Gerusalemme, la città dalle mura invisibili dove la speranza muore
 







di Francesca Marretta




Non è solo la prevalenza di scritte in arabo o in ebraico a segnare il contrasto tra Gerusalemme est e Gerusalemme ovest.
Spostandosi tra le mura di pietra bianca che rivestono la città da ponente a levante, ci si accorge immediatamente di trovarsi in una zona araba facendo caso alla quantità di spazzatura in giro. Oppure alla mancanza o la presenza di parchi per bambini.
Di sera la differenza si nota nella qualità dell’illuminazione, molto più scadente a est.
Il maltempo di venerdì è stato un insolito benvenuto nella città dalle mura invisibili. Ma ci ha ricordato che anche un temporale, a Gerusalemme, non è lo stesso se visto da est o ovest.
«Bentornata. C’è l’elettricità da te? Io sono nella zona araba di Abu Thor, ma sul lato della strada in cui abito la corrente elettrica è erogata dalla compagnia palestinese ed è saltata da almeno un ora. Dall’altra parte i vicini ebrei la ricevono dall’azienda israeliana e a loro funziona
tutto». Miracoli che accadono solo in Terrasanta.
Gerusalemme resta "La Santa", ma si rifà di continuo il maquillage.
Entrando nella parte araba della città vecchia dalla Porta di Damasco, per esempio, si nota immediatamente che gli ambulanti che vendono erbe, frutta e spezie sono relegati ora solo all’esterno. Avevano finora sempre occupato tutto lo slargo oltre le mura da cui parte la biforcazione che si infila nel suq per proseguire nel labirinto di vicoli e strade del quadrilatero circondato dalle mura di Solimano il magnifico.
A Ovest i cambiamenti che saltano all’occhio sono piuttosto le costose ristrutturazioni di zone del centro come Mamilla, in cui sono state recuperate o sono sono in corso di recupero strutture pre-esistenti. Una pratica che ha messo parzialmente fine agli scempi edilizi andati avanti per decenni in nome della creazione del nuovo Stato di Israele.
Le demolizioni di edifici continuano invece per le case palestinesi di Gerusalemme est. Martedì
scorso, le ruspe del comune hanno buttato giù altre cinque case nei quartieri arabi di Shuafat, Zur Baher, Silwan. Superfetazioni illegali, dato che ai palestinesi di Gerusalemme risulta praticamente impossibile ottenere permessi edilizi. Una forma di Apartheid su cui ha speso qualche parola anche il capo della diplomazia dell’Ue, Javier Solana, che in una nota diramata nei giorni scorsi ha esortato le autorità israeliane «a porre fine a tali misure discriminatorie». Altro fenomeno in costante aumento è quello della creazione di nuovi insediamenti ebraici nei quartieri arabi della città. I casi di palestinesi che vedono racapitata una notifica di sfratto a Gerusalemme est è direttamente proporzionale all’arrivo dei nuovi vicini.
Nel quartier di Sheikh Jarrah, da giorni si ripetono scontri sporadici tra polizia e palestinesi. Giovedì è stata portata via di forza dalla tenda in cui viveva da quasi un anno Umm al Kamel al Kurd. La donna palestinese diventata il simbolo della
resistenza non violenta contro quella che è vista come la nuova colonizzazione della parte est della città, ci viveva dopo essere stata cacciata dalla sua casa in cui ora vivono degli ebrei israeliani. A pochi giorni dall’intervento delle forze dell’ordine israeliane, nello slargo alle spalle del Mount scopus Hotel, al posto della tenda sono stati piazzati grandi contenitori metallici peni di spazzatura.
Il destino di Umm al Kamel è quello di decine e decine di famiglie palestinesi di Gerusalemme est. Due giorni fa sei componenti della famiglia Saleh, compresa la ultraottantenne nonna, che vivono a Beit Safa, sono finiti all’ospedale attaccati da un gruppo di israeliani di estrema destra. Gli israeliani rivendicavano la proprietà dell’immobile in cui la famiglia palestinese abita dagli anni ’60. Sono stati fermati dalla polizia, ma non messi in galera.
In questo clima di tensione, quello che rischia di dare fuoco a una miccia esplosiva, è, come avvenne nel 2002, quanto sta
accadendo alla spianata delle moschee.
Sopratutto considerato che non si vedono prospettive per la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi. Nonostante le visite dell’inviato di Obama, Mitchell e ieri anche di Hillary Clinton. Dimostratisi incapaci di impedire l’attività delle ruspe che continuano ad allargano insediamenti sotto gli occhi dei palestinesi.
Le recenti istanze da parte di gruppi rabbinici minoritari di estrema destra per ottenere il diritto a pregare nel terzo luogo santo dell’Islam dopo La Mecca e Medina, in base alla convinzione che sotto la spianata siano sepolti i resti del biblico Tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d.C. per ordine dell’imperatore Tito, stanno incendiando gli animi degli arabi musulmani in tutta la Regione. Anche a causa di notizie, smentite dal governo israeliano, su scavi sotterranei alla ricerca di reperti archeologici del Tempio.
«La situaizone è molto brutta, la gente è molto, molto arrabbiata» dice il 45enne barbuto
proprietario del negozio di alimentari "Al Kana", situato a pochi metri dall’area in cui è stata smantellata la tenda Umm Kamel a Sheik Jarrah, che aggiunge: «Su Al Aqsa gli israeliani devono stare molto attenti, perchè se toccano la Moschea si faranno ancora più nemici in tutta la Regione».
Anche il trentenne Murat Muna, che lavora in una libreria di Salah el-Din Street ed è un musulmano non osservate, è della stessa opinione. Ato, jeans e camicia a righe, con occhiali dalla montatura di metallo che gli danno un’aria da intellettuale, Murat dice: «Se si azzardano a entrare ad Al Aqsa ci sarà un’insurrezione. Io non vado a pregare, ma nessuno permetterà una violazione dei luoghi sacri. Qui tutti si aspettano che da un momento all’altro accada qualcosa».
Poco più avanti incontriamo, appena uscite da un caffè, un gruppo di giovani insegnanti. I loro allievi hanno tra gli otto e i dodici anni. Hanno tutte il volto incorniciato dal velo, da cui spiccano occhi truccati con tratto
deciso. Rasha David Tina insegna inglese mentre studia ancora per un master all’Università di Birzeit. Ha 24 anni, indossa un jeans attillato e parla apertamente di terza Intifada alle porte.
«Al Aqsa è la goccia che farà traboccare il vaso. La vita è già intollerabile qui per noi arabi, continuamente fermati ai posti di blocco, vessati e per questo sempre stressati. Guardati in giro, le vedi le facce della gente? La maggior parte sono tristi, perchè ogni giorno può accadere qualcosa di brutto e la frustrazione cresce. Abbiamo bisogno di aiuto, ma nessuno ci aiuta davvero». Le sue amiche annuiscono
Chiediamo loro se l’aiuto che si aspettano possa arrivare dalla Casa Bianca. Risponde ancora Rasha, che è la più giovane, ma anche la più estroversa.
«Obama? Credo abbia bisogno di più tempo. Bisogna venire a vedere da vicino che succede per capire che gli ebrei che vivono qui non sono angeli. Piangono sempre per quello che è successo a loro 60 anni fa, ma guarda quello che fanno
a noi oggi. Ci rendono la vita infelice e senza prospettiva per il futuro».
Che vita vorresti per i tuoi figli?
«Una vita senza posti di blocco in cui possano crescre senza paura». Le donne concordano sul fatto che nonostante le speranze a loro, arabe di Gerusalemme, il futuro non sorride.
«Gli israeliani stanno cercando di far aumentare la popolazione ebraica più che quella araba anche qui ad est. Gli serve per poter dire, un giorno, quando dopo infiniti negoziati ci si siederà a un tavolo, guardate Gerusalemme è piena di ebrei. Diranno guardate i numeri, gli ebrei sono più degli arabi. Quindi la città è nostra. Ma questo non accadrà. Io sono nata qui, dove sono nati mio padre e mio nonno. E quì morirò qui, nonostante quello che pensano loro», conclude Rasha. Stavolta con un sorriso.