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No ponte torna in azione: il 19 contro le mafie -Dovremmo cambiare lo slogan. "No al ponte" si dovrebbe trasformare in un "No a tutti i cantieri"-. Tiziana, delle rete "No Ponte", è convinta. -Questa - continua - sarà una manifestazione simbolo non solo per la Calabria e la Sicilia ma per tutte quelle comunità che rischiano di vedere il proprio territorio devastato-. Il 19 dicembre a Villa San Giovanni si tornerà a manifestare. L’occasione non è da poco. Per il 23 dicembre il Governo ha deciso di porre la posa della "prima" pietra per quel fatidico ponte che vorrebbe, nelle intenzioni dell’Esecutivo, congiungere la Sicilia alla Calabria e viceversa. Eppure, nei fatti, è solo un "bluff". A ribadirlo a più voci, ieri in conferenza, sono stati i vari rappresentanti del movimento, dei partiti da sempre in prima linea contro le mafie: il Forum certo, quello calabrese e siciliano ma anche Rifondazione, i Verdi, il Pdci, Sinistra e Libertà. Ancora: Legambiente, il Wwf e come primo "media partner" la stessa "Liberazione". E non ci saranno solo i "soliti noti" che pure sono tanti. «Come segno che questa battaglia ormai appartiene al comune sentire hanno dato la loro adesione artisti e musicisti del calibro dei "99 Posse", dei "Tete de Bois" ed altri ancora». Senza contare che le adesioni alla campagna "Artisti contro il Ponte" continuano numerose. Del resto, le ragioni della protesta sono tutte lì che invocano una partecipazione di massa per fermare un disegno che nei fatti è solo «l’emblema - aggiunge Beppe Marra - di una politica che fonda la sua logica solo sulla speculazione finanziaria sullo sfruttamento sfrenato e distruttivo del territorio». I dossier sulla questione sono numerosi. «Ad oggi - ricorda Marra - non c’è ancora un progetto che sia anche solo in linea di massima da considerare definitivo. Non ci sono soldi in cassa da investire. Esistono solo dubbi, e rilevanti, sulla fattibilità tecnica dell’opera». Tanto per citarne uno: uno dei due pilastri del fatidico ponte dovrebbe poggiare sulla "Faglia 50" nota a geologi e sismologi per la sua "fragilità". Senza contare i finanziamenti: «L’opera viene stimata in 6,3 miliardi di euro. Lo Stato, in crisi, dove li troverà?». E’, del resto, opportuno spendere anche qualche parola sull’insostenibilità finanziaria dell’opera. La stessa Società Stretto di Messina sta ipotizzando che il ponte possa fornire una certa redditività dopo i 60 anni di concessione. E allora? A chi serve? Eva Catizone (Sinistra e Libertà) cita Vendola: «Non serve ad unire certamente le coste ma solo le cosche». Su questo in verità concordano tutti. «La Calabria, la Sicilia - sottolinea Stefano Galieni (Prc) - hanno bisogno di ben altri ed utili investimenti piuttosto che di nuove speculazioni che vanno a favorire solo le eco-mafie che in questi ultimi anni hanno fatto man bassa di questi che sono tra i territori più belli d’Italia». L’ultima imponente manifestazione ad Amantea lo ricorda. Lo scorso 24 ottobre, in piazza, sono scesi migliaia di semplici cittadini per dire basta. «Basta a fare di territori dimenticati dallo Stato - continua Nino Moratti di Legambiente - discariche». La storia delle navi dei veleni non viene certo dimenticata. La ricordano Gianfranco Mascia e Riccardo Messina, rispettivamente dei Verdi e del Pdci. Anzi, al contrario, proprio quella storia ha riportato alla ribalta delle cronache come la Calabria e la Sicilia siano state da sempre territori in cui la ’ndrangheta e la mafia hanno potuto agire indisturbate seppellendo rifiuti tossici e nucleari per lucrare sullo smaltimento di scorie scomode. Per questo il Forum delle associazioni e dei movimenti e comitati di tutta la Calabria ha deciso di ripartire da qui, con l’appello lanciato ai partiti ma soprattutto alle tante realtà locali di condividere una nuova piattaforma per chiedere ben altro che la costruzione di un’ immaginaria e deleteria inutile infrastruttura. A partire dalla richiesta di una «immediata bonifica di tutti i siti inquinati - ricorda Silvio Messinetti -; il monitoraggio ambientale permanente di terra, aria ed acqua; verità e certezze su responsabilità civili, penali e politiche di chi, negli anni, ha inquinato, lucrato e permesso lo sfruttamento indiscriminato del territorio; la moratoria sui rifiuti affinché si realizzi un nuovo Piano di smaltimento basato sulla raccolta indifferenziata spinta, evitando nuove discariche, inceneritori od altre tipo di opere; la moratoria sulla costruzione del Ponte e su tutte quelle opera di cementificazione selvaggia delle coste e dei paesaggi; infine impedire lo sfruttamento energetico intensivo e non eco-compatibile del territorio». Si partirà da questi punti di discussione per la costruzione di convergenze di un movimento che vuole nelle sue intenzioni essere il più ampio possibile per «fermare gli scempi, le mafie, la devastazione». Ed anche per rilanciare una nuova politica di sostenibilità. Alla fine l’annuncio. «Una prima buona notizia comunque questa volta c’è - conclude Tiziana - la Giunta regionale calabrese ha deciso di non contemplare il ponte nei suoi documenti di pianificazione urbanistica e paesaggistica». Solo un primo passo che dà, comunque, l’idea di un cambiamento che si fa sempre più tangibile e, soprattutto, auspicabile.Castalda Musacchio No alla vendita dei beni confiscati Tredici anni fa, oltre un milione di cittadini firmarono la petizione che chiedeva al Parlamento di approvare la legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Un appello raccolto da tutte le forze politiche, che votarono all’unanimità le legge 109/96. Si coronava, così, il sogno di chi, a cominciare da Pio La Torre, aveva pagato con la propria vita l’impegno per sottrarre ai clan le ricchezze accumulate illegalmente. Oggi quell ’impegno rischia di essere tradito. Un emendamento introdotto in Senato alla legge finanziaria, infatti, prevede la vendita dei beni confiscati che non si riescono a destinare entro tre o sei mesi. E’ facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all’intervento dello Stato. La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni. Per queste ragioni chiediamo al governo e al Parlamento di ripensarci e di ritirare l’emendamento sulla vendita dei beni confiscati. Si rafforzi, piuttosto, l’azione di chi indaga per individuare le ricchezze dei clan. S’introducano norme che facilitano il riutilizzo sociale dei beni e venga data concreta attuazione alla norma che stabilisce la confisca di beni ai corrotti. E vengano destinate innanzitutto ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia i soldi e le risorse finanziarie sottratte alle mafie. Ma non vendiamo quei beni confiscati che rappresentano il segno del riscatto di un’Italia civile, onesta e coraggiosa. Perché quei beni sono davvero tutti "cosa nostra". di Luigi Ciotti Utilizziamo a fini sociali i beni confiscati ai clan Pubblichiamo l’articolo di don Luigi Ciotti del 30 giugno del 1995 sulla campagna promossa da Libera che porterà alla promulgazione della legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. L’articolo uscì contestualmente su una quarantina di testate nazionali e locali contribuendo a sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sui pericoli del grande potere economico delle organizzazioni criminali e delle collusioni che ne garantivano, e ne garantiscono tuttora, prosperità. Pubblicando questo articolo auspichiamo che ritorni quello spirito civico e di legalità che ha permesso di riconsegnare alla collettività quei beni e quelle ricchezze frutto di violenze e sopraffazioni, in un momento in cui la legge 109/96 rischia di essere svuotata del suo significato da un emendamento della legge finanziaria che permette la vendita dei beni confiscati ai mafiosi. Raccogliere entro l’estate un milione di firme: è l’obiettivo della prima campagna nazionale promossa dall’associazione “Libera” per chiedere l’utilizzo a scopi sociali dei beni confiscati ai mafiosi. Siamo a metà strada e occorre accelerare il passo. Hanno già firmato nomi noti, intellettuali, politici di diverso orientamento, sindacalisti, imprenditori, giornalisti, esponenti delle chiese e delle associazioni ma, sopratutto, tanti nomi di “semplici” cittadini, studenti, insegnanti, casalinghe, lavoratori e pensionati, liberi professionisti e commercianti. Uno spaccato significativo della società civile, di ogni regione, chiede che si arrivi in tempi rapidi ad approvare la proposta di legge che ha recepito le sollecitazioni di Libera, già positivamente licenziata dal comitato ristretto dalla Commissione Giustizia della Camera. Dal 1982 al 1993 sono stati sequestrati in base alla legge antimafia 3918 miliardi ma di questi solo 697 sono stati confiscati. Rendere più celeri ed efficaci gli accertamenti patrimoniali e le procedure di confisca, qualora evidentemente la magistratura ne ravvisa gli estremi è fondamentale, così come utilizzare adeguatamente quelle ingenti somme. L’articolo di legge in discussione è semplice: i beni immobili confiscati sono mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia e protezione civile o, in alternativa, trasferiti al patrimonio dei Comuni che possono assegnarli in concessione a comunità, enti e associazioni di volontariato; i beni aziendali sono assegnati in affitto ad imprese pubbliche e private, ovvero gratuitamente a cooperative di lavoratori privilegiando le soluzioni che garantiscano il mantenimento dei livelli occupazionali. Le somme derivanti la vendita dei beni mobili confluiranno in un fondo presso le Prefetture, da utilizzare per progetti di interesse pubblico e, nello specifico, per attività di risanamento dei quartieri urbani degradati, di prevenzione e recupero dell’emarginazione, per strutture sportive e ricreative, per interventi scolastici di educazione alla legalità, per agevolare iniziative autoimprenditoriali rivolte a giovani disoccupati. Si tratta dunque di una proposta concreta che intende restituire ai cittadini quel che le mafie e i narcotrafficanti hanno sottratto. Ci auguriamo che per Camera e Senato, in sede di discussione e approvazione del provvedimento, lo vogliano estendere anche ai reati di corruzione. “Libera” segnala anche l’importanza del contenuto , assieme simbolico ed operativo, della proposta. Il potere mafioso si esprime e riproduce non tanto per via militare quanto attraverso il controllo del territorio, il rapporto di scambio e complicità con uomini, e talvolta settori della Stato e della politica, con l’infiltrazione del tessuto economico e produttivo legale. Per questo indebolire economicamente la grande criminalità è decisivo: una mafia povera è una mafia non più capace di procurarsi consensi, complicità e impunità. Questa proposta, e in generale l’attività di “Libera”, che raccoglie in tutta Italia oltre 500 realtà e associazioni, vanno al di là del semplice momento repressivo. Si tratta, piuttosto, di contribuire a costruire un’ “antimafia dei diritti”, cioè una capacità delle istituzioni di recuperare credibilità e garantire giustizia, servizi pubblici efficienti, istruzione, lavoro e socialità in tante zone del paese tradizionalmente abbandonate alla “supplenza” mafiosa. Non solo le istituzioni ma ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte senza comode deleghe, educandoci alla responsabilità e alla legalità, nel quotidiano del nostro lavoro.di Luigi Ciotti -de Liberainformazione-
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