Michael Moore, nel bene e nel male, se non ci fosse dovrebbero inventarlo
 







di Boris Sollazzo




Michael Moore, nel bene e nel male, se non ci fosse dovrebbero inventarlo. Con quell’anarcoide voglia di giustizia e quel moralismo politico, sa interpretare profondamente l’anima profonda dell’America e degli ultimi. E pazienza se ogni tanto opera delle forzature niente male, in nome di un bene più grande. Spesso, volutamente, guarda all’estero superficialmente e un po’ capziosamente per sostenere le sue tesi, la sua missione è farsi capire dagli americani, dai piccolo borghesi com’è (anzi, com’era) lui.
«Comprensione è potere, loro avranno i soldi, ma noi abbiamo i voti». Sintesi perfetta ed efficace, come quella delle sue mille trovate con cui ci mostra il lato oscuro della superpotenza che decide i destini del mondo e non pensa ai suoi concittadini. Ecco perché ci piace il nuovo vecchio Moore. Il regista di Flint, liberatosi del fantasma e dell’ossessione di Bush Jr., è tornato al primo amore, il viaggio nell’incubo americano. Vent’anni fa
era Roger & Me e l’industria automobilistica che rendeva l’America profonda un deserto industriale, negli anni ’90 erano i libri, un programma tv dai risultati infelici ( Tv Nation , l’antenato del cult The Awful Truth ) e tour di presentazioni dei suoi volumi in giro per le città più martoriate del suo paese, riproposti nel poco visto ma molto interessante The Big One . Nel nuovo millennio armi e guerra, Bowling for Columbine e Fahreneit 9/11 , gli portano un Oscar e una Palma d’Oro a Cannes, ma sono anche il momento più acuto della sua abilità di manipolatore d’immagini e tribuno politico, che lo portano lontano dalla rutilante creatività di sempre. L’ironia fa posto a una rabbia sarcastica, l’approccio naif a un attacco più calcolato e furbo. Poi è arrivata la scoppola della sconfitta di Kerry, molti avvoltoi gliene hanno affibbiato la corresponsabilità ed è tornato alle origini, ma con l’esperienza e il talento accumulati in due decenni. Ecco così il capolavoro Sicko , sulla tragedia del sistema sanitario americano, e ora Capitalism: a love story .
Sul banco degli imputati un sistema intero, il credo laico a cui gli Stati Uniti si sono affidati con cieca obbedienza. Ne individua la struttura, gli eroi, il sistema di propaganda tra spot e jingle più o meno subliminali, l’evoluzione nel dopoguerra in cui presidenti (soprattutto repubblicani) e amministratori delegati di corporation varie hanno venduto il paese al miglior offerente. Un film dal ritmo serrato stretto tra Franklin Delano Roosvelt e Barack Obama, tra l’utopia tradita a quella sperata. Tra due socialismi che non apparivano come bestemmie al liberismo estremista stelle e strisce. «Più chiamavano Obama socialista, più guadagnava punti nei sondaggi, forse qualcosa è cambiato». Forse sì, se deputati americani invitano alla disobbedienza civile di leggi dello stato, perché ingiuste, se politici si spaccano sui fondi salva-banche, se per una volta non tutti, ma molti, sentono la necessità di
mettersi dalla parte dei più deboli. E così la trovata finale alla Michael Moore, geniale, ha un impatto narrativo e una forza metaforica unica. Quel nastro giallo con cui la polizia delimita i luoghi di ogni delitto, srotolato su tutta Wall Street mentre lui, con un sacco, richiede il maltolto alle banche, ci ricorda che i crimini finanziari sono crimini contro la persona. Perché questo sistema uccide, umilia, devasta vite e generazioni. E Michael Moore - anche grazie alla sua piazza che riunisce storie e rivendicazioni, il sito www.michaelmoore.com - il ha il coraggio di sbattercelo e sbatterselo in faccia.