a Palermo, ai tempi del fascismo, contro un uxoricida che, per soprammercato, aveva ammazzato anche due gerarchi del regime. Il racconto filmico ha un andamento privo di intoppi e risulta fortemente persuasivo, merito anche dell’interpretazione da parte di G:M.Volonté. Giustamente commenterà P.Mereghetti: …”Amelio rimane lontano da ogni stereotipo sulla Sicilia e sul fascismo”. Nel 1992, il regista realizza “Il ladro di bambini” che rappresenta, oltretutto, un viaggio attraverso l’Italia deteriorata dall’indifferenza etica e politica.. Enrico Lo Verso è il giovane carabiniere incaricato di consegnare ad un orfanotrofio due derelitti bambini, Rosetta e Luciano. Qui viene felicemente scansata ogni facile emozione, anche se finisce col trasparire l’empatia del militare per i due ragazzini come un pallido germoglio tra tanti rovi. Il film è premiato col “Palmarès” a Cannes e con due Nastri d’argento in Italia, Nel 1994, Amelio gira “Lamerica” sull’illusione di numerosi albanesi di raggiungere l’Eldorado italiano, mentre due balordi nostrani pensano ad imbrogliare il governo di Roma, manovrando quella gente in modo impudente. Il racconto resta talvolta in bilico tra l’affresco sociale e il diario intimistico (il delirio del vecchio arteriosclerotico). Invece, le parti documentarie che inquadrano lo sfascio di una piccola nazione comunista, sono illuminate da squarci di rara efficacia. Nel 1998, si avrà “Così ridevano” sul rapporto tra due fratelli siciliani: il maggiore che sollecita l’altro a studiare e prendere “un pezzo di carta” per cambiar vita. I caratteri passionali si rivelano anche troppo accesi ma i riverberi secondari sono ben calibrati. Il Lo Verso rende a puntino il temperamento del meridionale che soffre segretamente del trapianto a Torino. Il gioco dei densi colori che ombreggiano molte scene del dramma è manovrato con mano sagace dal regista e incide sul film la sua cifra più significativa. Il film otterrà il Leone d’oro a Venezia e ben due “Grolle” a St.Vincent. Nel 2000, Amelio affronta con un documentario il dramma del terremoto in Irpinia e delle sue ricadute sociali, ne “La terra è fatta così”; presenta poi a Locarno, nello stesso anno “L’onore delle armi” sulla leva militare, contribuendo, forse, alla sua graduale cancellazione. Anche in questi due casi egli conferma il suo rigoroso approccio ai diversi stili cinematografici. Infatti, nel 2004 “Le chiavi di casa “, su ben diverso tema, sarà una descrizione minuziosa e tenera del recupero di un affetto, quello di un giovane padre per il figlio disabile non visto da anni. La vicenda è ispirata al bel testo autobiografico di G.Pontiggia e si avvale della esperta sceneggiatura di Rulli e Petraglia. Un’altra notevole virata la darà con “La stella che non c’è” (2006), (da E.Rea), in cui un operaio (S.Castellito) si reca in Cina per aggiustare un altoforno venduto a quel paese. Sarà un viaggio di purificazione dato che Vincenzo capirà quanto dolore possa devastare anche gli animi di gente così lontana e simbolico appare l’incontro con la ragazza madre separata dalla sua prole. Il regista riesce ad affrescare il “pianeta Cina” senza inutile folklore e senza pregiudizi di sorta e a vedere le emozioni quali riflessi di precise circostanze storiche e sociali. Nè rinuncia ad affrontare, come sempre, le più diverse realtà con la laboriosa umiltà di chi sa che ogni apprendimento è una graduale costruzione di valori e di abilità creative. Un esempio da tener presente da parte di quella pletora di debuttanti cineasti italiani (160 negli ultimi 3 anni) che, in gran parte, si slanciano con baldanzose improvvisazioni, dribblando i più modesti ma indispensabili tirocini.
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