Un governo in fuga dal processo
 







Gaetano Azzariti




Il conflitto d’interessi di questo governo è pervasivo. Non riguarda solo la particolare situazione del presidente del Consiglio e le sue aziende, ma riesce ad inquinare anche la politica in materia di giustizia. Il coinvolgimento in vicende processuali di membri dell’esecutivo fa sì che ogni proposta dell’attuale maggioranza venga giudicata in base a parametri che non è possibile separare da quelli dell’interesse personale. Ciò rende pressoché impossibile una valutazione serena e non falsata delle gravi questioni che attraversano il pianeta giustizia. Così la tragedia della lunghezza eccessiva dei processi – vero cancro del sistema giudiziario italiano – si traduce in una proposta che non tende a curare il male, ma viene invece assunto come pretesto per liberarsi dall’accertamento dei gravi fatti che coinvolgono il presidente del Consiglio. Il cosiddetto processo breve non è un “processo giusto”. Esso garantirà semplicemente che si interrompano molti dibattiti prima del termine, impedendo in tal modo l’accertamento dei fatti, non servirà, invece, ad assicurare, come pretende l’articolo 111 della nostra Costituzione, che le cause si possano svolgere e concludere con una decisione nel merito, nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo e imparziale, entro un tempo ragionevole. E’ la logica della “fuga dal processo” che ispira la riforma del governo, non quella delle garanzie e dell’effettività della giustizia. Qualche sprovveduto, anche tra i banchi dell’opposizione, ha persino teorizzato che fosse legittimo difendersi nel processo, ma anche dal processo. Senza comprendere che ciò rappresenta la morte della giustizia e non la cura dei suoi incancreniti problemi. Egualmente può dirsi sulla questione delicatissima delle intercettazioni. Il problema di una loro utilizzazione disinvolta è reale e riguarda in primo luogo il delicatissimo problema del rapporto tra libertà di stampa (intesa sia come libertà di informare, sia - per l’opinione pubblica - come diritto a essere informati) da un lato e le garanzie degli imputati e la dignità delle persone dall’altro.
La diffusione delle intercettazioni prima della chiusura delle (troppo lunghe) indagini rischia di compromettere questi ultimi, tanto più se si riferiscono a questioni non penalmente rilevanti o che successivamente dovessero rilevarsi infondate. Dunque riflettere su regole più stringenti non sarebbe improprio. Forse, peraltro, basterebbe applicare la normativa vigente relativa al segreto istruttorio per ristabilire un equilibrio spesso stravolto.
Il punto è però che l’attuale governo è anche su questo fronte in conflitto d’interessi e lo scopo principale non è quello di regolare i flussi informativi e l’uso rigoroso da parte dei pubblici ministeri dello strumento ormai diventato il loro principale mezzo d’indagine. L’intenzione è quella di prendere la questione reale e tradurla in un pretesto per depotenziare
la capacità di accertare i reati da parte della magistratura. Permettere infatti – come fa il disegno di legge all’esame del senato - di effettuare le intercettazioni solo nei casi di «evidenti indizi di colpevolezza» e solo se esse sono «assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini e sussistono specifiche e inderogabili esigenze relative ai fatti per i quali si procede», non vuol dire limitare gli abusi, bensì rendere superfluo questo specifico strumento d’indagine, che potrebbe essere autorizzato solo dopo che già sono stati acquisiti solidi elementi di giudizio da parte delle procure. Ma allora perché intercettare?
Anche in questo caso più che risolvere le gravi e reali questioni del sistema giudiziario, semplicemente si elimina il problema. Nella speranza che cancellate le intercettazioni svaniscano anche i reati. Non si possono affrontare così le questioni serie, non si può discutere di giustizia con chi ritiene semplicemente si debba fuggire dai
giudici.