Roma, ecco il capannone-lager dove stanno gli sgomberati
 







di Daniele Nalbone




I dodici ragazzi dei movimenti di lotta per la casa che martedì pomeriggio si sono arrampicati sul tetto dei Musei Capitolini si apprestano a passare la seconda notte nel punto più alto del Campidoglio.
Una delegazione, mentre Liberazione va in stampa, si è recata in questura per chiedere l’autorizzazione all’allestimento di una tendopoli in piazza Madonna di Loreto, ai piedi del colle, spostandola così dalla piazza del Marco Aurelio. Le pressioni del prefetto Pecoraro, che fin dalle prime ore del pomeriggio di ieri ha praticamente raddoppiato il numero di agenti in tenuta antisommossa in Campidoglio, e le minacce di sgombero con la forza, hanno costretto i movimenti a fare i conti con la necessità di tutelare l’incolumità delle famiglie in presidio visto quanto accaduto in occasione della manifestazione contro il Piano Casa presso la sede del Consiglio regionale del Lazio all’inizio di agosto, dove la furia delle forze dell’ordine non si è
placata nemmeno al cospetto di bambini piccoli in carrozzina.
La risposta delle istituzioni a quanti chiedono un intervento vero per risolvere l’emergenza abitativa e trovare una soluzione "umana" per le famiglie sgomberate martedì mattina dall’ex ospedale Regina Elena continua ad essere l’uso del manganello. Seguendo i precetti del governo nazionale, ormai dedito ai respingimenti in mare degli immigrati, il governo cittadino ha deciso di reprimere con l’uso della forza ogni forma di dissenso. Si continua, quindi, sulla strada intrapresa martedì mattina quando si è deciso di "ristabilire la legalità" all’interno dell’ex Regina Elena, sfondando le porte e terrorizzando le famiglie occupanti anziché continuare con le trattative, da mesi in corso, tra istituzioni, università e movimenti. Si è scelto di militarizzare un intero quadrante cittadino per sgomberare oltre duecentocinquanta nuclei familiari "colpevoli" di aver occupato, due anni fa, un ospedale abbandonato, al tempo, da
cinque anni e per il quale ancora oggi non c’è nessun progetto di immediata ristrutturazione.
Eccola quella che Il Messaggero , quotidiano di proprietà del costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, ha definito "la città delle regole". Ma mentre la maggior parte dei media ieri mattina plaudiva all’operazione da stato cileno approntata dal prefetto Pecoraro e dal sindaco Alemanno su ordine del rettore de La Sapienza, Luigi Frati, Liberazione , nonostante il divieto imposto ai giornalisti dal Campidoglio, è entrata insieme ai rappresentanti del Gabinetto del sindaco in uno dei cinque centri di prima assistenza gestiti dal Vicariato: quello chiamato Casa della Pace e intitolato a Giovanni Paolo II, nella zona di Grotte Celoni.
A dispetto del nome, la struttura altro non è che un ex capannone all’interno di una zona industriale recintata su ogni lato. Per arrivarci bisogna raggiungere il civico 1674 di via Casilina ed entrare da un grande cancello: da lì bisogna percorrere circa due
chilometri di una strada che, oltre a non risultare su nessuna cartina stradale, non è illuminata e per ventiquattro ore è trafficata da camion e tir. Il tutto a ridosso di un enorme supermercato. Il capolinea dei bus è lontano, così come la civiltà. Siamo a ben 19 chilometri dal Regina Elena e dal municipio in cui i 92 fra bambini e ragazzi presenti nella struttura avrebbero dovuto, fra pochi giorni, iniziare la scuola. Quella che i rappresentanti comunali hanno definito una struttura «che permette di essere autosufficienti, con bagni, docce e luoghi comuni in grado di accogliere persone anche con gravi disabilità» è in realtà un enorme capannone di 28mila metri quadrati adibito a "lager".
Per entrare si può passare attraverso un primo ingresso con porta a vetri citofonando al guardiano (missione impossibile) o facendosi aprire, dall’interno, l’enorme portone dal quale, una volta, entravano ed uscivano i camion.
Dopo quattro rampe di scale (l’ascensore c’è ma non funziona), si
raggiunge uno dei quattro ingressi di un infinito corridoio. Su un lato ci sono le camere: 34, precisa il responsabile della struttura, di circa 40 mq ciascuna. Sull’altro ci sono i bagni comuni. La delegazione sfila via velocemente ma noi entriamo in quasi tutte le camere, accompagnati da un "inquilino" che ci mostra dove è stato costretto a vivere con la sua famiglia: una camerata con otto persone (quindi 5 mq per persona) con letti a castello, un armadio con le ante divelte e un comodino ogni due letti, enormi finestroni che non si possono aprire se non per un piccolo spiraglio verso l’alto. In queste stanze non solo non c’è bagno, ma nemmeno la cucina. Chiediamo ai funzionari del comune come sia possibile: «C’è il servizio catering» ci viene risposto dal vice capo di gabinetto del sindaco, Tommaso Profeta. E non solo: «c’è anche l’aria condizionata. Non capisco di cosa si lamentano» afferma, speriamo ironicamente, Profeta.
Un’idea delle lamentele, girando per il centro e
parlando con le persone, noi ce la siamo fatta: i bagni non sono semplicemente in comune, potremmo dire che sono "in comunissimo". Dietro una semplice porta ecco, a destra, i servizi igienici: dieci water in circa venti metri quadrati. A sinistra dieci docce comuni. Evidentemente per il Campidoglio queste persone non hanno diritto alla "intimità". In fondo, come scritto in prima pagina su Il Messaggero , sono « clandestini, piccoli malviventi, sbandati». Il caldo si fa opprimente. L’aria condizionata funziona in maniera "random". Alcune camere sono gelate, in altre sembra di entrare in un forno. Apriamo quasi tutte le porte (tanto non hanno la chiave), a differenza dei funzionari dopo aver bussato, e vediamo persone ammassate come bestie. Per non parlare del cibo e dell’acqua. Nella struttura ci sono diverse persone con problemi alimentari o malate: ciliaci, ma soprattutto alcuni diabetici. «Lo abbiamo fatto presente, ma inutilmente. Da martedì mattina non abbiamo potuto mangiare niente». L’acqua che scende dai rubinetti non è potabile e quella che ci viene portata è caldissima perché l’unico frigorifero (per oltre cento persone) non funziona. Una donna si avvicina in lacrime e ci chiede aiuto: «Mia madre è malata, da martedì mattina non prende le sue medicine perché andrebbero tenute in frigorifero». Un’altra signora ha, da martedì pomeriggio, un’emicrania lancinante. Chiede un antidolorifico. Le facciamo presente che il responsabile della struttura ha appena comunicato alla delegazione la presenza di un’infermeria alla fine del corridoio. Ma basta aprirne la porta per constatare che in realtà è utilizzata come magazzino, con tanto di scope, secchi, stracci e casse d’acqua accatastate.
Ecco come il comune di Roma, per usare le parole dell’assessora alle Politiche sociali, Sveva Belviso, «sta pensando alle mamme e ai bambini e a chi ha bisogno di assistenza». Il tutto mentre in Campidoglio si continua ad agitare il manganello nella speranza di riuscire a
sedare il dissenso.