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Il principio di autorità nella musica |
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di Rosario Ruggiero
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Che le virtù dell’interprete siano ben distinte da quelle dell’autore è cosa facilmente dimostrabile. Basterà osservare quante esecuzioni musicali siano più efficaci di quella del compositore stesso (qualora questi non sia anche un grande interprete, come ad esempio era Sergei Rachmaninoff) o, più agevolmente, in ambito letterario, quanto un testo da noi stessi scritto acquisti nella sapiente declamazione di un attore più bravo. Non è solo una questione esecutiva, ossia di maggiori capacità tecniche nel dominio di un’orchestra, nell’uso di uno strumento musicale e nella padronanza della propria voce, ma di scelte di attese, timbri o velocità, che possono rientrare anche nell’ambito delle possibilità tecniche di tutti. Così un grande interprete musicale saprà operare scelte espressive più felici dello stesso autore del brano, anche nell’ambito di composizioni di esecuzione elementare, come un attore saprà farlo con l’intonazione della voce, via via di stupore, gioia, perplessità, timore o altro, anche se quelle intonazioni sono tutte nelle capacità e nell’uso quotidiano di qualunque persona, compreso lo stesso scrittore del pezzo recitato. A questo punto, quando un musicista affronta l’interpretazione di un testo di musica altrui, ha di fronte sia indicazioni che fanno il brano unico ed inconfondibile, quali le note e la loro durata relativa (ossia se suonare do, re o mi e quanto deve durare ogni suono in relazione agli altri, se il doppio, il triplo e così via), ma pure ha di fronte indicazioni atte a rendere il brano più espressivo, come la velocità di scorrimento (segnata con i termini “Adagio”, “Andante”, “Allegro” ed altri), o l’intensità dei suoni (espressa con “pp” per pianissimo, “f” per forte, “ff” per fortissimo, e via dicendo). Ma queste ultime sono anch’esse espressioni della creatività originale dell’autore, o scelte obbligate per la migliore resa del brano? Una particolare scelta di note e la loro durata relativa (per esempio una melodia scritta da Vincenzo Bellini) ha una sola possibilità di velocità di scorrimento ed intensità sonora che la renderà al meglio, divenendo quindi espressione di una verità assoluta della musica, o si presta altrettanto efficacemente a mille differenti possibilità esecutive, diventando di volta in volta, espressione parimenti efficace di diverse personalità artistiche? Alcuni interpreti evidentemente risolvono la questione in questa seconda maniera, da qui una fedeltà assoluta, intransigente e certosina, ad ogni indicazione dell’autore, per quanto possibile. Ed allora all’indicazione “Allegro” la velocità del brano sarà abbastanza elevata, all’indicazione “Prestissimo” sarà massima ed all’indicazione “Grave” sarà lenta. All’indicazione “ff” la sonorità sarà esuberante, all’indicazione “pp”sarà quasi impercettibile, e così via. L’interpretazione si relega sempre più nell’ambito di passiva esecuzione meccanica e la resa del testo diviene documento della volontà interamente arbitraria dell’autore (ma pure, non è da trascurare, dell’esattezza e degli errori con i quali è stato scritto il testo!). Altri interpreti si pongono invece in una posizione più critica nei confronti del compositore, ritenendo a lui incontestabile l’individualità nella scelta delle note e delle loro durate relative, ma riconoscendo al tempo stesso gli altri parametri esecutivi, quali velocità del brano, intensità dei suoni ed altro, in un equilibrio unico, necessario ed obbligato, non soggettivo, tutto da scoprire, e considerando allora le indicazioni di quei parametri messe sullo spartito opinabili suggerimenti dell’autore postosi occasionalmente in veste di interprete della sua stessa musica e quindi, trattandolo alla pari (cioè da interprete ad interprete), si autorizzano eventualmente a dissentire ed agire in maniera anche vistosamente diversa da quanto segnato. Ecco allora che il “Presto” non sarà sempre necessariamente velocissimo, o all’indicazione “p” il suono non sarà sempre tanto sommesso, e così via. Casi del genere sono davvero innumerevoli. D’altronde i più antichi compositori non di rado erano ben più parchi in tale specie di indicazioni. In definitiva, la musica è una verità in tutto e per tutto individuale, o lo è in parte, giacché tutto il resto è in un equilibrio obbligato? Certo se fosse una verità solo individuale non esisterebbe l’interpretazione migliore, una varrebbe l’altra, e far conoscere l’interpretazione suggerita sul testo dallo stesso autore non sarebbe altro che una curiosità, più o meno come sapere quale sigarette quell’uomo fumasse o quale vino bevesse. Una verità, tra l’altro, legata al particolare momento, giacché nulla ci vieta di supporre che in un’altra occasione l’autore avrebbe inteso il suo stesso pezzo diversamente. Ma forse la musica, e l’arte tutta, anche la composizione, è qualcosa di più, è un messaggio universale, seppur vestito di soggettività, che tocca l’aspetto comune che è in ognuno di noi, esprime verità assolute e più grandi di noi stessi, sì che, scoperte, ci pongono felicemente in comunione con tutto il creato. È incontestabile che il grande interprete esiste e quanto più si avvicina a quelle verità assolute tanto più grande ha il pubblico che lo preferisce e lo elegge rispetto all’interprete che gli è inferiore. La storia ci insegna che principi e precetti anche scientifici (quanto dire oggettivi per eccellenza), non contestati criticamente in virtù dell’autorità dell’assertore, si sono rivelati erronei fermando lo sviluppo della scienza anche per secoli, ma infine sono stati pur riveduti. Solo a Dio la fede riconosce assoluta infallibilità, e a tutt’oggi non è nato ancora musicista, o autore di scritti sulla musica, che cammini sulle acque. |
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