L’Italia della crisi
 











Spezzatino Mediaset
Le prime avvisaglie di qualcosa che stava per succedere in Mediaset le abbiamo avute quando abbiamo notato che sempre più frequentemente le produzioni venivano affidate in appalto alle società detentrici di format (Endemol, Fascino, Triangle ecc.) che prima si occupavano soltanto di contenuti e staff artistico.
Via via nel tempo questi appalti hanno cambiato formula e sono diventati appalti così detti "a pacchetto chiuso", cioè non solo format e cast artistico, ma anche la parte redazionale e tecnica vengono affidate in appalto e, molto spesso, parti consistenti della produzione finiscono in sub appalto.
I nostri colleghi di tutti i settori venivano sempre più marginalizzati ad attività di secondo piano. Non c’era più "turn over" già da parecchio tempo. I settori man mano venivano privati del personale con varie procedure, fin quando non ci accorgevamo che parti intere della lavorazione venivano
affidate ai services. Quando chiedevamo il reintegro del personale quasi ci ridevano in faccia. E qui è nato a maggio 2009 il primo sciopero (solo a Roma) contro questo depauperamento, che tra l’altro a nostro avviso era anche più dispendioso (doppi direttori di produzione ecc.). Non fu uno sciopero preventivo, e tanto meno preconcetto, quello di maggio: per noi era già chiara la volontà dell’azienda di non ritenere più fondamentale per il gruppo l’attività produttiva diretta. Avevamo gli studi fermi, ma a Cinecittà affittavamo più o meno 5 teatri per tutto l’anno.
Adesso l’Azienda è venuta allo scoperto. Comincia a spezzettare i settori per liberarsene. Comincia a chiamare i reparti di trucco, acconciature e sartoria "rami d’azienda" e a ritenerli "non caratteristici" della produzione. Opinione non poco bizzarra, anche in considerazione del fatto che nei giorni successivi a questa dichiarazione il nostro paese ha ottenuto la nomination per l’Oscar con "Il divo" di Sorrentino,
guarda caso, proprio per il trucco!
Quello che ci ha preoccupato maggiormente è stato l’emergere della rappresentazione di un progetto d’impresa in cui l’azienda da produttore di contenuti si trasforma in un semplice gestore di piattaforme: tagli alla produzione da un lato, dunque, e dall’altro oltre un miliardo speso in dicembre per acquistare in Spagna il 100% di rete Cuatro e il 22% di Canal Plus: la metà in trasferimento di titoli e l’altra metà in contanti!
Nel gruppo i capitali, dunque, ci sono, ma se questo è il progetto la maggior parte delle professionalità in Azienda si possono considerare ormai non più "caratteristiche".
Abbiamo subito capito che questa operazione era una specie di cavallo di Troia per spezzettare tutta l’azienda. Perciò, appena l’Azienda ha avviato la procedura di cessione abbiamo reagito con due giornate di sciopero a livello nazionale con presidi davanti alle sedi. Lascio immaginare i sentimenti delle 56 lavoratrici interessate alla cessione. E’
da Natale che vivono una forte preoccupazione per il loro futuro; molte di loro hanno creduto in questa azienda e nel proprietario, ma ormai, nonostante le rassicurazioni aziendali, pensano sia l’anticamera alla precarietà e cominciano a ricredersi.
Nonostante abbia aderito la quasi totalità dei dipendenti dei settori produttivi delle tre principali aziende Mediaset (Rti, Videotim, Elettronica Industriale), dello sciopero non si è accorto nessuno perché l’Azienda si è premunita preregistrando i programmi e mandando in onda Tg incompleti con l’aiuto, però dei quadri aziendali. Una eco mediatica si è avuta lo stesso grazie ai giornali ed alcune tv e soprattutto internet.
Siccome questo non è stato sufficiente, le assemblee dei lavoratori hanno decretato un’altra giornata di sciopero con presidio a piazza Montecitorio davanti al Parlamento dove sono intervenuti diversi deputati per prendere informazioni sulle motivazioni della protesta. Adesso siamo in una fase di confronto per
capire meglio le intenzioni dell’Azienda. Contemporaneamente si stanno mobilitando i lavoratori delle troupes di scena delle fiction e dei film tv colpite dai tagli e i lavoratori degli appalti del "broadcast" (il Coordinamento lavoratori Broadcast, ovvero free lance, lavoratori precari del settore) annunciano di prepararsi a fare altrettanto. Se lo faranno siamo certi che solidarizzeremo con loro.
Questa operazione ha colto di sorpresa molti lavoratori. Nessuno si aspettava questi provvedimenti in una azienda che va bene e si vanta di non esser stata colpita molto dalla crisi. Una azienda di circa 4mila dipendenti con introiti quasi pari a quelli Rai che però mantiene circa 13mila famiglie di lavoratori.
La riflessione che si può fare va anche fuori dell’ambito aziendale, perché questa è una strategia che stanno adottando molte aziende con il complice aiuto di questo Governo (legge 30 ed altro). L’obiettivo è la precarietà istituzionalizzata: lavoro a chiamata, azzeramento dei
costi della mano d’opera ecc. ed è anche un modo per ottenere quello che non sono riusciti a fare tentando l’abrogazione dell’art. 18. Con il lavoro parcellizzato in piccole aziende facilmente ricattabili, ed impermeabili all’attività sindacale. Lavoratori più sottomessi ed in perenne concorrenza tra di loro.
La via di uscita è nella sensibilizzazione di tutti i lavoratori del settore, con la cui compattezza si potrà riguadagnare quel potere contrattuale che si è perso.
L’iniziativa tempestivamente promossa dalle organizzazioni sindacali e dalle Rsu ha voluto coinvolgere fin dal primo momento tutto il gruppo, non solo di Videotime che subisce lo scorporo del così detto "ramo d’azienda". Una adesione di tali proporzioni non si era mai verificata in precedenza in nessuna azienda del gruppo Mediaset e i lavoratori sono decisi a non mollare.
Significativa è stata anche la solidarietà attivamente espressa dai giornalisti: le redazioni di Tg 5, Tg 4, Studio Aperto, SportMediaset,
TgCom, VideoNews, hanno tolto tutte le firme dai servizi in occasione dello sciopero e della manifestazione a Montecitorio del 20 gennaio.
Il giocattolo si è rotto: l’azienda senza conflitto non c’è più.
Per ora la nostra lotta ha ottenuto il congelamento della cessione del ramo d’azienda almeno fino al 22 febbraio ed impegni a ridefinire le linee di sviluppo della produzione. Non ancora la revoca del provvedimento di cessione che resta il nostro obiettivo immediato.
Noi proseguiremo la lotta. In questo momento non solo abbiamo le forze per prepararci ad una mobilitazione di lunga durata, ma forse il fronte può allargarsi ulteriormente. Su questa forza adesso sappiamo che possiamo contare per cambiare il corso delle cose. Evelino Bemportato
Ieri le mondine, oggi i braccianti africani. E’ sempre sfruttamento...
Intrinseco all’agricoltura. A sud come a nord. Ieri come oggi. Dalle antiche mondine vercellesi agli odierni mungitori
indiani di vacche nel casertano. Dai "cafoni" pugliesi d’inizio 900 ai braccianti africani nella Calabria dell’anno domini 2010. Uniti da un comune ed impietoso denominatore: lo sfruttamento. Condito anche di disprezzo. Lavoratori avvolti nella solitudine e nell’indifferenza. Uomini e donne le cui esplosioni di rabbia assurgono a "rivolte" a un sistema iniquo ed odioso che li mercifica, concupiscente quanto alla loro prestanza fisica. Ma maniacalmente avaro circa l’essenza, l’architrave di ogni rapporto di lavoro: la retribuzione. Difficilmente giusta, spesso inversamente proporzionata alla quantità e la qualità del lavoro e quindi insufficiente ad "assicurare un’esistenza libera e dignitosa", come richiede la Costituzione repubblicana.
La recente rivolta dei braccianti di color ebano a Rosarno ha avuto il merito di aver riportato in auge un dramma che coinvolge quotidianamente decine di migliaia di lavoratori: il sommerso. Abbinato allo sfruttamento estremo. Talvolta in situazioni
di autentica riduzione in schiavitù, non dissimili dalla settecentesca Virginia delle piantagioni di cotone.
La rappresentazione comune vuole che chi lavora la terra sia una persona incolta, senza bagaglio culturale. Il quadro peggiora se si tratta di uno straniero. Quasi fosse una non-persona. Così da negargli perfino quella dignità di cui è portatore ogni essere umano, a prescindere dalla sua condizione sociale o dalla sua estrazione antropologica.
Nella recente vicenda di Rosarno, così come in quella di Villa Literno alla fine degli anni ’80, si è subdolamente insinuato che fossero gli stessi lavoratori stranieri a "scegliere" di vivere in condizioni a dir poco stomachevoli. Quindi preferirebbero accontentarsi di fabbriche dismesse ricoperte di amianto o di catapecchie sbilenche di cartoni e plastica. Una colossale baggianata! Perché è il salario a determinare la condizione di vita e mai l’inverso! Altrimenti, non si capirebbe perché mai il raccoglitore di fragole magrebino
di Parete, in provincia di Caserta, non possa andare ad alloggiare in un condominio nuovo di zecca se ne avesse la possibilità. Giacché la migrazione stessa comporta in sé la voglia di migliorare il proprio tenore di vita. Allo stesso modo, se non fosse per altro, si reputerebbe "puro snobismo, con overdose di stravaganza" il bivacco in teloni, fatti di scarti di materiale d’imballaggio, nei quali si riparano i braccianti a San Severo in Puglia, durante la raccolta del pomodoro.
La pungente verità è che i lavoratori immigrati sono particolarmente vulnerabili e ricattabili. Senza voce in capitolo. Sprovvisti di quegli strumenti in grado di far echeggiare le loro istanze, che vengono volutamente ignorate e cestinate.
Quella del sommerso nel settore primario è una metastasi che non riguarda soltanto le aree meridionali del paese. Il flagello è diffuso su tutta la penisola. E investe anche le cosiddette "aree virtuose" del paese, come l’Emilia Romagna. Nel distretto agro-industriale
di Parma, i migliori brand merceologici, ovvero prosciutto e mortadella, non sono del tutto esenti dal ricorso al lavoro nero nel loro processo di lavorazione. Il meccanismo è semplice: si chiama esternalizzazione. Cioè l’affidamento a terzi di alcune fasi del processo di produzione. Nella fattispecie, l’esternalizzazione riguarda la macellazione delle carni. Le imprese che si vedono "subappaltare" la macellazione rivestono la forma giuridica di cooperative e, spesso, hanno un’aspettativa di vita molto breve. Curiosamente, i soci che le promuovono sono sempre gli stessi. Cambiano le ragioni sociali, mai i capostipiti! E hanno una certa preferenza per il personale orientale (pakistani, indiani, ecc.). Gente mite e laboriosa, spesso ignara delle più elementari regole di sicurezza sul lavoro. E, soprattutto, sottopagata. Le conseguenze di scelte così sciagurate sono agevolmente intuibili: si registra un’impennata d’infortuni durante la macellazione.
La strada per un settore primario
"black work free" è ancora lunga. Ed in salita. Ma il suo accorciamento passerà imperativamente, al di là della rigorosa applicazione delle leggi, attraverso l’adozione e la condivisione di un codice etico. La sfida che attende le aziende sarà di garantire che non si avvalgono di sommerso nei loro processi di produzione. Una scelta coraggiosa che va nell’interesse dei lavoratori, delle aziende stesse e del sistema-paese.
membro del Coordinamento migranti della Flai-Cgil- Jean Renè Bilongo
Così abbiamo riscoperto i valori operai
Non è facile parlare di quello che è successo in Fincantieri e dei risultati che un coordinamento nazionale Fiom unito è riuscito a portare ai lavoratori. Bisogna spiegare perché Fincantieri è stato ed è tuttora un laboratorio per tutta la Cgil, e per le città che ospitano gli stabilimenti. E bisognerebbe spiegare perché non sono gli eventi clamorosi - che pur ci sono stati - ad aver fatto portare a casa i
risultati, ma sono state tante piccole cose quotidiane, il rapporto costruito con i compagni di lavoro, la fiducia, la ritrovata consapevolezza che hanno permesso le cose che poi vanno a finire sui mass media. In Fincantieri c’è tutto il percorso della Fiom, che credo sia iniziato almeno dieci anni fa, costruito quotidianamente, iniziato quando oramai era troppo chiaro dove stavano andando le nuove politiche economiche, e i lavoratori senza rendersene conto, ma vivendolo sulla loro pelle, capirono perfettamente quale futuro spettava loro. Il primo che ricordo è il contratto separato, diventato famoso come quello delle 15mila lire dove si è difeso, oltre che il salario, l’indipendenza sindacale e dove soprattutto ci si rese conto del bisogno primario della democrazia, quindi del diritto per i lavoratori a votare, quindi del referendum. Poi un altro contratto separato, la continuazione delle lotte, «tu padrone decidi con gruppi dirigenti che pensano solamente all’autoconservazione e noi in fabbrica continuiamo a farti perdere produttività». A questo punto il coordinamento Fincantieri decide di portare a casa quel contratto nel secondo livello, no alla "legge 30" e 28 euro di aumento come quota recuperata. Ma lì c’era un’altra tegola: la sanità integrativa nazionale. Discutendo alla pari si è creata una cultura comune e gli strumenti sono stati proprio i vari referendum. E’ cosi che in Fincantieri abbiamo riscoperto i valori comuni al mondo del movimento operaio. E’ chiaro che a questo punto non poteva passare uno scellerato progetto di quotare in borsa l’azienda, cioè la privatizzazione di Fincantieri. In sostanza una operazione di puro profitto, inaccettabile per un’azienda che rappresenta l’economia del territorio. In questa vertenza, la Fiom è uscita dai cancelli della fabbrica per creare una rete, con le associazioni, cittadini, pensionati e amministrazioni locali, e oggi possiamo dire che i lavoratori hanno fatto la scelta industriale più giusta. Nel penultimo contratto nazionale era sembrato per un attimo che tra le tre organizzazioni sindacali, Fim Fiom e Uilm, si fosse trovato un modo per stare insieme, anche con due diverse idee di sindacato. Fim e Uilm di mercato universale; per la Fiom sembrava che la soluzione per stare uniti fosse, quella ovvia, di far decidere i lavoratori con i referendum. Poi si inizia con il contratto integrativo aziendale in Fincantieri: ed ecco che arriva il salto all’indietro. Gli altri firmano l’umiliazione dei lavoratori. Noi continuiamo le lotte, ma quella era soltanto la prova generale di quello che faranno i nuovi assetti contrattuali. Infatti nell’ultimo contratto nazionale gli altri (la Fim e la Uilm) firmano, strumentalizzando la paura per la crisi. L’ultimo fatto grave: il non rispetto da parte di Fincantieri del punto del contratto di secondo livello di pagarci 750 euro «indipendentemente dai risultati raggiunti», cioè salario fisso, che in qualche maniera contraddiceva le nuove regole firmate da Cisl e Uil, che prevedono solo salario variabile. La provocazione era troppo grande. I lavoratori hanno deciso di non consegnare ciò che avevano creato con il loro lavoro. Quindi, blocco della consegna nave. Per due volte il cantiere per giorni è stato in mano ai lavoratori. La prima volta, lo sciopero a singhiozzo e la serrata dell’azienda con i lavoratori che non hanno accettato di andarsene a casa e sono ritornati a lavorare anche se la direzione spegneva le luci e gli impianti con i capi che sollecitavano i lavoratori ad andare fuori perché così gli era stato ordinato. La seconda volta, il blocco della nave con i rappresentanti dei lavoratori che discutono direttamente con il cliente anche per i futuri carichi di lavoro. Questa è una carrellata veloce delle battaglie, ma ci sono poi tante cose sui singoli stabilimenti. Da noi, ad Ancona: le gru cadute per imperizia, le lotte per gli investimenti per farle riparare, i contatti settimanali con le istituzioni per sapere a che punto erano i finanziamenti e i permessi per la costruzione della nuova banchina e gli spogliatoi. E non ultimo, la sicurezza. Una continua battaglia, senza dimenticare il 5 agosto 2005, un totale shock per la morte sul lavoro di un nostro compagno. Un episodio gravissimo che ha creato le condizioni per trovarci uniti anche con i lavoratori degli appalti. Perché in un paese civile queste cose sono inaccettabili.
Rsu Fiom, Pescara- Michele Giacché
La lotta per la casa del Comitato 12 Luglio
Senza fine. E’ la storia dell’emergenza abitativa a Palermo. Come raccontarla se non partendo da ciò che forse ne è l’emblema e l’aspetto più drammatico, i containers.
Marzo 2008: in un’area depressa e periferica della città circondata dal filo spinato e dietro il cartello "Unità di Crisi", viene scaricata della ghiaia e piazzati 24 containers ereditati dal terremoto della Valle del Belice - con in premio amianto e lana di vetro - ridipinti e
"ristrutturati" per la modica cifra di 520mila euro. Un affare. Ma ancora una volta non per i senza casa, per i quali arriva solamente una nuova, ennesima umiliazione.
Il paradosso di questa storia purtroppo è che in una città corrosa dalla rassegnazione e da un’atavica sfiducia nelle istituzioni, dove i diritti non si rivendicano né si pretendono, ma sono "favori" da domandare agli amici degli amici e da ottenere (forse) in cambio di voti, succede che invece di indignarsi e gridare il proprio diritto a un tetto vero, alcune famiglie hanno deciso di occupare i containers appena sistemati per timore di non rientrare nella loro assegnazione (visto che in due settimane a fronte di 24 containers le domande di assegnazione erano già più di 70). A queste famiglie fu promesso che vi sarebbero rimaste non più di un paio di mesi, e che il passaggio dai containers sarebbe stato un canale preferenziale per rientrare nelle future assegnazioni di case. Oggi, a due anni di distanza, quelle
famiglie sono ancora lì, tra fogne a cielo aperto, con l’acqua che manca continuamente, in condizioni climatiche pessime (il caldo e il freddo lì sono intollerabili) che li costringono ogni inverno a fare la staffetta in ospedale per ricoverare i bambini per assideramento e in estate a ripararsi dai morsi di pulci e zecche, stando sempre attenti a ratti e vipere che dimorano in pianta stabile nel campo insieme a loro.
E questa è Palermo, rassegnata e sfiduciata. E questa è una storia vecchia quanto le sue dominazioni, da sempre lontane dalla popolazione, dalla sua partecipazione, dall’interesse per il suo bene.
La parte nuova di questa storia è che da circa 8 anni esiste a Palermo un Comitato autonomo di lotta per la casa, il "Comitato 12 Luglio", nato dallo sforzo e dalla volontà di alcuni senza casa che il 12 luglio del 2002, giorno del festino di Santa Rosalia, decisero di occupare la Cattedrale in festa scegliendo di emergere dalla rassegnazione e manifestare non solo la
stanchezza di vedersi da anni negato il loro diritto alla casa, ma la volontà di denunciare, di non accettare ricatti e di lottare per il riconoscimento di quello che è un diritto e non un favore.
Da allora il Comitato è molto cresciuto, sia dal punto di vista politico che della riconoscibilità in città: molte famiglie - moltissime per Palermo - hanno lottato e continuano a lottare (qualcuna anche dopo aver ottenuto l’assegnazione di un alloggio) con il Comitato 12 Luglio e molti risultati sono stati ottenuti.
Il Comitato, supportato e rinforzato da un’ampia Rete di Sostegno cittadina, ha deciso di impostare la propria lotta seguendo e intrecciando due percorsi complementari: la protesta e la proposta.
Da un lato quindi la proposta (e la denuncia), mostrando che le soluzioni all’emergenza abitativa in realtà ci sono, e possono essere rapide, soddisfare tutte le famiglie e risolvere contemporaneamente più problematiche della città. C’è la possibilità dell’autorecupero, che non
solo garantirebbe un alloggio a chi ne ha diritto, ma servirebbe anche a salvare dal degrado e dal rischio di crollo di tutte le palazzine inagibili e abbandonate di proprietà pubblica del centro storico, senza bisogno di svenderle ai privati e garantendo un impiego a molti dei senza casa disoccupati i quali, costituiti in cooperativa, lavorerebbero direttamente al recupero del loro alloggio. Ci sono poi i beni confiscati alla mafia e, dopo lunghe trattative, infiniti presidi e manifestazioni, si è riusciti a ottenere la possibilità di destinarli a uso abitativo per l’emergenza dei senza casa: con questo enorme patrimonio immobiliare, non solo si potrebbe risolvere una volta per tutte il problema abitativo, ma si agirebbe anche una importante ed efficace in quanto concreta pratica di antimafia sociale.
Tante proposte, innumerevoli incontri al Comune, in Prefettura, infinite trattative e tavoli tecnici, nessuna risposta di fatto.
Niente di nuovo del resto: siamo a Palermo e qui si
smette presto di credere alle favole. Noi però la nostra parte l’abbiamo fatta e soprattutto, continuiamo a fare il nostro lavoro di controinformazione in città, denunciando quante e quali soluzioni ci sono, il perché non vengono messe in pratica, e lanciando continue campagne contro il voto in cambio di diritti.
Dall’altro lato, complementare alla proposta, la protesta. Due principi alla base. Numero uno: essere presenti in città per farsi sentire, riconoscere e non calare mai la pressione sulle istituzioni, anche con azioni eclatanti come l’occupazione, a volte per settimane, dell’aula del Consiglio comunale, della Cattedrale, dell’Assessorato agli Interventi abitativi, di strutture pubbliche di vario genere. Numero due: ciò che ci spetta è ciò che ci prendiamo. Quindi, d’accordo ai tavoli di trattativa, va bene le occupazioni simboliche e le manifestazioni, ma rimane che senza un tetto non si può andare da nessuna parte («Devo avere una casa per andare in giro per il mondo»,
canta Militant A). Perciò l’occupazione di immobili pubblici abbandonati e il loro utilizzo come abitazione per senza casa e asilo per gli sfrattati è una pratica che rivendichiamo come necessaria di fronte alla sordità delle istituzioni: quando la legalità nega dei diritti divenendo illegale, l’atto illegale di occupare beni abbandonati dando un tetto a coloro ai quali viene negato diviene per noi la vera legalità e l’unica che ci sentiamo di riconoscere.
Piazza Guzzetta Occupata nasce così: a ottobre 2008, con una decina di famiglie provenienti da anni di sgomberi e eremitaggi tra alberghi, abbiamo occupato un ex asilo di proprietà regionale, chiuso e inutilizzato da anni.
Per la sua struttura e per la sua posizione centrale in città, Piazza Guzzetta è per noi da pensare come un "albergo delle emergenze", un luogo in cui ospitare le tante famiglie sgomberate, sfrattate e lasciate in mezzo alla strada senza alternative, offrendo loro un riparo e la possibilità di incontrare un
Comitato insieme a cui organizzare la propria lotta e la propria rivendicazione. Molte delle famiglie che vivono adesso nella struttura sono le stesse che hanno occupato, e per loro sicuramente è stato ed è ancora necessario tanto lavoro, fatica e sacrifici per ripulire, sistemare e rendere abitabile una struttura come questa, ma la solidarietà e il sostegno di una larga parte di città sono riusciti ad essere motivo di incoraggiamento e fiducia. Così, ad un anno e mezzo dall’occupazione, Piazza Guzzetta Occupata non è più solo la casa fino ad allora negata, ma è e vuole essere un punto di riferimento e di informazione per tutti coloro che si vedono negati i loro diritti (dalla casa al lavoro), un luogo di incontro e di socializzazione per le famiglie del quartiere, un esempio di concreta integrazione in una città e in un’Italia sempre più razziste (vi abita, perfettamente integrata, una famiglia di senza casa proveniente dal Bangladesh), una base attiva per la promozione, la diffusione e la realizzazione dell’autorecupero in città, uno spazio aperto alla città.
E allora, se i containers sono l’emblema dell’emergenza abitativa a Palermo, Piazza Guzzetta è per noi simbolo ed esempio della lotta e della resistenza di quella parte di città che ha scelto di non rassegnarsi e che con grande coscienza e protagonismo sociale si riprende ciò che gli spetta di diritto e che gli viene negato.
Comitato 12 Luglio