-Proviamo a salvare l’homo artigianus-
 







di Tonino Bucci




I profeti della new economy raccontavano che il lavoro era scomparso. Le nuove professioni del futuro avrebbero garantito ricchezza e alte specializzazioni per tutti. Qualcuno aveva finito per crederci. La realtà è un’altra. I lavoratori di oggi si sentono svuotati delle proprie capacità, hanno retribuzioni basse, gli manca quasi del tutto un riconoscimento pubblico nella società. Sono invisibili e non riescono a scrollarsi di dosso la sensazione di essere diventati inutili. Nel capitalismo globalizzato le competenze, le specializzazioni, l’esperienza passata svaporano in fretta. Per le aziende, anzi, sono un ostacolo di cui liberarsi. Vogliono mobilità e precarietà. Le biografie non contano, cambiano personale a ritmi frenetici: oggi dentro, domani fuori. Il sistema aziendale si è trasformato in una rete di lavori frammentati. Richard Sennett, sociologo di fama mondiale e protagonista al Festival filosofia di Modena, lo studia da anni questo capitalismo contemporaneo. Lo dimostrano i libri che ha pubblicato, dal recentissimo "L’uomo artigiano" a "L’uomo flessibile" e "La cultura del nuovo capitalismo".
È davvero un paradosso. Il capitalismo ha messo al lavoro l’umanità intera eppure nella cultura della nostra epoca il lavoro delle persone non ha visibilità pubblica. Non crede?
Il nuovo capitalismo globalizzato ha avuto effetti distruttivi sull’identità dei lavoratori. Nel libro che ho appena pubblicato, "The craftsman" ("L’uomo artigiano"), ho cercato di vedere se esista ancora quella dimensione artigianale che spinge ogni lavoratore a desiderare un’esecuzione perfetta e gratificante. L’Italia, ad esempio, è una nazione che si è fatta strada nel mondo moderno proprio grazie all’artigianato. Nell’Italia del nord o nella Germania l’artigianato è un fenomeno nuovo e tradizionale al tempo stesso, un intreccio di vecchie abilità tecniche di lavoro e di macchine che invece presuppongono nuove conoscenze. Il problema è che
il moderno capitalismo è fortemente ostile all’artigianato. Viviamo in un’economia che produce ricchezza ma contemporaneamente distrugge le abilità e la qualità. In alcune economie neoliberiste, in quella statunitense come in quella britannica, è comparso il lavoro in affitto. Interessa solo il profitto a breve termine, si ragiona sul breve periodo. Non ci si preoccupa dello sviluppo della forza lavoro o della formazione dei lavoratori nel tempo lungo. In misura molto più massiccia che in Italia gli altri paesi hanno azzerato le capacità artigianali dei propri lavoratori per investire nella manodopera a più basso costo nelle cosiddette economie emergenti, soprattutto in Cina e in India.
Come è cambiata l’identità soggettiva del lavoro nelle tipiche professioni della new economy?
Sto lavorando assieme al gruppo dei miei studenti su un campione di interviste a lavoratori. Ho analizzato il lato soggettivo del lavoro di queste persone. Dalle loro parole viene fuori che lavorano
tantissimo e sotto pressione, ma al tempo stesso percepiscono che la propria attività lavorativa si è svuotata, ha perso qualità. Insomma non c’è più spazio in questa economia per un lavoro "ben fatto". Questi lavoratori fanno parte di una classe media, non sono né ricchi né poveri. Sono tecnici specializzati, lavorano alla City di Londra, si occupano di computer, comunicazione, pubblicità. Di fronte alla crisi attuale sono ovviamente molto preoccupati di perdere il posto di lavoro, eppure al tempo stesso provano una sorta di sollievo per il fatto che il sistema che per tanto tempo li ha oppressi e dominati si stia bloccando. Sono scissi. Guardano con preoccupazione al futuro, ma desidererebbero trovare un lavoro diverso, più stabile, cambiare rotta e liberarsi dalla pressione. L’aspetto più interessante e del quale io mi sto occupando, è che vorrebbero diventare "artigiani" e ritrovare un senso di soddisfazione e gratificazione nel lavoro.
Chi sono gli artigiani di oggi?
Per
esempio, un falegname, un tecnico di un laboratorio d’analisi, un direttore d’orchestra. Tutti e tre si dedicano anima e corpo al proprio lavoro. Non lo considerano un semplice mezzo per ottenere un fine, ma un obiettivo in se stesso. Desiderano la qualità perché ne ricavano gratificazione e senso. Anche il sistema operativo Linux è un manufatto pubblico, il lavoro di una comunità di "artigiani" che dedicano il proprio tempo gratis per migliorare e rendere accessibile a tutti il codice sorgente. Il contrario di Microsoft.
L’automatismo delle macchine può distruggere la dimensione artigianale?
Ci sono dei rischi. Gli architetti, per esempio, usano un software utilissimo che serve a progettare edifici. Si possono ruotare velocemente le immagini e osservare gli edifici progettati da tutte le prospettive. Il pericolo è credere che le macchine siano più intelligenti di noi umani e abbandonare le proprie abilità artigianali. L’abuso del software può far perdere a un architetto la
capacità di tenere assieme pratica e teoria, disegno manuale e progettazione mentale. Quel legame tra mente e corpo che caratterizza, appunto, l’artigiano.
Hannah Arendt contrapponeva la vita politica all’attività lavorativa. Solo nella sfera pubblica saremmo liberi e agiremmo con un senso, mentre nel lavoro non saremmo altro che esecutori senza testa. Anche la filosofia ha contribuito al misconoscimento del lavoro. E’ così?
Hannah Arendt è stata la mia maestra. Abbiamo avuto discussioni interminabili. A lei e a questo dissidio che avevamo sono dedicate proprio le pagine iniziali de "L’uomo artigiano". Passiamo così tanto tempo della nostra vita cosciente impegnati a lavorare che considerare il lavoro un’attività irrilevante e marginale mi sembra davvero irreale. Penso che Hannah Arendt abbia fatto un errore. Lei ha scambiato il privilegio della vita intellettuale per un modello di vita delle persone ordinarie.
Lei riabilita il lavoro artigianale. Però parliamo di una
dimensione quasi del tutto scomparsa nel capitalismo contemporaneo. O no?
Abbiamo un pregiudizio che ci impedisce di vedere come anche nel lavoro più ordinario siano necessarie le stesse capacità di un artigiano. Sappiamo che gli artigiani desiderano un’esecuzione perfetta e vogliono fare il loro lavoro nel modo migliore. Ma non riusciamo a capire che anche il lavoratore ordinario vorrebbe fare la stessa cosa e prova soddisfazione nell’eseguire al meglio il proprio lavoro. Purtroppo la cultura classista del capitalismo attribuisce capacità e meriti a un’elite intellettuale mentre considera il lavoro esecutivo un’attività vuota e irrilevante. In Gran Bretagna, ad esempio, gli operatori negli ospedali venivano trattati come lavoratori senza competenze, come se non ci fosse bisogno di esperienza e capacità umane per entrare in relazione con i malati e con la sofferenza. Si pensa che i medici siano l’elite intellettuale e gli infermieri esecutori senza cervello perché non hanno una
laurea o un diploma. Sono pagati poco e non hanno riconoscimento pubblico. Nessun giovane medico sarebbe capace di gestire i pazienti e le loro famiglie quanto un infermiere esperto.
In Italia i precari della scuola stanno perdendo il posto. I nostri insegnanti hanno scarso riconoscimento sociale e basse retribuzioni…
La politica italiana è un mistero. Sarei tentato di parlare del vostro presidente del consiglio ma mi trattengo. C’è una perdita di competenze, lo vediamo ovunque, nel giornalismo, nella scuola, negli ospedali, nelle aziende informatiche della Silicon Valley. Le professionalità e le capacità esistono, ma le persone sono trattate come se non le avessero. Ci raccontano che il capitalismo globalizzato aumenta le abilità. Non è vero. La stragrande maggioranza delle persone si sente inutile, svuotata, depauperata delle proprie capacità. La new economy ha distrutto il sistema remunerativo e il divario tra i redditi dei manager e quello dei loro dipendenti è aumentato in
misura esponenziale. È il dramma del nostro tempo.