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La missione italiana in Iraq nel nome del petrolio |
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"Antica Babilonia", la strage di Nassirya e l'Eni La 'missione di pace' italiana: l'interesse del governo per il petrolio e i legami tra l'Eni e Saddam Due sono gli elementi della recente inchiesta di Rai News 24 che gettano ombra sulla missione italiana in Iraq e alimentano il sospetto che, dietro agli scopi umanitari e di salvaguardia dei patrimoni archeologici, l'oro nero sia ancora una volta al centro del conflitto. Il primo elemento riguarda un dossier commissionato dal Ministero delle Attività Produttive a un docente di statistica economica dell’Università di Teramo sei mesi prima della guerra. Il documento, corredato da una serie di foto, indica il luogo considerato migliore per una presenza italiana: Nassiriya. Il capoluogo della provincia sciita di Dhi Qar, infatti, è il quinto giacimento petrolifero per importanza in Iraq con riserve stimate tra i 2,5 e i 4 milioni di barili. Si parla di un affare da 300 miliardi di dollari: la protezione di oleodotti e raffinerie è divenuto uno dei motivi principali della presenza italiana in Iraq. Il secondo, invece, riguarda un vecchio patto, che risale a meta' degli anni novanta, tra Saddam e l'Eni per lo sfruttamento delle riserve di Nassiriya. Una promessa fatta anche ad altre aziende petrolifere di Francia, Russia e Cina, tre paesi del consiglio di sicurezza dell'Onu, con la speranza che votassero contro l'intervento militare in Iraq, la vera cassaforte petrolifera del pianeta. "Antica Babilonia" La missione italiana, avviata nel maggio del 2003 nel quadro generale della IV fase dell’operazione “Iraqi Freedom”, è stata denominata “Antica Babilonia”. Il Governo italiano e il Ministero della Difesa hanno sempre dichiarato che il fine ultimo della missione è quello di “garantire la cornice di sicurezza essenziale per consentire l’arrivo degli aiuti e di contribuire, con capacità specifiche, alle attività di intervento più urgenti nel ripristino delle infrastrutture e dei servizi essenziali nel paese dopo il rovesciamento del regime”. In sostanza, gli obiettivi dei soldati che operano nella città di Nassiriya sono due: il pattugliamento del territorio e gli interventi umanitari, il tutto sotto il grande cappello del peacekeeping. Se nel primo caso si può dire che il risultato sia stato raggiunto, grazie soprattutto al sequestro di migliaia di armi, grossi dubbi rimangono sulle iniziative che riguardano la cooperazione internazionale. Infatti, solo una minima parte della popolazione locale ha beneficiato degli aiuti umanitari distribuiti, e l’attuale situazione sanitaria a Nassiriya, come in tutto l’Iraq, resta drammatica. Dopo il 30 giugno 2004, con l’assunzione di responsabilità da parte irachena, l’azione del contingente militare italiano è rimasta pressoché invariata. L’intervento italiano in Iraq venne finanziato grazie alla costruzione di un fondo speciale di riserva di milleduecento milioni di euro per la prosecuzione delle varie operazioni militari all’estero (Articolo 5 Atto Senato N 2512 Fondo Missioni Internazionali). Nella stessa legge finanziaria i fondi destinati alla cooperazione internazionale furono drasticamente tagliati, del 15% circa. Il Consiglio dei Ministri ha sempre respinto l’accusa che i maggiori finanziamenti destinati al settore militare provengano da uno switch dal settore cooperazione internazionale. Le intenzioni extra-politiche dell'attentato di Nassiriya Il 12 novembre 2003 la missione italiana in Iraq è stata colpita dall’attentato terroristico del contro la base “Maestrale” di Nassiriyah, a seguito del quale morirono 17 militari, 5 dell’esercito e 12 carabinieri e 2 civili, il dott. Stefano Rolla (di una casa di produzione cinematografica) e il dott. Marco Beci, esperto della cooperazione del Ministero degli Affari Esteri. I feriti furono 21. Indubbiamente la strage colpì i corpi militari e l’Italia intera, ma il messaggio non era diretto soltanto al Governo di Roma. E l’obiettivo non consisteva unicamente nel gettare la situazione a Nassiriya nel caos. Nelle intenzioni degli autori dell’attentato, le ripercussioni dovevano farsi sentire su più fronti. Oltre che un colpo diretto, sul piano politico, a tutte le capitali impegnate in un sostegno diretto agli americani, l'intenzione era dare un avvertimento a chi era pronto a impegnarsi nella ricostruzione economica dell’Iraq. “Per i nemici della ricostruzione dell’Iraq, riuscire a tener fuori dal paese tecnici e aziende straniere è addirittura più importante che cacciare le truppe occupanti”, aveva spiegato al Sole 24 Ore un ex funzionario della Cia che da anni segue le vicende irachene, che ha aggiunto: “Le truppe offrono un bersaglio e un nemico utile da avere, i tecnici stranieri potrebbero contribuire a rimettere in moto l’economia del paese e quindi stabilizzarlo. Che è esattamente il contrario di ciò che gli attentatori vogliono”. Quindi, colpendo i carabinieri, è stato inviato un messaggio anche ai potenziali “investitori” economici dell’Iraq. Tra questi investitori c’è l’Eni, la più grande compagnia petrolifera italiana. L'Eni in Iraq La settimana azienda petrolifera al mondo aveva da tempo messo gli occhi sui campi petroliferi di Nassiriya. Nel libro “La guerra del petrolio” (Editori Riuniti), l’autore, Benito Li Vigni, entrato all’ENI con Mattei e rimasto nel gruppo fino al 1996, ricoprendo posizioni di grande responsabilità, a proposito di Nassiriya scrive: «La presenza italiana in Iraq, al di là dei presupposti ufficialmente dichiarati, è motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione e degli affari. Questi ultimi riguardano soprattutto lo sfruttamento dei ricchi campi petroliferi. Non a caso il nostro contingente si è attestato nella zona di Nassiriya dove agli italiani dell’Eni il governo iracheno, pensando alla fine dell’embargo, aveva concesso – fra il 1995 e il 2000 – lo sfruttamento di un giacimento petrolifero, con 2,5-3 miliardi di barili di riserve: quinto per importanza tra i nuovi giacimenti che l’Iraq di Saddam voleva avviare a produzione». Il contratto con l’Eni era particolarmente favorevole per due ragioni. I costi di estrazione che la società di bandiera sarebbero stati scontati con la produzione del petrolio estratto; una volta ammortizzati i costi, poi, la produzione sarebbe stata divisa a metà tra Eni e Governo iracheno. L’operazione era importante a tal punto che alcuni autorevoli media statunitensi, commentandola, avevano scritto che se l'operazione fosse andata in porto, l’Eni sarebbe diventata la più grande compagnia petrolifera del mondo. Resta da capire perché, dopo aver concluso la trattativa durata cinque anni, l’Eni non abbia cominciato a trivellare i pozzi. La risposta è legata alla decisione di Saddam di attendere la fine dell’embargo, in virtù della quale aveva chiesto l’aiuto e l’intervento italiano, francese e tedesco presso la presidenza degli Stati Uniti, dichiarandosi anche disponibile a immettere sul mercato due milioni di barili al giorno per evitare l’aumento del prezzo del greggio. All’Eni, quindi, quel giacimento da 300mila barili al giorno e con riserve tra i 2 e i 2,6 miliardi di barili interessa dai tempi del regime di Saddam. Dopo l’inizio delle guerra in Iraq l’azienda italiana ha riaperto il negoziato con il “governatore Usa” Paul Bremer, incontrato da alcuni dirigenti dell’Eni proprio pochi giorni prima dell’attentato, e con il Ministero del petrolio iracheno. “Noi avevamo un interesse per quella zona e o confermiamo – aveva dichiarato l’amministratore delegato Vittorio Mincato – Contavamo di chiudere i colloqui in corso entro l’anno ma i fatti di oggi (il giorno dell’attentato, ndr) confermano quanto temevamo, quindi se ne riparlerà”. Nel giugno del 2003, la Somo, la società pubblica irachena di vendita del petrolio aveva già assegnato la sua prima offerta di greggio dall’inizio della guerra, pari a 10 milioni di barili di scorte, a 6 società petrolifere, tra cui l’Eni. Oltre alla società italiana, si erano aggiudicate la commessa le spagnole Repsol e Cepsa, la turca Tupras, la francese Total e la statunitense Chevron Texano. Dei 10 milioni di barili, 4 milioni erano andati agli Stati Uniti, 5,5 milioni all’Europa, mentre la parte restante “rimarrà per tolleranza”, aveva dichiarato Mohammed Al-Jibouri, direttore generale di Somo. L’Eni è già presente in Iran, con un progetto da 2 miliardi di dollari per lo sviluppo di un giacimento di gas e condensati, in Azerbaijan, nel Governatorato dell’Astrakhan (Russia Meridionale), in Kazakhstan, dove coopera allo sviluppo del giacimento di Karachaganak o nelle acque poco profonde dell’offshore kazako, dove è in fase avanzata di perforazione il promettente giacimento di Kashagan, che vede l’azienda come operatore unico (1,2 milioni di barili al giorno nel 2005, secondo l’Eni stessa), in Turkmenistan, dove partecipa ad un blocco esplorativo ereditato dalla Lasmo (società inglese acquisita dall’Eni nel dicembre 2000). La presenza dell’Eni a Baghdad insieme alle supermajor petrolifere, completa la mappa delle relazioni tessute dal gruppo in questa parte del mondo.fonte rainews24-da Nuovi Mondi Media
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