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Haiti è in ginocchio Port-au-Prince non esiste più. Quasi nessun edificio nella parte bassa della capitale haitiana ha retto al violento terremoto che ieri ha colpito e devastato il paese più povero dell’intero continente americano. Uno sciame di scosse, cominciato con la prima alle 16.53 locali. E’ stata la più forte, magnitudo 7.3 della scala Richter. Ed è durata un minuto, un lunghissimo minuto che è bastato per radere al suolo la città. E’ venuto giù tutto: il palazzo presidenziale, il parlamento, il quartier generale delle Nazioni Unite, la cattedrale, i ministeri, gli alberghi, le scuole, gli ospedali, le caserme. Ed è solo una stima provvisoria, le notizie giungono frammentarie, le comunicazioni sono difficili, ancora una volta è la rete a raccontare il dramma. Le vittime potrebbero essere oltre centinaia di migliaia, così ha detto il premier Jean Max Bellerive in un’intervista telefonica alla Cnn. Alle sue parole hanno fatto eco quelle del presidente René Preval, che ha parlato di «catastrofe», di un Paese distrutto. E secondo l’Onu, il sisma avrebbe coinvolto oltre un terzo della popolazione, ossia tra i tre e i tre milioni e mezzo di persone. In migliaia sono sotto le macerie, in rete ci sono testimonianze che parlano di una confusione totale, di soccorsi che non arrivano e persone che scavano con le mani in cerca di sopravvissuti. La parte bassa di Port-au-Prince è «completamente distrutta», ha riferito nel corso di un intervento all’Assemblea nazionale a Parigi il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner precisando che il resto della capitale haitiana, che sorge in parte sulle colline, «è stata un po’ risparmiata» dal sisma. La capitale è isolata, i telefoni non funzionano, tv o radio locali non trasmettono più, solo qualche contato di fortuna via internet, riferisce l’agenzia missionaria Misna. Le linee sono interrotte e si riesce a comunicare solo con Skype, ha detto l’ambasciatrice di Haiti in Italia. Solo un ospedale è rimasto in piedi ma ha già esaurito la capacità di accoglienza di feriti; la Croce Rossa internazionale si sta attrezzando per allestire alcuni punti di pronto soccorso da campo mentre Medici senza frontiere ha perso i contatti con i suoi operatori nel paese. Il presidente Preval si è salvato insieme alla sua famiglia perché non si trovava nel palazzo presidenziale, ma la sua casa privata è stata distrutta. Ed è stato ritrovato senza vita il corpo dell’arcivescovo, monsignor Serge Miot, mentre non si hanno ancora notizie del vicario generale, mons. Benoit. Il nunzio apostolico ad Haiti, arcivescovo Bernardito Auza, ha dichiarato all’agenzia Fides che la cattedrale, l’arcivescovado, tutte le grandi chiese e tutti i seminari sono ridotti a macerie: «Centinaia di seminaristi e sacerdoti sono rimasti sotto le macerie», ha aggiunto mons. Auza. Tra le vittime c’è anche Zilda Arns, fondatrice della Pastorale dei bambini della Chiesa cattolica brasiliana e missionaria famosa anche in Italia per aver ricevuto il premio dei diritti umani dell’Onu nel 2002. Si contano anche molte vittime tra i Caschi blu della missione Minustah dell’Onu ad Haiti (circa 11 mila effettivi, tra cui 7.031 militari e 2.034 agenti di polizia): almeno sette militari del Brasile, otto cinesi (più dieci dispersi), tre della Giordania. L’edificio di cinque piani, sede della missione, si è completamente sbriciolato e, secondo Kouchner, tutte le persone che si trovavano al momento del sisma al suo interno sarebbero morte, compreso il comandante della missione, il tunisino Hedi Annabi. E infine, ci sono 38 membri del Programma Onu per lo sviluppo fra i dispersi. Circa 60 dei 190 italiani tra coloro che vivono stabilmente nell’isola e quelli presenti per lavoro o turismo sono in salvo, mentre si cerca di mettersi in contatto con gli altri, dicono alla Farnesina, la cui Unità di crisi sta verificando anche la notizia della morte di un connazionale. Intanto la comunità internazionale si sta mobilitando per aiutare la popolazione di Haiti. Il presidente Usa Barack Obama ha subito promesso aiuti «rapidi e coordinati». Sara Volandri L’isola degli ex schiavi in ginocchio da sempre Non c’era bisogno del terremoto per devastare Haiti. Gli uragani spazzano l’isola, i suoi campi e i suoi villaggi con frequenza e gli haitiani sono abituati alle catastrofi naturali. Nel ’700 una serie di terremoti avevano già devastato Pot-au-Prince. Dopo ieri, però, gli uragani verranno vissuti come una pioggerellina estiva. L’economia del Paese del voodo è in ginocchio da decenni, come se sulla metà dell’isola occupata dal Paese di Francois "Papa Doc" Duvalier e Bertrand Aristide si fosse combattuta la guerra dei Trent’anni. Gli otto milioni di haitiani vivono con un reddito medio di 600 dollari l’anno e sono i più poveri dell’emisfero occidentale, due terzi di loro sopravvivono solo grazie ad un’agricoltura di sussistenza, mentre i pochi prodotti da esportazione sono i manghi, il caffé, canna da zucchero, legname. Per fare un esempio di quanto sia paradossale la situazione, sulla stessa isola, dall’altra parte del confine, gli abitanti della Repubblica Domenicana hanno un reddito medio pro-capite di 8200 dollari l’anno, più di dieci volte superiore. Naturalmente, la distribuzione del reddito è ineguale in entrambi i Paesi, ma, per dare misura di come la vita sia meglio su un lato dell’isola, basti ricordare la massa di haitiani che passano illegalmente il confine per andare a lavorare nei campi di canna da zucchero. L’Ottanta per cento della forza lavoro non ha un occupazione formale, circa la metà degli haitiani sono analfabeti e il 22 per cento è sieropositivo. Guardando all’indice di sviluppo Onu, Haiti è al 148esimo posto su 179 Paesi, ma sull’isola tropicale non è in corso una guerra, non c’è una carestia e non è in corso la desertificazione. Com’è possibile tutto questo? La storia dell’isola dove con più forza si sente l’eredità dello schiavismo - la popolazione parla un creolo francese e metà degli haitiani praticano il voodo - è una storia di dittatura. Dopo le prime elezioni a suffragio universale, nel 1957 giunse al potere Francois "Papa Doc" Duvalier che nel 1964 si dichiarò presidente a vita. Alla sua morte, nel 1971, Duvalier fu succeduto dal figlio diciannovenne Jean-Claude (detto "Baby Doc"). Il giovane neo-presidente, a vita anche lui, rimase al potere per quindici anni e venne deposto nel 1986 dopo una serie di sanguinose rivolte contro il governo, che usava i temibili Tonton Macoute, le milizie paramilitari che rispondevano direttamente al dittatore e prendevano il nome da uno spirito cattivo che rapisce i bambini. Nel 1991, Jean Bertrand Aristide fu il primo presidente haitiano eletto democraticamente, ma fu deposto poco dopo da un colpo di stato. Seguirono tre anni segnati dal brutale controllo di una giunta militare. Nel 1994, l’intervento americano riportò Aristide al potere. Due anni dopo, Aristide fu succeduto da Renè Preval e ritornò al potere nel 2001. Tre anni dopo, il governo di Aristide fu deposto da un colpo di stato di ribelli e il presidente fuggì all’estero. Dovettero intervenire militarmente gli Stati Uniti per riportare l’ordine nel Paese nominando un giudice della Corte Suprema come presidente. Le elezioni del 2006 riportarono Renè Preval alla presidenza. Anche in quel caso, le elezioni furono segnate dalla rivolta dei sostenitori di Preval, che denunciò frodi e riuscì ad ottenere la vittoria al primo turno. In un panorama segnato da tanta instabilità e assenza totale di governo non c’è da meravigliarsi se Haiti sia ridotta allo stremo anche dal punto di vista idrogeologico. La mancanza di lavori pubblici e di forestazione, ha reso forse le conseguenze del terremoto più devastanti. Così come le mura di cinta che proteggono le ville, crollate sulle strade, a seppellire la gente in strada. m. mazz. Gli ospedali sono distrutti «Stefano ci ha detto di aver visto un numero incredibile di cadaveri per le strade». Kostas Moschochoritis, direttore generale della sezione italiana di Medici senza frontiere , nonostante le difficoltà è costantemente in contatto, via satellite, con la capitale haitiana sconvolta dal sisma di martedì. Stefano di cognome si chiama Zannini, ed è uno dei coordinatori a capo della missione di Haiti, dove già dal 1991 Msf offre soccorso medico gratuito - in un paese dove la sanità si paga e un cesareo d’urgenza può costare 300 dollari. L’Ong, Nobel per la pace nel 1999, opera con il suo personale in oltre 60 paesi ed è la più grande organizzazione medico-umanitaria indipendente al mondo. Fino a due giorni fa a Port-au-Prince Msf gestiva tre strutture, il centro traumatologico di Trinité, un ospedale materno-infantile e un pronto soccorso nello slum di Martissant, uno dei quartieri più poveri della città. Non è la prima volta che l’ong interviene in zone colpite da grandi sismi. «L’anno scorso abbiamo portato aiuto sull’isola di Sumatra e nel 2005 eravamo nel Kashmir pakistano a curare le vittime del terremoto», ricorda Moschochoritis. «Abbiamo maturato una certa esperienza». Prima di tutto, qual è la situazione che vi siete trovati di fronte il giorno dopo il sisma? Grazie ai nostri operatori in loco, che si sono mossi subito per le strade della capitale Port-au-Prince, con il passare delle ore abbiamo disegnato un quadro via via più preciso della situazione sanitaria drammatica che sta vivendo Haiti. Le nostre strutture, due ospedali e un centro di primo soccorso, sono inagibili: l’ospedale della Trinité è completamente distrutto, mentre gli altri due impianti sono fuori uso. Questo è il vero problema, che non riguarda solo le nostre strutture: gli ospedali e i centri medici sono quasi tutti fuori uso». Come accogliete i feriti, allora? Abbiamo allestito delle tende nei cortili dei due centri medici non totalmente crollati, dove garantiamo le prime cure ai numerosi feriti che continuano ad arrivare nonostante le strutture siano inagibili. Abbiamo inoltre iniziato a curare alcune persone nelle stanze e nei corridoi dei nostri uffici, come si usa fare in situazioni di grande emergenza. Per ora stiamo andando avanti con gli stock di riserva accumulati nella capitale haitiana. Ma finiranno presto. A breve, probabilmente oggi stesso (ieri, ndr), partirà altro materiale medico dagli Usa, dal Canada e anche da Panama, dove Msf ha una base logistica per le emergenze. Abbiamo spedito un ospedale da campo con 100 posti letto per accogliere i tanti feriti, sette tende per i ricoveri e un’unità chirurgica gonfiabile con due sale operatorie - tra l’altro prodotta in Italia». Su quanto personale potete contare ad Haiti? Impossibile dirlo ora con precisione: prima del sisma con Msf lavoravano 800 persone, in gran parte haitiani. Non sappiamo quante di queste siano ferite. Molti stanno cercando i parenti dispersi. Comunque nei prossimi giorni altri 70 operatori umanitari raggiungeranno Port-au-Prince per portare il loro contributo». Che tipo di interventi medici sono più richiesti in situazioni simili? Ci sono molte fratture da comporre, ovviamente, poi sindromi da schiacciamento. Ma stiamo trattando anche tanta gente bruciata, con ustioni gravi, perché gli haitiani usano bombole a gas per cucinare, che con il collasso degli edifici sono esplose, incendiando quello che c’era intorno. E’ poi molto importante che i feriti, dopo essere stati estratti dalle macerie, siano sottoposti a dialisi per 24-48 ore: la sindrome da schiacciamento spesso provoca insufficienza renale che può causare la morte dei pazienti tratti in salvo. Per questo stiamo inviando anche macchine per la dialisi e medici nefrologi Nelle ore successive al sisma Msf ha preso in cura più di mille persone e ha subito iniziato una raccolta fondi per finanziare gli interventi. Normalmente non apriamo sottoscrizioni in così breve tempo, perché prima cerchiamo di raggiungere le zone colpite da catastrofi per capire cosa serve - ci confida Moschochoritis concludendo - «Questa volta la situazione è diversa: sappiamo che le nostre strutture sono distrutte e i nostri operatori locali ci hanno aiutato a capire cosa sarebbe servito». Matteo Alviti
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