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La nave dei veleni È stata avvistata a 20 miglia dal porto di Cetraro, nel Tirreno calabrese. Oggi l’immersione per avere la conferma che si tratta della Cunsky, «nave a perdere» con 120 fusti di scorie radioattive affondata dalla ’ndrangheta. La prima prova dopo 20 anni di sospetti, denunce e omertà «Sembra un fantasma, il primo di tanti, che oggi prende corpo». È un magistrato con i piedi saldamente per terra Bruno Giordano. Da meno di un anno dirige la Procura di Paola, con soli due sostituti - contro i sei previsti - e fascicoli che pesano. Ma oggi è quasi emozionato, aspetta con ansia la chiamata dal battello che l’assessorato all’ambiente della regione Calabria gli ha dato per ridare corpo a quel fantasma. Per ora dalla Procura confermano che gli strumenti hanno individuato senza ombra di dubbio una sagoma, di forma semicircolare, la cui immagine è assolutamente compatibile con lo scafo di una nave. Un relitto affondato a venti miglia nautiche al largo del porto di Cetraro, a una trentina di chilometri da Paola, su un fondo sabbioso a 483 metri di profondità. Un’ombra che da qualche mese insegue il procuratore Giordano, arrivato qui dagli uffici giudiziari di Reggio Calabria, abituato ad inchieste di ’ndrangheta, a pentiti dal gioco sottile, a killer spietati. Una "sagoma" che molto probabilmente appartiene ad una delle decine di navi a perdere, le carrette lanciate nel Tirreno e nei mari africani con migliaia di bidoni di rifiuti pericolosissimi, radioattivi, scorie della peggiore industria del nord Italia. Navi sparite dai registri navali, che per quasi vent’anni sono state cercate e, finora, mai trovate. Il piccolo robot guidato da un lungo cavo giallo sta scendendo in queste ore sul fondale, per ridare un nome a quell’ombra intravista a fine aprile dai ricercatori della Regione Calabria. Viene calato da un battello che normalmente si occupa di ricerche archeologiche, di anfore e navi romane. Dallo schermo il fantasma inizia a riprendere un volto. Già l’altro ieri un particolare sonar calato molto vicino al fondale aveva iniziato a disegnare i primi tratti: si vede la prua, la poppa, si legge quasi distintamente lo scafo, si può misurare la lunghezza, pari a un campo di calcio, circa 110-120 metri, con una larghezza di 20. Ora i tecnici della regione - che testardamente l’assessore regionale all’ambiente Greco ha messo a disposizione del Procuratore Bruno Giordano - attendono che il mare sia perfettamente calmo per calare il piccolo robot. E quando l’obiettivo manderà le immagini sul ponte di comando si potrà avere la conferma ultima sull’identità del relitto. È un pezzo di verità che sta affiorando dal mare calabrese. Ed è probabilmente il tassello chiave della lunga e complessa storia delle navi dei veleni che dalla metà degli anni ’80 fino ad almeno il 1993 nessuno ha potuto raccontare fino in fondo. Alcuni nomi sono noti, come la Zanoobia, i cui rifiuti si sospetta siano in parte finiti nella discarica di Borgo Montello, vicino Latina. O come la Rigel, la prima nave di cui si ha notizia certa, affondata al largo di capo Spartivento, nello Ionio calabrese, il 21 settembre 1987, o come la Jolly Rosso, incappata in una sorta di incidente di percorso e arenata a una sessantina di chilometri a sud da Cetraro, sulla spiaggia di Formiciche, ad Amantea. Sono nomi di vascelli - che secondo alcune fonti sarebbero almeno una quarantina - destinati a trasportare rifiuti tossici e nucleari verso i paesi africani, come la Somalia, o ad essere affondate al largo delle coste meno controllate, come quelle calabresi. Era il sistema di gestione dei peggiori rifiuti che molte industrie avevano adottato per almeno un decennio, prima che si aprissero le discariche abusive dei casalesi in Campania. Un sistema che è stato possibile coprire grazie a complicità di altissimo livello, un vero e proprio network - come lo chiamò Greenpeace - fatto di faccendieri, pezzi dei servizi segreti, trafficanti d’armi e cosche della ’ndrangheta calabrese. E se fino ad oggi della questione se ne sono occupati qualche decina di Procure, almeno due commissioni parlamentari (quella sui rifiuti e quella sulla morte di Ilaria Alpi), diversi investigatori e le principali associazioni ambientaliste italiane, mancava la prova principe, ovvero un "corpo", un "cadavere". I tanti depistaggi avevano infatti impedito di ritrovare almeno una delle navi a perdere. Nel caso della Rigel, ad esempio, le coordinate fornite agli assicuratori dopo l’affondamento non corrispondevano. O, in altri casi, le navi che tanti testimoni raccontavano essere state affondate risultavano, almeno sulla carta, rottamate. A parlare per primo del relitto ritrovato al largo di Cetraro è stato un collaboratore di giustizia legato alla ’ndrangheta. È Francesco Fonti, 52 anni, che raccontò nel 2006 di come avesse organizzato l’affondamento della "Cunsky", al largo della costa calabra. Secondo il suo racconto il principale locale di ’ndrangheta della zona costiera tra Paola e Cetraro aveva trasportato a bordo della nave l’esplosivo necessario all’affondamento. La "Cunsky", secondo il suo racconto, conteneva 120 fusti di scorie radioattive. Subito dopo il racconto di Fonti l’Arpacal si è messa silenziosamente alla ricerca del relitto. Quando è apparsa una sagoma sul limite delle acque territoriali al largo di Cetraro subito è scattata l’attenzione della Procura di Paola. «Devo ringraziare il coraggio e la determinazione dell’assessore regionale Greco - ha riconosciuto il procuratore Bruno Giordano - che è stato essenziale per la ricerca del relitto». Ed è curioso constatare l’assenza ingiustificata della Marina militare, che fino ad ora non ha fornito nessun supporto alla ricerca. «Appena avremo le fotografie del relitto - ha continuato il Procuratore di Paola - potremmo avere la certezza che la sagoma individuata sia una nave, certezza che ancora non possiamo avere». Una prudenza più che doverosa quella del procuratore Bruno Giordano, visto che le precedenti inchieste si sono arenate di fronte a muri di gomma o depistaggi quasi invisibili. Questa mattina - mare permettendo - i tecnici regionali cercheranno di riportare in Procura l’immagine del relitto. È il vero tesoro che il Tirreno calabrese potrà restituire, riaffermando verità negate per anni e ricostruendo un pezzo della storia nascosta del nostro paese. Andrea Palladino
«Così abbiamo affondato tre imbarcazioni con le scorie» «Io stesso mi sono occupato di affondare navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi. Nel settore avevo stretto rapporti nei primi anni ’80 con la grande società di navigazione privata Ignazio Messina, di cui avevo incontrato un emissario con il boss Paolo De Stefano di Reggio Calabria. Ci siamo visti in una pasticceria del viale San Martino a Messina, dove abbiamo parlato della disponibilità di fornire alla famiglia di San Luca navi per eventuali traffici illeciti. Fu assicurato che non ci sarebbero stati problemi, e infatti in seguito è successo. Per la precisione nel 1992, quando nell’arco di un paio di settimane abbiamo affondato tre navi indicate dalla società Messina: nell’ordine la Yvonne A, la Cunski e la Voriais Sporadais. La Ignazio Messina contattò la famiglia di San Luca e si accordò con Giuseppe Giorgi alla metà di ottobre. Giorgi venne a trovarmi a Milano, dove abitavo in quel periodo, e ci vedemmo al bar New Mexico di Corso Buenos Aires per organizzare l’operazione per tutte le navi. La Yvonne A, ci disse la Ignazio Messina, trasportava 150 bidoni di fanghi, la Cunski 120 bidoni di scorie radioattive e la Voriais Sporadais 75 bidoni di varie sostanze tossico-nocive. Ci informò anche che le imbarcazioni erano tutte al largo della costa calabrese in corrispondenza di Cetraro, provincia di Cosenza. lo e Giorgi andammo a Cetraro e prendemmo accordi con un esponente della famiglia di ndrangheta Muto, al quale chiedemmo manodopera. Ci mettemmo in contatto con i capitani delle navi tramite baracchino e demmo disposizione a ciascuno di essi nell’arco di una quindicina di giorni di muoversi. La Yvonne A andò per prima al largo di Maratea, la Cunski si spostò poi in acque internazionali in corrispondenza di Cetraro e la Voriais Sporadais la inviammo per ultima al largo di Genzano. Poi facemmo partire tre pescherecci forniti dalla famiglia Muto e ognuno di questi raggiunse le tre navi per piazzare candelotti di dinamite e farle affondare, caricando gli equipaggi per portarli a riva. Gli uomini recuperati sono stati messi su treni in direzione nord Italia. Finito tutto, io tornai a Milano, mentre Giuseppe Giorni andò a prendere dalla Ignazio Messina i 150 milioni di lire per nave che erano stati concordati. So per certo che molti altri affondamenti avvennero in quel periodo, almeno una trentina, organizzati da altre famiglie, ma non me ne occupai in prima persona». (dalla deposizione del pentito Francesco Fonti)
L’atomo non bara Perché la sinistra sbaglia a sottovalutare la decisione di riaprire le centrali. Per salvare un modello alla frutta Negli ambienti della sinistra e tra gli stessi ambientalisti c’è una sottovalutazione diffusa sulla traducibilità in azioni effettive degli annunci di reintroduzione del nucleare inanellati dal governo Scajola-Berlusconi. Eppure si tratta di azioni scandite con una tempestività impressionante e talmente consequenziale da meritare molta maggiore preoccupazione e l’approntamento di una seria mobilitazione, che invece stenta a partire. Per sostenere un modello energetico senza discontinuità, come se non fossimo di fronte all’emergenza climatica e alla fine dell’era dei fossili, ci sono ragioni politico-culturali per cui una produzione militarizzata e celebrativa fino al gigantismo del modello centralizzato oggi operante serve a rafforzare la narrazione di un governo d’ordine come quello attuale. In più, l’arretratezza della politica economica e industriale dell’attuale governo italiano, sostenuto dalle lobbies per gli affari dominanti in Confindustria e contigue al centrodestra, non può che guidare un fronte di Paesi che dalla Libia, all’Egitto e all’Europa dell’Est viene indotto a procrastinare il più avanti possibile il vecchio paradigma energetico fino all’esaurimento delle fonti non rinnovabili, straniandosi dai processi improntati al risparmio e alla rinnovabilità in corso nell’Europa più avanzata, nell’America di Obama e ormai nella stessa Cina. In cambio ne riceverà l’appalto di grandi reattori da costruire e gestire con il concorso dei privati, il transito con pedaggio di gasdotti sul proprio suolo, la costruzione di rigassificatori nei propri porti e, soprattutto, joint ventures delle aziende monopoliste controllate dal governo (Enel, Eni, A2A) con i partners più assistiti e meno innovativi del settore energetico (Westinghouse e Areva) e con i progetti economici dei leader più screditati sul piano democratico (Gheddafi, Erdogan, Putin, Mubarak, etc). Parliamo quindi del pericolo del ritorno del nucleare e della copertura fornita alla continuità irresponsabile di un modello già oggi alla frutta, facendo della questione del nuovo paradigma naturale terreno finalmente di lotta politica, di alleanze programmatiche, di diritto democratico alla corretta informazione. Ben sapendo che il conflitto tra atomo e sole sarà aspro e che è impossibile in situazione di crisi duratura una doppia allocazione di risorse verso "reattori e pannelli" . Dobbiamo perciò respingere l’impostazione del decreto governativo approvato dal Consiglio dei ministri di giugno che aggiunge il nucleare alla lista di garanzia in vigore per l’acquisto dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, cui viene paradossalmente equiparato e che annuncia un nucleare «senza oneri per lo Stato», terreno di pascolo per il tornaconto di imprese senza responsabilità sociale nè controllo democratico e con l’estromissione anticostituzionale delle regioni dal loro compito di tutela della salute e del territorio. È del tutto evidente che l’impiego di ingenti risorse private per finanziare la diffusione del nucleare porterebbe di fatto all’annullamento della possibilità di sostenere in modo adeguato il passaggio all’energia da fonti rinnovabili, come dimostra il taglio dei fondi ai progetti per il solare termodinamico e la minacciata revisione delle remunerazioni per il fotovoltaico attraverso il conto energia. Tutti sanno che l’espansione di fonti naturali è possibile solo se si favorisce una produzione locale diretta, senza trasporto, commisurata alla domanda. Infatti il ricorso alle fonti rinnovabili è a gestione tipicamente territoriale e, se incentivato e diffuso, produrrebbe effetti straordinari sull’efficienza e la riduzione dei consumi. Al contrario, se fosse messo fuori gioco da un eccesso di offerta energetica, come nel caso del piano Scajola (almeno 5 centrali Areva da 1600 MW integrate da reattori AP 1000 Westinghaus per investimenti di almeno 15 miliardi di euro) porterebbe all’impossibilità di un autogoverno democratico dell’offerta energetica. Così, non è certo un caso che il governo abbia previsto una procedura di scelta e imposizione dei siti quanto mai accentrata, dispotica fino al controllo militare. In base al ddl, se non ci fosse accordo con gli enti locali interessati e soprattutto con le regioni, il governo si riserverebbe il potere autoritativo di decidere comunque, stroncando così ogni resistenza popolare. Addirittura, il decreto invoglia il ministero della Difesa a mettere a disposizione propri siti per insediare centrali, mentre Il Cipe viene designato come l’organo che impropriamente decide la validità delle proposte di insediamento degli impianti e, di conseguenza, diventa la sede istituzionale di decisione al posto delle assemblee rappresentative. Spero che bastino queste osservazioni per far cambiare marcia alla ancora troppo blanda opposizione alla politica energetica di un governo che proprio ieri ha assestato un altro duro colpo ai beni comuni, decidendo per decreto di rendere impraticabile l’eventuale opzione degli enti locali per un governo pubblico dell’acqua. Mario Agostinelli
PORTE APERTE ALLA AMERICANA WESTINGHOUSE «Sul piano nucleare italiano i cittadini comuni come noi devono accontentarsi delle fughe di notizie e di una lunga intervista rilasciata a Milano Finanza dal ministro per lo Sviluppo Economico, Claudio Scajola. Scajola ribadisce la validità del patto d’acciaio stipulato fra Enel e l’omologa francese Edf per la costruzione di quattro centrali nucleari; inoltre, il ministro lascia aperta la porta anche all’americana Westinghouse». Così ieri Bruno Mellano, presidente di Radicali Italiani, e Giulio Manfredi, vice-presidente del comitato nazionale dei Radicali Italiani. «Scajola - sottolineano - è atteso a fine mese a Washington e vuole giocarsi la carta Westinghouse per ingraziarsi l’amministrazione Obama, che sicuramente gli chiederà conto di una politica energetica italiana tutta sbilanciata verso la Russia di Putin, a scapito, per esempio, del gasdotto europeo Nabucco, sponsorizzato da oltre Atlantico. Purtroppo, nemmeno la sicumera di Scajola può nascondere l’evidenza dei fatti: l’alleanza con i francesi rende problematica sia l’entrata nella partita nucleare italiana degli americani sia la partecipazione, tranne che in ruoli del tutto secondari, di imprese italiane quali l’utility bresciana A2A». E il decreto, aggiungono i radicali, «che fisserà i siti delle nuove centrali dovrà essere emanato entro il 15 febbraio, nel pieno della campagna elettorale per le regionali. Non siamo nemmeno agli antipasti, ma il conto del nucleare italiano rischia già di essere molto salato per il governo Berlusconi». |
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