Teleberlusconismo un racconto totale
 







Marco Revelli




Era in fondo inevitabile che in quel vuoto lasciato dalla generale liquefazione del sistema politico e istituzionale italiano, venisse a dilatarsi fuori misura la funzione del carisma: dell’ingrediente tipico delle fasi di sfaldamento e di dissoluzione di un ordine. E che su quella massa fluida finisse pergalleggiare, come unico punto di riferimento «solido», il corpo del Capo. Perché quello è stato, nel bene e nel male, per i critici come per i fedeli, per i nemici più giurati come per gli amici più servili, il protagonista incontrastato della nuova stagione politica apertasi con l’estate 2008: quel «corpo» e quel «Capo». Quella Figura normalmente impresentabile, sintesi di tutti i vizi etici, di tutte le spregiudicatezze politiche e di tutte le trasgressioni giudiziarie - Berlusconi, appunto, anzi, famigliarmente, «Silvio» -, in cui d’un colpo è sembrata precipitare e rappresentarsi, totalitariamente, l’intera «autobiografia della nazione».
È
stato lui, in questa fase crepuscolare della Repubblica, a raccontare l’Italia. A fare il racconto prevalente - anzi, l’unico racconto legittimo dotato di «corso effettivo» - su chi siamo e cosa siamo diventati. Suo è lo stile narrativo dell’esistente (l’unico esistente ammesso). Suo il linguaggio. Suo l’intreccio e la trama, per sé e per gli altri. Per una sorta di préstige - di ipnosi collettiva - l’intero universo politico italiano, alleati e avversari, sodali e competitors, è stato risucchiato nell’ordine di quel discorso e nelle spire di quel racconto, assumendone disciplinatamente i ruoli e le parole, recitando ognuno la propria parte da brava comparsa, lasciandosi dettare, in forma (quasi) unanime, il lessico e il plot, la grammatica e la sintassi. Potremmo dire, addirittura, che questa si viene rivelando come la vera natura - l’altrimenti inspiegabile fattore di potenza - del «berlusconismo»: il suo carattere di «racconto totale». O meglio, di iper-racconto. Di grande narrazione capace di sostituirsi al reale e di sussumerlo senza residui. Di assorbirlo e trasfigurarlo senza lasciare spazio ad altre forme del racconto stesso. Ad altre varianti della narrazione, che sfuggano ai suoi codici standardizzati, alle sue figure retoriche, e per questa via destinato a presentare il proprio racconto virtuale come realtà reale. Più reale di ogni altro possibile reale.
È una struttura narrativa - non sarà sfuggito - inedita. Radicalmente diversa da ogni altra forma razionale del discorso pubblico, anzi a esse del tutto contrapposta: intessuta di iperboli, di ossimori, di paradossi, destrutturata e fratta. Costruita sulla rottura di tutti i nessi, di causalità e di consequenzialità, e sulla tecnica del rovesciamento. Soprattutto giocata sulla sistematica metamorfosi della voce narrante, inafferrabile e incollocabile in un qualche stabile ruolo, e anzi costantemente mutante secondo una successione di piani e di personalità diverse, in cui si passa
repentinamente dall’invettiva alla seduzione, dall’esibizione alla lamentazione, dall’amabilità all’aggressività - civetteria da pin up e cipiglio da avventuriero, è stato detto - senza soluzione di continuità, anzi giocando sull’effetto-ascolto offerto dal mutamento e ripercorrendo tutti i topoi caratteriali del reality show e della soap opera.
In un agile volume dedicato a Il corpo del capo , Marco Belpoliti ha ben colto la chiave dell’efficacia «narrativa» berlusconiana, indicandola proprio nel polimorfismo del soggetto narrante. E nella sua intrinseca ambiguità, intesa - sulla scorta della riflessione di Simona Argentieri - come quella pratica psicologica che «consente a livello individuale e collettivo di eludere la fatica delle proprie responsabilità e delle proprie scelte», attraverso il passaggio a un altro sé. In forza di una silenziosa deiezione nell’identità. Confrontando la tecnica comunicativa del Cavaliere con quella di altre figure «carismatiche» del Novecento,
Belpoliti ha sottolineato la forte consonanza col modello mussoliniano, fondato anch’esso sulla potenza semantica del Corpo destinato - a differenza da Hitler, il cui potere persuasivo stava invece nella Voce - a emanare un vigoroso senso d’identificazione collettiva, sottolineando tuttavia uno scostamento significativo, relativo specificamente al volto (e, appunto, all’identità).
A differenza infatti dalla complessa natura «carnale» e insieme «petrosa» del volto del Duce - sorta di maschera duale, mobile e romantica nella parte superiore, rigida e classica in quella inferiore: ambigua anch’essa, ma stabile -, l’immagine di Berlusconi sembra priva di volto. O meglio, sembra possedere in luogo del viso una maschera mobile, intercambiabile, effimera e cangiante... Una sorta di schermo bianco sotto lo strato di cerone o il velo di nylon, che non rinvia a nessun «interno» in cui possa disvelarsi la traccia di un qualche «bel sogno interiore», ma su cui può sfilare, come su uno specchio
- o meglio su uno «schermo» - l’intera fantasmagoria delle soggettività esteriori e delle identità. E in cui ogni spettatore può leggere la proiezione dei propri desideri. Un volto da Jocker, offerto all’eterogeneità di un pubblico unificato ormai solo dalla irriducibilità del desiderio. Ambiguità assoluta, in una qualche frazione della quale ognuno può «riconoscersi» e assolversi.
Questa è la forma della comunicazione corporea nell’epoca della neotelevisione: nel solo tempo in cui la finzione può sostituire la realtà e pretenderne un grado più alto di autenticità. Neotelevisivo è il trionfo della «politica dell’intimità» sostituitasi, in una lotta rivelatasi impari, alla vecchia «esteriorità della politica» (al suo carattere pubblico): la tracimazione nella sfera pubblica delle più intime relazioni famigliari o, indifferentemente, di quelle amorose (politica del focolare e politica del boudoir mescolate inestricabilmente); il trionfo del gossip come primo fattore d’interesse per le
«cose pubbliche»; il «disvelamento totale» della pseudovita affettiva come risarcimento di massa per il diffondersi pervasivo degli arcana imperii in ogni ambito dell’esistenza reale. Neotelevisiva è la frammentarietà - la segmentazione, la frantumazione - della rappresentazione politica e del discorso pubblico, ridotto - secondo la logica dello zapping - a successione di immagini separate, di segmenti irrelati, scena per scena, show per show, performance per performance, ogni giorno un «numero» nuovo, non importa quanto coerente con quelli precedenti, purché sostenga l’audience... Neotelevisiva è persino - e forse soprattutto - l’artificializzazione della corporeità del protagonista: la sua riduzione a oggetto di plastica, ad assemblaggio di protesi, a «effetto speciale» vivente, in un gioco in cui l’artificialità del corpo del leader appare come l’unica forma concepibile di naturalità. L’ultimo frammento «vero» (capace di comunicare la propria inautenticità) in un mondo ipocritamente falso.
Per questo Berlusconi assomiglia così tanto ad altre figure dark dell’universo mediatico italiano, rivelatesi - in forza della loro stessa negatività - neomiti preminenti nella società dello spettacolo, da Flavio Briatore a Lele Mora a Fabrizio Corona... Chi ha visto quell’illuminante documento sulla nostra contemporaneità che è Videocracy , non può non aver colto le evidenti assonanze. Hanno tutti, in comune, la spavalda spregiudicatezza di chi sa perfettamente che l’immagine è tutto, la responsabilità niente; che a chi rimane nel cerchio magico dell’immagine tutto è lecito. Ostentano, coralmente, un senso di impunità che deriva da una nuova forma di sovranità, antica e inedita insieme, fondata sulla presenza intrusiva anche se evanescente della propria icona al centro dello sguardo pubblico. Tutti, d’altra parte, hanno rovesciato il rapporto tra interno ed esterno: fanno dell’esteriorità la propria interiorità, offrono i visceri della propria vita privata come sostanza
pubblica da consumare.
Così come tutti, indistintamente, mettono in scena - incarnazione fisica dell’ossimoro - una trasgressività conformista. O un conformismo trasgressivo, che routinizza
l’eccesso. Che lo riduce a quotidianità, spettacolarizzando la banalità. Sono loro i nuovi cantori del racconto italiano. Sono Berlusconi e Corona, ognuno a modo suo, a dirci - nella sequela di menzogne che ci propinano - la «verità» sull’Italia reale. A disvelarne la più profonda, e inconfessabile, autobiografia collettiva.