Per uscire dal berlusconismo porre le domande giuste
 







Guido Caldiron




-Rispetto alla discussione attuale c’è un modo ottimistico e uno pessimistico di guardare alle cose. Gli ottimisti dicono: "Ci sono i segni della caduta di Berlusconi, cosa succederà dopo?". Personalmente però, dando una lettura pessimistica della realtà italiana di oggi, credo ci si debba anche chiedere "Che cosa succederà se Berlusconi non cade"? Se il ceto politico che governa ora - se Berlusconi - riesce a superare anche l’attuale bufera, credo che ci si debba aspettare un’ulteriore accelerazione verso mutamenti radicali nel modo di essere della nostra democrazia. Perciò la domanda da porsi in questo momento, a mio avviso, non è tanto "se cade", quanto piuttosto "se non cade" Berlusconi». Docente di Storia contemporanea, tra i maggiori storici italiani, Guido Crainz ha dedicato alle "radici dell’Italia attuale" il suo ultimo saggio, Autobiografia di una Repubblica . Il libro, ci spiega Crainz, «è uscito a fine settembre, non quarant’anni fa. Allora in molti mi dissero che esprimevo una posizione pessimista, oggi mi sembra quasi una visione rosea della situazione italiana. Nelle conclusioni riprendevo un giudizio di Roberto Saviano sulla "corruzione inconsapevole" come elemento di illegalità diffusa. Beh, di fronte alle cose che abbiamo visto emergere nel frattempo, quella definizione mi sembra perfino troppo blanda». Abbiamo cercato di definire con lui un quadro della situazione italiana, attraverso l’ascesa del "berlusconismo" e quella che ad alcuni appare come la sua crisi attuale.
 A conclusione di "Autobiografia di una repubblica" lei cita Pier Paolo Pasolini che negli "Scritti corsari" e nelle "Lettere luterane" invitava a leggere insieme la degenerazione del Palazzo e quella che definiva come la "mutazione antropologica" del paese. Un’intuizione che appare quanto mai attuale.
Pasolini pensava alle forme assunte dalla modernizzazione italiana quando parlava della "scomparsa delle lucciole" e al modo in cui
si era realizzato il miracolo economico nel nostro paese, vale a dire attraverso un modernismo consumista, sostanzialmente senza valori. E, al tempo stesso, scriveva della "degenerazione del Palazzo" negli anni Settanta, cogliendo un fenomeno che iniziava ad essere molto corposo anche se ancora poco avvertito. All’epoca solo Marco Pannella parlava di "crisi del sistema dei partiti" ed era accusato di essere qualunquista. Pasolini scriveva queste cose tra il 1974 e il 1975 proprio mentre emergeva con lo scandalo petrolifero - che nel ’74 vide indagati i segretari amministrativi dei partiti di governo (Dc, Psi, Psdi e Pri) per aver ricevuto fondi neri dall’Enel e dalle compagnie petrolifere e che portò alle dimissioni del IV Governo Rumor, ndr - il primo caso di tangenti "come metodo", fenomeno che si affermerà in modo pervasivo negli anni Ottanta e Novanta, fino a Tengentopoli. Pasolini aveva così colto un punto centrale della vicenda politica italiana, come avremmo visto solo negli anni a venire.
Pasolini associava la degenerazione del potere all’affermarsi di una società dove il benessere non si accompagnava né alla cultura né tantomeno a una qualche idea di "bene comune". Non crede che anche questo aspetto della riflessione di allora possa tornarci utile oggi?
Certo, il rapporto tra questi due aspetti era e resta fondamentale per capire la situazione italiana. Anche se credo che nella discussione pubblica a cui si sta assistendo in questo periodo stia emergendo una tentazione opposta a quella che si produsse ad esempio nel 1992, al momento di Tangentopoli. Allora si scaricò tutto sul ceto politico e sulla sua corruzione. Si immaginò così una straordinaria Seconda repubblica in cui, una volta liberatisi del sistema del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani), tutto sarebbe andato bene. Ci si accorse invece molto rapidamente che vi era stato un profondo mutamento nel modo di essere degli italiani, e gli anni Ottanta erano stati fondamentali per questo passaggio.
Oggi, al contrario, si assiste talvolta a una sorta di assoluzione della politica: "che ci possiamo fare, se la società è corrotta come può essere la politica?". Insomma un rovesciamento di prospettiva che però è altrettanto pericoloso di quello di allora. Soprattutto perché sembra eludere del tutto una domanda che invece si pone quasi naturalmente: "Dal 1992 quanto ha influito negativamente la politica nel peggiore il sistema Italia"? E’ molto pericolosa l’auto-assoluzione della società civile, ma anche quella della politica.
Nel suo libro lei riprende un’espressione di Edmondo Berselli che ha parlato di Berlusconi come dell’interprete dei «tipi sociologici più diffusi» nel paese. E’ questo che spiega la trasformazione di quello che apparve nel 1994 come un fenomeno passeggero e che si è invece radicato nella realtà del paese?
In molti ricorderanno il senso di spaesamento che ci fu all’indomani della vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994. In realtà se si riguarda al tipo
di socetà che si era affermata nel corso degli anni Ottanta, con anticorpi e contro-tendenze sempre più flebili, quell’esito sembra quasi scontato. Quella società non poteva che ritrovarsi nella proposta politica incarnata da Berlusconi. E questo, non solo e non tanto perché si trattava di una realtà plasmata dalle televisioni, condizione che resta uno degli elementi importanti anche se non quello principale per capire quel periodo, quanto piuttosto per quel prendere piede di una società senza regole, per l’affermazione del privato, del successo personale senza rispetto del bene collettivo e per il depauperamento di ogni etica pubblica. Certo, gli anni Ottanta non sono stati solo questo, ma è evidente come nella recente storia italiana quel periodo rappresenti il vero luogo di incubazione del nostro presente. Sullo Straniero il sociologo Carlo Donolo ha parlato a questo proposito di un "nuovo plebeismo dei ceti medi". Donolo spiega come dopo il ’68 all’interno di una parte degli strati intermedi del paese, che avevano rappresentato dal dopoguerra una sorta di ventre molle della Democrazia Cristiana e del suo sistema di potere, si fosse aperto un processo di rinnovamento che aveva portato alla civilizzazione di una parte almeno della società italiana. Poi, negli anni Ottanta, si è assistito a una radicale inversione di tendenza che ha costruito le basi della situazione attuale: oggi la plebe non sta più a Scampia, ma sta all’interno dei ceti medi, quelli considerati emergenti proprio negli anni Ottanta.
Se la "caduta di Berlusconi", da sola non risolverebbe le cose, quale orizzonte si può immaginare per uscire dalla crisi della nostra democrazia?
La progressiva mutazione antropologica degli italiani che Pasolini aveva rilevato già molti anni fa, mi sembra abbia cambiato completamente i termini della questione. Il dibattito politico ha sempre avuto come tema la capacità o meno di conquistare la maggioranza, mentre invece oggi credo che il problema sia piuttosto
quello di capire come settori civilmente robusti di minoranza possano iniziare a mettere nell’agenda del paese grandi temi. Del resto, lo stesso Sessantotto non è che ha fatto cadere il governo, però ha posto al centro del dibattito del paese dei temi fondamentali. Proprio la consapevolezza di come sia cambiata in profondità la società italiana ci dovrebbe perciò spingere oggi a non ripetere l’errore del 1992, quando ci siamo illusi che con la caduta del vecchio sistema di potere sarebbe stato risolto tutto. Certo, sarebbe importante che cadesse questo governo, ma credo che la vera partita comincerebbe allora.