GIUSEPPE TORNATORE: SUD COME METÀFORA
 







di Antonio Napolitano




Tornatore G.

Una buona notizia di questi giorni è che un film italiano, ”Baaria” di Giuseppe Tornatore tornerà, dopo vent’anni, ad inaugurare il Festival di Venezia del prossimo settembre. 
È un fatto positivo dato che l’oggi cinquantenne regista di Bagheria(PA) si è costantemente impegnato in lavori di qualità, non rientranti in quella produzione che ci assale ad ondate con i suoi exploit tanto sensazionali quanto vuoti di risonanze  umane.
In un’intervista a M.Sesti di vari anni fa il siciliano "Peppuccio"  faceva i nomi dei suoi "ascendenti", da Germi a Rosi e a Fellini e ricordava che era stata propria la visione di "Amarcord" a spingerlo al gran passo verso Roma.
Aveva, comunque, già un buon curriculum di fotografo e regista teatrale (Pirandello ed Eduardo) quando giunto nella capitale, la RAI TV gli offriva l’occasione  di dirigere alcuni programmi culturali, ad esempio "Scrittori siciliani e cinema" (1982).
Sempre lì, avrebbe conosciuto Giuseppe Ferrara e con lui collaborato alla sceneggiatura di "Cento giorni a Palermo" (1984).
Due anni dopo  realizzava il suo primo lungometraggio, "Il camorrista" quasi  cinema-verità su un altro capitolo inglorioso del Sud.
Il "barone di Ottaviano" (R.Cutolo) viene, in esso, impersonato al  millimetro da  un Ben Gazzara tacito o laconico quanto basta.
Con stile asciutto il regista scandaglia con coraggio e sagacia  i legami tra malavita e politicanti del Meridione.
La lezione dei maestri del neorealismo appare così assimilata assai bene e serve rendere il clima psicologico di certe zone d’Italia sottratte alla legalità.
Sulla linea delle reminiscenze felliniane, si colloca, invece "Nuovo cinema Paradiso" (1988).
Il malinconico ma  umoroso spirito che anima la vicenda la riscatta dal sempre incombente patetismo. L’opera ha un suo timbro sincero (autobiografico?) nel raccontare un modesto Eden perduto, quella sala in cui il cinema diventava un sogno ad occhi aperti per tanta gente di semplice estrazione sociale.
E i due protagonisti interpretati dal grande Ph.Noiret e dal piccolo caruso S.Cascio sanno creare l’atmosfera struggente di un "vissuto" ormai lontano.
Nel 1990 è la volta di "Stanno tutti bene" con Marcello Mastroianni e l’inossidabile Michèle Morgan. Il film descrive il viaggio di un pensionato siciliano che si reca sul continente a visitare i figli lì "emigrati" e che raramente gli scrivono.
Scoprirà la loro esistenza che è ben diversa da quel che essi gli hanno fatto credere.
Il film, pur stroncato da vari recensori, rivela-invece-una una vena cechoviana che ancora pulsa negli anziani e ne  acquieta le amare delusioni.
In più, come nota G.P.Brunetta nella sua "Storia" (1995) la vicenda rappresenta, altresì, "una discesa  nei gironi di un paese moralmente inquinato... fin nelle sue fondamenta affettive". Ed è questa la filigrana etica del mesto racconto.

L’anno seguente, Tornatore dirigerà un episodio de "La domenica specialmente" (1991). Si tratta de "Il cane blu" sull’agrodolce e poi drammatico rapporto tra un uomo solo e un bastardino che insiste a volergli tener compagnia.
Una svolta particolare sarà invece "Una pura formalità" del 1994, apologo di marca kafkiano sul potere inquisitorio di chi amministra indagini giudiziarie in modo dispotico e pregiudizievole.
G.Depardieu è lo scrittore indiziato di un qualche assurdo reato e sa calarsi perfettamente nel tipo  affetto da volontarie o involontаrie amnesie. R.Polanski è il funzionario insinuante e supponente, al limite del sadismo mentale o della megalomania.
Nel 1995, "L’uomo delle stelle" è il ritratto di un abile impostore (Sergio Castellito) che, negli anni dell’immediato dopoguerra, attraversa la Sicilia spacciandosi come inviato di una casa cinematografica. Riesce, così, a truffare diverse ragazze ingenue e vari creduloni che  ambirebbero alla carriera di star o da divi da  copertina.
È un bozzetto limitato ma inciso in profondità, anche grazie alle  saporose prestazioni di due caratteristi (L.Trieste e L.Gullotta) dal raffinato mestiere.
Mire troppo alte e pertanto un pò rischiose mostrerà invece, "La leggenda del pianista sull’oceano" (1998) da una "pièce" di A.Bariccio.
Qui tra kolossal e kammerspiel non mancano digressioni e ridondanze. E spesso gli attori (stranieri) non paiono a loro agio nei ruoli assunti.
In più, l’intenzione di contestualizzare i fatti appare delegata al solo commento musicale di Ennio Morricone più che alla coerenza delle strutture.
Nel complesso, l’opera sfiora più volte la fantasticheria e non l’autentica poesia.
Solo qualche mese dopo, il regista torna alla sua isola natia con "Lo schermo a tre punte".
Realizza in esso una sorta di ben congegnato mosaico di sequenze, che finiscono per dare le coordinate della civiltà siciliana, nei suoi differenti aspetti.
Un giusto spicco assume il colloquio con Leonardo Sciascia, presenza e voce capaci di chiarire i problemi socioculturali di quella antichissima terra.
E, ancora una volta preso da questo incanto quasi di natura genetica, Tornatore resta in Sicilia a girare "Malena" (2000) con Monica Bellucci "oscuro oggetto del desiderio" di tanti concittadini (e, forse, dello stesso Peppuccio alla ricerca dell’adolescenza felice?).
Solo la bellezza dei paesaggi riesce a rivaleggiare con quella della provinciale Venere pandemia e a dare un respiro più largo alla narrazione, alquanto frammentata.
Tra il 2002 e il 2003 ci sarà l’impegno fotografico (e una mostra a Torino) su immagini della Russia profonda. Verrà poi "La sconosciuta" (2006)  con un tema di bruciante attualità, la vicenda -cioè- di una badante venuta dall’Est. Si scopre, man mano, che il suo scopo vero è di ritrovare la figlioletta  sottrattale da un malavitoso che l’ha schiavizzata per lungo tempo.
La tinta di
"giallo" non inficia la sostanza della psicologia (e Ksenia Rappoport è del tutto credibile nel suo sofferto ruolo). La pioggia dei "David di Donatello" apparirà stavolta ampiamente motivata.
Insomma, pur tra alti e bassi, Tornatore ha tenuto fede alla sua devozione verso i suoi maestri, con un cinema nient’affatto banale, al cui centro resta il Sud, come metafora di un’esistenza travagliata o delusa  di tanti esseri maltrattati e offesi.
Tutto ciò esposto senza retorica, e realizzando una tessitura filmica compatta e scevra di facili adescamenti.
Perchè la sua scelta è stata quella di chi intende durare svincolandosi dalle mode più effimere.
Quelle che oggi portano ai facili "cult" da brivido che dopo poche settimane, devono esser surrogati da "cult" più arditi e "stracult" che sono, in fondo, quei "capolavori che durano una sola stagione" (E.Flaiano).