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C’era un tempo in cui le parole erano importanti. Oggi le immagini lo sono di più. Lo sappiamo noi, in Italia, e lo sanno bene anche le magliette rosse thailandesi, che ieri hanno forzato i blocchi delle forze di sicurezza per prendere possesso degli studi di una stazione televisiva satellitare e riaccendere il segnale che il premier Abhisit Vejjajiva aveva interrotto, con l’accusa di incitare alla violenza. Le forze di sicurezza hanno tentato di arginare la protesta con i mezzi a loro disposizione: cannoni ad acqua, lacrimogeni, qualche manganellata e pallottola di gomma. Niente di più. Il premier - secondo i rossi illegalmente al governo - non vuole vedere spargimenti di sangue: Bangkok non è Rangoon, la capitale del regime militare birmano. La Thailandia vive di turismo e di esportazioni commerciali, per i 2/3 del Pil. E se le proteste non aiutano l’economia - che dopo la crisi insegue il rilancio con gli stimoli all’economia interna -, la repressione violenta ancora meno. Alla fine gran parte delle forze di sicurezza hanno lasciato il controllo della Thaicom Pcl ai manifestanti, dopo aver raggiunto un accordo verbale con le magliette rosse. Che sono i sostenitori di Thaksin Shinawatra, ex tycoon, accusato e condannato con la moglie per corruzione, ex premier, deposto nel 2006 e da allora in esilio, ma mai abbandonato dagli strati più poveri della borghesia cittadina e dalle campagne - anche se in realtà la protesta dei rossi va ben oltre Thaksin. Così il segnale del People Channel PTV, il canale del popolo, è stato rilanciato nell’etere, mettendo fine alla sospensione di 24 ore. Con la promessa, da parte del governo, di un nuovo intervento qualora vengano di nuovo trasmesse «informazioni distorte». Il ventisettesimo giorno di proteste consecutive non sarà stato così spettacolare come quello in cui i manifestanti - in spregio delle raccomandazioni della Croce rossa - avevano versato di fronte alla residenza di Abhisit decine di litri di sangue. Ma la riconquista della tv satellitare permette alle magliette rosse, che si chiamano Fronte unito per la democrazia contro la dittatura (Udd), di far arrivare la loro voce a tutto il paese. Quello di ieri è stato il primo importante episodio di una certa violenza, con feriti su entrambi i fronti, da quando Abhisit aveva dichiarato lo stato di emergenza dopo la breve irruzione dei rossi nel parlamento di Bangkok, mercoledì. L’Udd, che dal 12 marzo occupa la piazza davanti al palazzo del governo e un’altra nella zona commerciale della città, creando un certo danno economico ai negozianti, non intende fermare le proteste finché il premier Abhisit non deciderà di dimettersi e indire nuove elezioni. Tutti i tentativi di mediazione fin qui sperimentati sono andati falliti: le magliette rosse vogliono il voto, e subito. Gli investitori internazionali, nonostante in 19 mesi si siano succeduti tre premier, non sembrano spaventati e continuano a comprare azioni sulla piazza della terza economia asiatica, dove il valore complessivo dei titoli è salito del 76% negli ultimi 12 mesi. Sanno che la politica economica e finanziaria rimarrebbe sostanzialmente inalterata anche sei si arrivasse a nuove elezioni e a una vittoria dei rossi sui gialli dell’Alleanza popolare per la democrazia - la parte del paese oggi al potere, più legata ai militari e al re, sostenuta in prevalenza dalla classe media e dalle élite urbane. Abhisit, in carica da 16 mesi alla guida di un governo di coalizione, nato dopo che la Corte costituzionale aveva giudicato il partito di maggioranza allora al potere reo di frode elettorale, soffre in questo momento sia la pressione delle magliette rosse che quella di chi, nel suo entourage, vorrebbe una repressione decisa delle proteste. Ieri la notte è calata tranquillamente sulle strade popolate di rosso. Comizi, canti, balli, cene improvvisate in strada dai tradizionali banchetti. Le proteste riprenderanno domani, nelle poche piazze coinvolte. Mentre il resto della città continuerà la sua vita frenetica, come se niente, o quasi, stesse accadendo. |
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