-Proteste anti-G20 manca la politica-
 







di Tonino Bucci




Sarà anche rituale, sarà anche l’ennesima speranza di vedere muoversi qualcosa nei conflitti sociali, ma è a ogni modo d’obbligo chiedersi che tipo di movimento sia quello che s’è visto a Londra contro il G20 - e che si è replicato ieri a Strasburgo contro la Nato. Se ne sono dette già tante. Le televisioni e i giornali l’hanno descritto come una protesta nata dall’impatto della crisi economica mondiale. Al suo interno non si vedono i classici soggetti organizzati del movimento operaio. La domanda allora è: ma un movimento che agisce fuori dalla sfera tradizionale della rappresentanza - per intendersi, senza legami con partiti e sindacati - è automaticamente un movimento fuori della politica o, più semplicemente, fa politica in altro modo? Insomma, sono ingenerose le critiche di chi rinfaccia a quel movimento di non sapere andare oltre la rabbia, la disperazione, il gesto simbolico. Lo chiediamo a Mario Tronti.
Che tipo di movimento è quello che
s’è visto a Londra contro il G20?
Forse è utile fare un raffronto fra quel movimento e la piazza di oggi della Cgil. Qui abbiamo qualcosa di preciso. Abbiamo un mondo del lavoro abbastanza esteso in orizzontale che si ritrova in una mobilitazione organizzata da un grande sindacato. Stiamo nella tradizione, come dire? Anche se ci sono molte novità, a partire dalla presenza di migranti e di un pubblico giovanile. Il mondo del lavoro c’è ed è protagonista o, perlomeno, ha la volontà di esserlo ancora nella storia italiana. E poi c’è l’impatto della crisi. Sull’onda delle misure più o meno efficaci che mettono in campo gli Stati europei, gli Usa e altri paesi del mondo nel G20 risorge un conflitto. E questo mi pare consolante. Negli altri paesi le manifestazioni che abbiamo visto in questi giorni sono molto diverse da questa di oggi. Qui c’è ancora una forza organizzata che entra in campo, lì sono forze di movimento. Sarà che i paesi anglosassoni sono più esposti alla crisi, fatto sta
che lì il movimento è di altro tipo. Non mi sembra neppure il movimento no-global. E’ diverso.
Il movimento noglobal aveva le sue strutture, una rete di relazioni che ne assicurava in qualche modo una continuità al di là del calendario degli eventi della protesta. A Londra è sceso un movimento molto interessato alla potenza delle immagini, all’azione, al gesto simbolico. C’è persino il ritorno di suggestioni luddiste. Qualcuno ne approfitta per parlare di terrorismo e criminalizzare la protesta. Non vale la pena parlarne. Il problema è un altro. Ci si può accontentare di spaccare la vetrina di una banca o c’è invece un problema di direzione politica?
C’è qualche tratto anarchico. Il problema della forma politica da dare alla protesta sociale è un problema generale che riguarda anche noi - ma di questo possiamo accennare più avanti. Ma qui esplode in modo più clamoroso. Non solo non pensano alla forma politica, ma la rifiutano e la rifiuterebbero anche nel caso in cui dovesse
emergere. E’ un movimento d’altro tipo per il quale, certo, conta molto il gesto simbolico. Ma ho l’impressione che il gesto simbolico sia a sua volta suggerito da una lettura della crisi che non è esatta, almeno secondo il mio parere. Io credo che oggi bisognerebbe fare un minimo di chiarimento analitico della crisi. Questa idea che tutta la colpa è della finanziarizzazione, di una faccia del capitale, non corrisponde a verità. Le banche diventano l’avversario da criminalizzare, però così si passano sotto silenzio altre responsabilità che mi paiono altrettanto forti se non maggiori. La fase neoliberista non l’hanno voluta i finanzieri, semmai l’hanno utilizzata per i loro interessi. E’ stata una scelta di sistema fatta dal capitalismo contemporaneo nel suo complesso. Anche il capitalismo reale, a un certo punto, ha fatto la scelta della finanza. Non è che la colpa sia tutta dei banchieri come vogliono far credere questi imprenditori vergini che recitano la parte delle vittime. I buoni contro i cattivi, quelli dalla parte dei lavoratori e quelli che speculano: questa è una trappola nella quale non dobbiamo cadere. Per questo è importante l’analisi della crisi attuale.
E’ una crisi di sistema, insomma. Salari bassi, da un lato, e finanziarizzazione dell’economia, dall’altro. Se non c’è un’analisi lucida si rischia di sbagliare obiettivi nella lotta politica. O no?
La protesta s’indirizza verso falsi obiettivi. Il lavoro proprio perché è stato penalizzato nella fase precedente della globalizzazione neoliberista, è stato utilizzato solo per renderlo più flessibile e precario. Non gli è stato dato quello che gli spettava. La crisi è venuta da questo, dal fatto che i redditi da lavoro non potevano sostenere la crescita dei consumi. E’ stato troppo penalizzato. Lo squilibrio tra reddito da lavoro e reddito da capitale è stato eccessivo persino per il capitale. Hanno esagerato nel penalizzare il reddito da lavoro. Non a caso questa appare anche come una crisi di
sovrapproduzione e di basso consumo. La contraddizione sociale ha giocato nell’apertura della crisi. Perciò è importante rimettere in campo la forza del lavoro, farla vedere, mostrare che non è smobilitato.
E’ un’operazione difficile su due fronti. Primo, su quello culturale. Per decenni ci hanno detto che il lavoro non era più centrale, che le identità individuali e collettive si strutturavano piuttosto sugli stili di consumo. ma c’è anche la questione politica. Proprio quando la crisi economica del capitale è al punto più basso, la nostra capacità politica di organizzare il lavoro è al punto più basso. Da dove cominciamo?
Oggi a vedere quel mare di persone singole che facevano massa - un tempo le chiamavamo masse lavoratrici - c’era motivo di soddisfazione, ma anche un tratto di sconforto. Questa gente meriterebbe molto più di quello che le diamo come rappresentanza, come cultura, come organizzazione. C’è uno squilibrio. Se uno dicesse queste masse lavoratrici non ci sono più,
allora sì, uno comincerebbe a fare davvero un altro discorso, quello che fa - per intenderci - la sinistra moderata. Ma qui il problema è che le masse lavoratrici ci sono e a esse non corrisponde non solo un’immagine, ma neppure una direzione politica. Dobbiamo ringraziare la Cgil che rimane l’unica forza in grado ancora di organizzare un’uscita in campo di queto genere, sapendo però che c’è il limite della rappresentanza sindacale. Oltre un certo livello non può andare, anche volendolo. Anche quando si fa soggetto politico, a un certo punto si deve fare perché ha solo una funzione di difesa dei lavoratori. Invece qui ci vuole un’espressione di attacco. Se solo si potesse scagliare questa massa contro qualcosa... Anche nelle parole d’ordine sindacali c’è molta resistenza più che aggressività contro un obiettivo. Un avversario in crisi meriterebbe d’essere giudicato dal basso della società. Non basta dire che non pagheremo la vostra crisi. Le crisi sono provocate anche nell’interesse del capitale, sono strumenti di ristrutturazione, di distruzione creatrice. Quello che non vedo ancora sono una direzione politica del movimento e un’individuazione dell’avversario vero.
Il sindacato non può farlo. Nel migliore dei casi si ferma all’antagonismo economico. Manca la direzione politica, no?
Bisognerebbe far riemergere il lavoro come qualcosa che è stato oscurato negli ultimi decenni. Il lavoro quasi non esiste più, non solo come soggetto politico, ma anche come presenza sociale. Sembra che questo è un sistema che si regge senza lavoro. Bisogna far riemergere che questo sistema si regge perché c’è lavoro e che, magari, entra in crisi perché questo lavoro è stato sottopagato, sottovalutato. C’è da fare un grande discorso politico. Bisogna dare al lavoro una definizione politica. Dopo le lotte di classe novecentesche la struttura in classi molto rigide della società, ammettendo anche che la classe operaia ha perso un po’ di soggettività, però non è un fatto del tutto
negativo. Il lavoro si è esteso orizzontalmente ed è una presenza meno parziale di quanto non fosse il soggetto operaio d’una volta. E’ però un soggetto più globale, più collettivo, meno parziale. La classe operaia, in fondo, aveva una sua parzialità che non riusciva a farsi popolo. Invece oggi nella sua declinazione contemporanea, nella sua articolazione, anche nella sua frammentazione, prende tutti. Il lavoro fisso, il lavoro precario, il lavoro autonomo. In fondo, quasi tutti lavorano e sono lavoratori. E questo permette di fare popolo, un popolo lavoratore.
Forse il lavoro contemporaneo avrà perso in concentrazione, sarà più disgregato. Però ne ha guadagnato in estensione, no?
Sì. Perciò la forma dell’organizzazione politica dovrebbe avere questo problema di come si fa a spendere l’organizzazione su questo terreno più vasto, meno concentrato ma più esteso. Qui bisogna inventarsi forme nuove di organizzazione.
Il paradosso è che per tanto tempo i politici hanno fatto a gara
nel dire che il lavoro era finito. Oggi invece scopriamo che il lavoro non è affatto finito e che a essere finita, invece, è la politica. Non è così?
Questa è la grande contraddizione, non c’è dubbio. Il lavoro non fa più politica non perché non esista più il lavoro, ma perché non c’è quasi più la politica. Anzi, c’è il contrario, c’è l’antipolitica che a volte contagia anche molti strati di lavoratori. Quando non la trovi, la politica, la colpisci. Oppure la trovi nel modo distorto in cui la si trova oggi, in ceti politici chiusi, indifferenti, autoreferenziali, incapaci di guardare il mondo così com’è.
Quando non c’è la politica si finisce per cedere alla disperazione e allora ognuno reagisce come meglio può. Chi sequestra un manager, chi assalta la banca... Non è per guardare le proteste dall’alto verso il basso, nessuno se lo può permettere. Il problema è che non c’è la politica...
Quelle cose avvengono proprio perché non c’è altro, riempiono un vuoto. Quando invece scende
in campo il mondo del lavoro ha tutta la sua riconoscibilità, la sua visibilità. Però c’è un discorso da fare. La grandiosa manifestazione del 2002 sull’articolo 18 organizzata dalla Cgil di Cofferati fu un punto alto della mobilitazione. Dopo di allora ci fu una rapida discesa. Bisognerebbe oggi evitare il ripetersi di quella sequenza. La spinta che è venuta dalla piazza andrebbe coltivata. Bisogna riaprire un conflitto, certo, senza sprecare le forze e andare incontro a immediate sconfitte. Ma il problema di come fare, dopo queste grandi manifestazioni, di non scendere e di mantenersi a quel livello.
E’ un appello alla sinistra antagonista?
Si deve fare soggetto di questa spinta, concentrare le forze, non mettere tutto sullo stesso piano. Penso che il tema del lavoro, per una sinistra politica, non sia un pezzo di programma che sta assieme ad altri pezzi. Il lavoro è una discriminante. O gli dai una centralità e intorno organizzi le altre contraddizioni che ci sono oppure non
riesci a farti capire perché appiattisci tutto quanto e finisci nel discorso della sinistra del lavoro ma anche di genere ma anche ambientalista e via di seguito. Metti insieme diritti, tutele, laicità... Il problema è che ci vuole un centro sennò non c’è forma organizzata e finisci nel paramovimentismo.de Liberazione