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Traffici di rifiuti tossici |
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Angela Mauro
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Ci sono regioni che raramente finiscono in cronaca nazionale, anche quando sarebbe il caso. E sono regioni che, proprio perchè dimenticate, si candidano automaticamente a luogo ideale per affari illegali e traffici di rifiuti tossici e anche radioattivi. Regioni dove negli anni, periodicamente, gli allarmi sono scoppiati per poi finire in bolle di sapone, inascoltati e con strascichi di interrogativi. Il ritrovamento di un relitto che si suppone carico di rifiuti nocivi, forse anche radioattivi, al largo di Cetraro in Calabria ha finalmente regalato un tassello di concretezza a una storia - quella delle "navi dei veleni" - che ormai al sud aveva assunto contorni di leggenda, da tempo raccontata ai pm dal pentito di ’ndrangheta Francesco Fonti, mai circostanziata da dati reali, perchè mai ricerche appropriate sono state condotte. La scoperta negli abissi di questo pezzo di Mediterraneo di quello che sembra essere il Cunsky, affondato apposta - dice il pentito - per seppellire in mare rifiuti di cui ci si è sbarazzati con l’aiuto della criminalità organizzata, è servita almeno ad accendere qualche riflettore sul caso Calabria. Ma Fonti parla anche di altre navi, circa 30, due delle quali affondate al largo della costa ionica lucana, tra Metaponto e Pisticci. E parla anche di fusti di rifiuti nocivi sepolti sulla terra ferma, dalle parti di Bernalda, nel materano. Ora, se di Calabria si parla - grazie alla caparbietà della procura di Paola nelle indagini sul Cunsky - se da lì l’assessore regionale Greco si muove per chiedere al governo fondi per recuperare il relitto, dalla Basilicata continua a muoversi poco o nulla. Eppure potrebbe essere lì, all’Enea di Rotondella (Matera), il "centro di smistamento" dei traffici illegali di rifiuti, secondo le dichiarazioni del pentito (ammesso che sia del tutto attendibile) e secondo le passate inchieste del capitano Natale de Grazia, che indagava su quei traffici, morto in circostanze sospette nel ’95. Ieri a Roma qualche riflettore su questa "regione dimenticata", la Basilicata, lo hanno accesso i Radicali. Nel giorno della visita del presidente della Repubblica a Matera, hanno tenuto una conferenza stampa alla Camera per denunciare quello che ritengono essere «un caso nazionale, degno della massima attenzione». «E’ più difficile indagare in mare, ma su quello che succede sulla terraferma se si vuole si sa tutto», dice il Radicale Marco Cappato che parla di «emergenza per una situazione ambientale criminale con una responsabilità politica. Le nostre denunce non hanno ottenuto risposta dagli amministratori regionali». Nello specifico, la denuncia non riguarda la vicenda delle "navi dei veleni", ma un’altra storia di smaltimento illegale di rifiuti e di inquinamento ambientale in Basilicata. Al fianco di Emma Bonino, la presenta Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani. Si parla dell’area industriale di Tito Scalo (Potenza), dove «250mila tonnellate di fanghi industriali sono state interrate nell’area ex-liquichimica della cosiddetta "vasca fosfogessi"», materiale usato per la produzione di fertilizzanti e detergenti. Storia vecchia. Il punto è che dal 2001, anno in cui quello di Tito fu definito "Sito di bonifica di interesse nazionale", nulla si è mosso per ripulire l’area. Un incontro al ministero dell’Ambiente a dicembre dell’anno scorso ha constatato la presenza nell’ambiente di trielina «in concentrazioni tali da ipotizzare la presenza del prodotto libero in falda» e denunciato che «a distanza di tre anni e mezzo - recita il verbale - le aziende e gli altri soggetti interessati hanno dimostrato limitato interesse e volontà nell’adoperarsi per conoscere e quindi, ove possibile, limitare la diffusione dell’inquinante che rappresenta un rilevante pericolo per la salute umana». Bolognetti: «E’ da qui che siamo partiti per svolgere la nostra inchiesta. Vogliamo sapere dal ministero chi sono queste aziende e questi soggetti. Inoltre ci chiediamo perchè parlano solo di trielina, che costituisce solo lo 0.1 per cento dei veleni presenti nella vasca dei fosfogessi. Ci chiediamo chi abbia stoccato i fanghi, data la mancanza di chiarezza nei formulari sul trasporto di quei rifiuti». Non solo Tito. C’è anche il caso della Fenice di Melfi, inceneritore di proprietà della francese Edf, impegnato da un decennio a bruciare ogni anno 65mila tonnellate di rifiuti urbani e industriali. La denuncia dell’Arpab sulla presenza di trielina, mercurio e altre sostanze nocive nelle acque del vicino fiume Ofanto risale al marzo scorso, ma la situazione di inquinamento è certamente precedente visto che lo stesso coordinatore provinciale dell’Agenzia regionale di protezione ambientale, Mauro Bove, ammette, al Tg3 regionale, che l’ente era «a conoscenza dei livelli preoccupanti di mercurio nella falda dal marzo 2008, ma non spettava a noi lanciare l’allarme». E a chi? Secondo Bove alla Fenice, che non l’ha fatto. «Assurdo», conclude Bolognetti citando uno studio dell’Istituto superiore di Sanità, pubblicato a gennaio, secondo cui «l’incidenza delle malattie tumorali tra i lucani è superiore a quella delle regioni sicuramente più industrializzate del nord». In regione intanto qualche riflettore si accende proprio sull’Arpab, colpevole, secondo l’Organizzazione Lucana Ambientalista (Ola), di omissione di atti d’ufficio non solo sul caso Fenice ma anche a Viggiano (Potenza), area delle estrazioni petrolifere lucane e interessata da «livelli allarmanti» di biossido d’azoto nell’aria. «L’Arpab va commissariata», dice la Ola. |
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