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JAMES IVORY, REGISTA AMERICANO DI STILE INGLESE. |
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di Antonio NAPOLITANO
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Tra gli ottuagenari ancora attivi nel cinema è da ricordare James Ivory, nato a Berkeley, California, autore di numerose opere di qualità. Dopo la laurea in architettura egli si reca giovanissimo a Parigi a studiarvi cinema e va poi in Inghilterra che riconoscerà come terra dei suoi avi. Nel 1963, a 35 anni è in India a girare il suo primo film "The Householder" con S.Kapoor e Leela Naidu storia di un giovane sognatore che pian piano si arrende alla cruda realt¨¤ del tran-tran quotidiano. Per quest’opera si avvale fortunatamente del montaggio del grande regista S.Ray e della sceneggiatura di Ruth Jabwala, nota scrittrice. Tre anni dopo realizza il bizzarro ma avvincente "Shakespeare Wallah", sulle traversie di una compagnia teatrale anglo-indiana che mette in scena esclusivamente i drammi del Bardo. La prevalenza è quella del tono umoristico date le naturali incongruenze tra due culture tanto diverse. Il 1969 è l’anno de "Il guru" (in italiano "Soltanto se tu vuoi") con Rita Tushigham e Uptal Dati, che garbatamente ironizza sugli sforzi di una rockstar nel volersi impadronire della tecnica del sitar. Il "fair play" vi è sparso a piene mani. Cinque anni dopo, tornato in USA, Ivory gira "Party selvaggio", pellicola affetta da vari squilibri nella sua struttura tra il comico e il drammatico. E’, più o meno il "biopic" del grassone del cinema muto, Fatty Arbuckle, morto durante un cocktail party degenerato in orgia sfrenata. Nel 1979, il regista traspone sullo schermo "The Europeans" di Henry James e riesce a ricreare lo stile del romanziere da sempre interessato al confronto tra il vecchio e il nuovo continente. L’uso di raffinati cromatismi rende "to the point" le psicologie e il colore dei luoghi. Nel ruolo di Eugenia Lee Remick si cala con piena adesione. "Quartet" (1981) è interamente girato tra Inghilterra e Francia: la rievocazione della Parigi dei "roaring twenties" risulta assai convincente. Non manca qualche stoccata, per¨°, alla presunta compassatezza delle British ladies, in coerenza con l’amletico aforisma:" fragilità, il tuo nome è donna". Ritornato in India, il cineasta americana vi gira nel 1983, "Calore e polvere" con la splendida Greta Schacchi e S.Kapoor. "E’ un mélo intelligente, sorretto da solide interpretazioni" chiosa lo storico Leonard Malkin. La narrazione in parallelo delle vite di due donne è strutturata nella piena consapevolezza della complessità degli eventi, pur lontani nel tempo. E lo scritto della Jabwala à l’efficace impianto del tutto. Continuando nel suo attento studio delle peculiarità umane di donne e uomini di Albione, "Camera con vista" (1985) (da un romanzo di E.M.Forster) è un opera che da un’ulteriore prova di gusto ed eleganza. Il paesaggio toscano e gli scorci della Firenze "fin de si¨¨cle" sono ritratti con sensibilità da impressionista. Lo stesso ritmo delle azioni e l’angolazione delle scene sono improntate alla pittura del tempo. Nel 1987, in "Maurice" (con Hugh Grant e Ben Kingsley), Ivory indovina la giusta misura di rispetto e discrezione nel raccontare un amore omosex, ben al di là di certi "coming out" odierni che vanno poi a confluire in esibizioni o in carnevalate di cui c’è poco da andare orgogliosi. Nel 1990, "Mr e Mrs Bridge con P.Newman e J.Woodward offre il ritratto di due austeri coniugi che finiscono col subire le idee dei figli, nel corso degli anni tra i ’30 e i ’60. Ottima la resa dei due noti attori; non ugualmente convincente la descrizione delle circostanze ambientali: appare proprio fuori luogo l’allusione fatta da qualche critico a "trasalimenti proustiani" (in Kansas City?). Due anni dopo si ha con "Casa Howard" (1992) un altro felice adattamento letterario del testo di E.M.Forster. A.Hopkins, V.Redgrave, Emma Thompson e Helena Benham Carter si presentano come un quartetto "properly British". E viene reso con precisione quel gioco di continuo attrito tra ceti sociali diversi, nel periodo che precede la prima guerra mondiale. L’opera ottiene uno speciale premio a Cannes. Ancora più fascinosa (e toccante) à la vicenda trattata in "Quel che resta del giorno" (1993). A.Hopkins è il maggiordomo amaramente pentito della sua strenua dedizione ad un signore che non la meritava. Nè si può parlare di calligrafia per quella cura premurosa dei primi piani e per certi brevi ma significativi sequenze. Il 1995 è l’anno di "Jefferson a Parigi" un excursus storico di chi prima che presidente era stato ambasciatore degli USA in Francia. C’è, purtroppo, un indugiare compiaciuto sulle "microstorie" sentimentali del personaggio. Esse finiscono per collocare la composizione al di fuori del suo originale spartito in un groviglio di "gossip" banali. Anche poco persuasivo è il seguente "Surviving Picasso" che sottolinea troppo spesso le bizzarrie del grande innovatore e suoi eccessi di vitalità senza andare mai più a fondo nel discorso sulla sua arte (e il film ha inizio dal 1942 !). A più alto livello "La figlia d’un soldato non piange mai" (1998). Le psicologie vengono qui tratteggiate con pennellate sagaci e perfino le ambivalenze sentimentali risultano più che motivate dal disagio esistenziale di un gruppo familiare che non si sente più a casa propria nè in Francia nè in America. A tal proposito R.Escobar ha giustamente notato che l’opera "induce a una felice simpatia per tutto ciò che è umano". Sempre sulla stessa linea appaiono "La coppa d’oro" (2001)dal romanzo di H.James e "Le divorce" (2003), rappresentazione di varie crisi matrimoniali. In più, nel secondo, la lite per il possesso del capolavoro (?) di G.de La Tour vieni a frastagliare ancor pi¨´ la situazione. E troppo ad effetto appare il finale "thriller" sulla Torre Eiffel quasi alla James Bond. Ottima, invece, "La contessa bianca" del 2005, storia d’amore tra una nobildonna russa decaduta e un ex-diplomatico americano ormai cieco. Ben dominato è il dualismo tra le vicende biografiche e quelle storiche (siamo nella Shanghai che sta per essere invasa dai giapponesi, a metà degli anni ’30). Ed è un cast di tutto rilievo che comprende V.Redgrave, R.Fiennes, John Wood e Lynn Redgrave. Nonostante il clamore degli avvenimenti la cinescrittura di Ivory mostra anche qui un sapiente "understatement" all’inglese, in quei momenti di tormenti o di slanci trattenuti per un congenito puritanesimo. E’ valido lo stile raffinatosi nella devozione ai grandi autori anglosassoni. Ed appare sintomatico che gran parte delle sue opere non siano menzionate nel pur scrupoloso "Dizionario del cinema americano" curato dallo compianto F.Di Giammatteo. Comunque, il regista statunitense riesce il più delle volte a manovrare delicatamente queste sue opzioni culturali verso la civiltà d’origine. Ed è una passione genuina che lo anima e gli permette di superare il mero accademismo: Ivory mostra una sensibilità covata nel profondo che lo porta, nella maggior parte dei casi, ad una compiuta realizzazione in immagini di alcuni testi difficili da dimenticare.
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