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La finanza è la punta dell’iceberg ma il nodo è nell’economia reale Sbaglierebbe chi pensasse che quella che stiamo vivendo sia principalmente una crisi finanziaria. E’ una crisi del meccanismo di accumulazione reale. Le origini stanno nella svolta in chiave neoliberista degli anni ’80. Marx, Schumpeter e Keynes, nelle loro diverse prospettive, avevano visto un rischio autodistruttivo del capitalismo. Per mantenere adeguato il rendimento dell’investimento occorre inventare sempre nuove cose. Questa è la grande forza del capitalismo, la sua legittimazione storica. Il suo problema è che i profitti dipendono dalla capacità di consumo. Se il prodotto generato attraverso l’investimento, la combinazione di capitale e lavoro data una tecnologia, non è redistribuito in certe proporzioni, i lavoratori-consumatori non hanno capacità di spesa sufficiente a sostenere la domanda e quindi le stesse aspettative di profitto delle imprese. C’è una tensione fra struttura della proprietà, quindi distribuzione dei redditi, e accumulazione. La soluzione per Marx era tout-court la socializzazione della proprietà. Per Schumpeter era l’accettazione delle periodiche distruzioni di valore, ma egli era convinto che alla lunga democrazia e capitalismo imprenditoriale, con i suoi cicli, fossero incompatibili e il socialismo, che aborriva, avrebbe prevalso. Per Keynes la soluzione era l’economia mista, in cui la spesa pubblica mette un argine al ciclo autodistruttivo di valore. Più in generale pensava che occorresse minimizzare i rendimenti del risparmio («eutanasia del rentier ») e favorire alti consumi. Una combinazione di queste tre visioni (con una aggiunta di solidarismo cristiano e di socialdemocrazia in Europa), ha retto la politica economica dei paesi sviluppati fino agli anni 70, quando si è temuto che il mondo andasse "troppo" in direzione anticapitalista, anche per la concomitanza dell’espansionismo sovietico successivo alla sconfitta Usa in Vietnam, delle rivolte giovanili, e della crisi fiscale. La vincente controffensiva Reagan-Thatcher ha determinato un enorme indebolimento delle forze genericamente anticapitaliste e un ridimensionamento del ruolo dello Stato (privatizzazioni, politiche fiscali e monetarie restrittive, contrazione dei servizi pubblici). Invece dell’eutanasia del percettore di rendite finanziarie, si è avuta una sua resurrezione. La distribuzione dei redditi diventava spettacolarmente più diseguale (meno imposte progressive, meno lotte sindacali, meno garanzie, e la quota del lavoro cadeva di oltre dieci punti in molti paesi nell’arco di un ventennio). Si determinavano bolle speculative una dietro l’altra. La massa dei profitti generata da questa redistribuzione doveva trovare impiego in qualcosa per sostenere sempre nuova accumulazione. Uno dei primi target storicamente sono stati gli immobili. Anche le privatizzazioni sono state una operazione speculativa connessa all’ampliamento delle capitalizzazioni borsistiche. La bolla della new economy ha creato società virtuali in pura perdita con azioni ipervalutate. L’epicentro concreto e ideologico di questa palingenesi della rendita sono gli Stati Uniti. Per non fare esplodere le bolle le autorità monetarie inondavano il sistema di possibilità di indebitamento (Greenspan). Buccia di banana: la vendita di immobili alle minoranze etniche e ai ceti a minore reddito. Si finanziano poveri cristi che in realtà non hanno redditi per pagare il mutuo, poi si cartolarizza il debito, lo si affetta e si costruiscono dei derivati, mescolando vari tipi di rischio. Più che tossica, questa è finanza allucinogena. A dipendenti precari di Mc Donald, pagati pochi dollari l’ora, sono stati fatti mutui da centinaia di migliaia di dollari. Non poteva durare. Ironia: un sistema che non vuole assicurare alle persone redditi sicuri e accettabili, che rende praticamente impossibile il ricorso al sindacato, che terrorizza una parte considerevole dei meno abbienti con la mancanza di copertura delle cure mediche universali e delle pensioni garantite dallo stato, che li fa indebitare per la scuola e università se vogliono emergere, poi ha bisogno di fingere che queste stesse persone abbiano un discreto reddito, che il loro è un buon debito su cui scommettere al rialzo. Nessuna ri-regolazione, nessun appello all’etica degli affari, può raddrizzare uno squilibrio strutturale fondamentale che continuerà a riprodursi se la distribuzione dei redditi fra profitti e salari non ricostituisce una capacità solvibile di consumo, negli Usa e su scala globale. Massimo Florio Contratti nazionali e reddito di cittadinanza Luciano Gallino è sociologo dei processi economici. Professore emerito dell’Università di Torino, è noto per l’enorme mole di studi ricerche e pubblicazioni centrate soprattutto sul mondo del lavoro e i suoi sviluppi. Professore, sono innumerevoli le domande di disoccupazione presentate all’Inps nel primo bimestre di quest’anno. Sono posti di lavoro persi, veri, di gente che per avere l’indennità ha lavorato almeno un anno. I numeri fanno tremare le gambe. Ci aiuta a fare il punto e a capire il seguito? Capire cosa può avvenire è molto difficile. Siamo di fronte a una crisi talmente grave, complicata, globale, che è arduo mettersi a fare delle previsioni. Sicuramente sarà una crisi molto dura e molto lunga. Quello che sta succedendo, da un lato si mostra come il terreno su cui franano i contratti flessibili, di breve durata, instabili, delle collaborazioni coordinate, del finto lavoro autonomo. Sono contratti che a centinaia di migliaia non sono stati rinnovati già alla fine dello scorso anno e che adesso, mese per mese, scadranno a decine di migliaia, non verranno rinnovati, non si vedono. A questo si è aggiunta la crisi dei contratti a tempo indeterminato. Perché anche i dipendenti che avevano contratti di lavoro standard adesso sono coinvolti nelle crisi aziendali. Facciamo un passo indietro. Sono almeno dieci anni - col "pacchetto Treu", col "libro bianco" di Marco Biagi, con la "riforma Maroni", e infine con la decostruzione dei contratti nazionali per puntare alla sola contrattazione aziendale, che si predica e si pratica la precarizzazione generalizzata del mondo del lavoro. La crisi sta svelando però che non è il lavoro che ha deragliato. Continuare su quella strada non serve allora a far avvitare su se stesso il ciclo del reddito disponibile, aggravando la spirale della crisi? Non sono dieci, ma almeno quindici anni che si procede in quel senso: dal protocollo del ’93, con quella che è stata chiamata la rimercificazione del lavoro. E nonostante che i dati potevano far sembrare allora che ci sarebbe stato un aumento del lavoro complessivo, invece si è innescata una discontinuità e l’abbassamento dei redditi. Adesso la crisi può indurre chi vantava i meriti della flessibilità e del lavoro precario a ripensarci, ma va detto che questo è stato l’effetto della messa in concorrenza dei lavoratori dei paesi avanzati, come il nostro, con i lavoratori e le condizioni dei paesi emergenti, come la Cina e l’India. Questo è il portato della globalizzazione: una messa in competizione di lavoratori senza tutele sindacali, che lavorano 70 ore a settimana a meno di un dollaro l’ora, con le condizioni indubbiamente più avanzate dei nostri lavoratori. La compressione dei salari reali, che in Italia dura da più di 10 anni ma che si è fatta sentire anche in altri paesi europei, come la Germania, è un prodotto di quelle politiche del lavoro, in nome della "globalizzazione". C’entra in questo una responsabilità, una debolezza, la divisione del sindacato? Le posizioni dei tre maggiori sindacati sono diverse. Mentre sei mesi, un anno fa, sembravano sostanzialmente allineate, adesso la Cgil mostra di avere una linea diversa. Il sindacato però ha dei problemi di rappresentanza perché si muove su luoghi di lavoro profondamente cambiati. L’organizzazione della produzione è radicalmente modificata, in qualche caso è cambiata proprio per evitare il sindacato. Il meccanismo delle esternalizzazioni o delle internazionalizzazioni, gli appalti e i subappalti, che possono arrivare anche a cinque-sette-otto forme contrattuali diverse con livelli retributivi differenziati, hanno frammentato in modo tale l’organizzazione del lavoro da rendere difficile la rappresentanza. Prima di parlare di errori o di incapacità del sindacato bisogna mettere in conto che l’enorme frammentazione nei siti produttivi rende oggettivamente molto difficile il lavoro sindacale: si può essere in presenza di cinque-sei tipi di contratti diversi nella stessa fabbrica; nel medesimo stabilimento possono lavorare dipendenti di quindici-venti ditte assemblatrici diverse. Tutelare gli interessi reali e le condizioni materiali dei lavoratori in queste condizioni è molto difficile. Questa frammentazione della produzione ha avuto tanti motivi, tante ragioni: il "giusto in tempo", lo scaricare i rischi; ma se c’era anche l’intenzione di mettere in crisi il sindacato, ci sono pienamente riusciti. L’ulteriore decostruzione della contrattazione nazionale dove porta? A parte l’inefficienza e l’inefficacia dei contratti nelle microimprese, che sono oltre il 90% del nostro assetto produttivo, c’è il fatto che l’indebolimento del contratto nazionale servirà a togliere di mezzo l’unico strumento per una redistribuzione dei redditi a livello nazionale. Si è parlato troppo poco, anzi in genere viene espulso dal discorso politico il fatto che negli ultimi vent’anni parecchi punti di Pil - e un punto di Pil vale 15 miliardi di euro - sono stati persi dal lavoro dipendente, ossia dal monte delle retribuzioni del lavoro dipendente, e sono andati ad altri tipi di reddito, a cominciare dalle rendite finanziarie. Il contratto collettivo nazionale aveva, e dovrebbe avere ancora, la funzione fondamentale di stabilire le proporzioni tra reddito da lavoro e altri tipi di reddito, che altrimenti diventano irrecuperabili. Poi si può anche pensare all’imposizione fiscale, ma imporre nuove tasse è ancora più difficile che non fare dei buoni contratti a livello nazionale che stabiliscano dei livelli salariali adeguati. Adeguati soprattutto a contrastare la porzione di Pil che è stata sottratta in questi anni ai salari. A seconda di dove si mette il punto di inizio del periodo, i salari in Italia hanno perso tra i quattro e gli otto punti di Pil. Quattro punti pesano per 60 miliardi, otto valgono 120 miliardi di euro. Da qui si vede quante finanziarie sono contenute nella perdita salariale dei lavoratori italiani. Lo strumento fondamentale per contrastare questa tendenza, e utopicamente per invertirla, è il contratto nazionale. Un contratto indebolito è un ulteriore passo verso un peggioramento della redistribuzione. Cosa devono fare, in questa situazione, governo imprese e sindacati, per cercare di contrastare il tracollo del mondo del lavoro? Un punto fondamentale è il sostegno al reddito. Che significa attivare i cosiddetti "ammortizzatori sociali". Soprattutto i servizi di sostegno alle famiglie, perché se un asilo nido costa 500 euro al mese e in una famiglia ne entrano 800, è evidente che non ce la fa. Credo che prima o poi si debba cominciare a parlare - dovrebbe farlo la sinistra, ma non si sa mai bene dove sia finita - di forme di reddito di cittadinanza, di inserimento, di basic income . Ne parlano anche i funzionari dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che di certo non è un’organizzazione bolscevica. Perché la caratteristica fondamentale del reddito di base è di non essere condizionato, o di essere "incondizionato", mentre il sussidio di disoccupazione è legato al fatto che si deve aver lavorato. In Italia ci sono milioni di persone che non hanno diritto al sussidio di disoccupazione perché non hanno versato 52 settimane di contributi. Si tratta quindi di una forma riduttiva, marginale. Inoltre se il sussidio è legato al lavoro ma intanto i contratti vanno a farsi benedire, vengono penalizzate non solo milioni di persone disoccupate ma soprattutto quelli che non hanno diritti. Le versioni e le ipotesi sul reddito di base sono numerose, ma hanno tutte molti argomenti a favore. Uno è che essendo un reddito modesto, di 600-800 euro, che consente di far fronte solo alle esigenze primarie, non rappresenta di certo, come qualcuno teme, l’incentivo a rimanere disoccupati. Gemma Contin Il ruolo dello Stato Nel momento in cui si è profilato, attraverso il fallimento di alcuni grossi istituti di credito negli Usa e in Inghilterra, il rischio di un collasso del sistema finanziario internazionale, si è assistito ad una corsa al ritorno di un ruolo attivo dello Stato. Su questo fatto, determinato dal fallimento degli strumenti che la teoria dominante aveva ritenuto in grado di fronteggiare ogni evenienza, si è progressivamente riaperta una discussione sul ruolo dello Stato nell’economia, sia pure qualificato, in special modo nei giornali finanziari, come rimedio estremo di emergenza , come dolorosa necessità , come transitorio minor male , ecc. Molti commentatori e protagonisti del mondo economico, finanziario e politico sostengono, infine, che in ogni caso non si ritornerà più al mondo precedente la crisi. Tutto ciò ha suscitato,attese e speranze di una svolta epocale, quando non la tentazione di letture palingenetiche sul crollo del capitalismo. La domanda quindi che viene spontanea è: il fatto stesso che lo Stato torni a giocare un ruolo attivo indica una svolta epocale? Al di là del fatto che, come Bellofiore e Halevi hanno lungamente argomentato, lo Stato, anche in pieno neoliberismo, non ha mai cessato di svolgere un ruolo, a me pare che una prima cautela debba nascere osservando il punto di inizio di questa svolta: pompare miliardi di dollari nel sistema bancario. Il sospetto dell’uomo della strada, ben visibile in alcune manifestazioni svoltesi negli Usa, che si trattasse di un caso di socializzazione delle perdite, a spese dei contribuenti, contiene una buona dose di verità. Sarebbe stato, da un lato, del tutto irresponsabile sostenere che bisognava lasciare colare a picco banche ed istituti finanziari che, per le loro dimensioni e, soprattutto, per la rete di interconnessione del sistema finanziario creata dalla nuova finanza , avrebbero innescato una crisi di sistema. Il capitalismo senza il credito non esiste e senza il credito si ferma tutta l’attività produttiva con le ovvie conseguenze per tutti, noi compresi. Altrettanto irresponsabile sarebbe non entrare nel merito delle modalità dell’intervento e, prima di tutto sulla sua fattibilità, se concepito come puro salvataggio. Si parla infatti di perdite, che andrebbero coperte col denaro pubblico, che sia viste globalmente, sia viste per paesi od aree economiche rappresentano cifre enormi; per le perdite già realizzate, secondo la Banca Asiatica di Sviluppo, esse sono pari al prodotto mondiale di un intero anno. Ciò che è ancora più inquietante è il fatto che il meccanismo creato dalla nuova finanza è a tal punto opaco da impedire a chi deve oggi prendere queste decisioni di conoscere l’esatto ammontare dei cosiddetti titoli tossici, si parla di 12 volte il prodotto interno lordo del mondo. Entrare nel merito è, a mio avviso, un dovere, solo così infatti si può aprire una discussione e delle iniziative per un ruolo dello Stato. Iniziando dalle banche la risposta, a fronte del nascere di insolvenze, è una forma specifica di nazionalizzazione degli istituti di credito. Dire nazionalizzazione è, infatti, inadeguato, bisogna spiegare perché è inevitabile e per quale scopo essa deve essere fatta. La mia risposta sul primo punto è che solo in questo modo si evita la trappola di una socializzazione delle perdite lasciando intatto il sistema che le ha prodotte. Sul secondo punto penso si tratti di evitare di buttare in un buco nero il denaro dei contribuenti e di, viceversa, fare pagare le perdite a chi le deve pagare, azionisti e creditori secondo le modalità di norma usate nei fallimenti: eliminare il valore delle azioni esistenti, e un processo forzoso di conversione dei debiti in nuove azioni. Lo Stato, acquisendo il controllo delle banche può reindirizzare la politica del credito per sostenere un processo di riconversione e riorganizzazione delle attività economiche, sia industriali che non, disponendo, inoltre, di quelle risorse che eviterebbe di buttare nel buco nero della socializzazione delle perdite. Occorrerebbe, infine, ristabilire la separazione tra le banche commerciali e quelle di investimento, come era nel Glass-Steagal Act del 1933, non a caso figlio della crisi del ’29. Se poi ciò deve essere permanente o transitorio, se si possa immaginare una riarticolazione del sistema tra istituti di interesse nazionale, con politiche orientate a sostenere lo sviluppo sociale, ed altre orientate a logiche di investimento è uno dei temi su cui iniziare oggi una discussione. Sarebbe poi del tutto miope non vedere che la crisi finanziaria e quella economica sono le due facce di una stessa medaglia: il modello di sviluppo perseguito in questi anni. Bisogna uscire da questo paradigma basato sulla forzatura delle esportazioni, che porta a una competizione esasperata tra paesi ed aree economiche, e sulla perpetuazione del modello postbellico di sviluppo economico basato su acciaio, auto e costruzioni, che lascia insoddisfatti elementari bisogni sociali ed individuali di larghe masse in tutto il mondo e che costituisce un attentato all’ambiente. Lo Stato può quindi cogliere questa opportunità di indebolimento delle tradizionali lobby industriali ed affaristiche per cambiare le priorità. Ciò è impossibile senza delle forze reali in campo. Esse non possono che essere, in primo luogo, i lavoratori ed i loro sindacati a ciò disponibili, il che pone allo Stato il problema di rimettere al centro di ogni politica il vincolo della piena occupazione, la difesa del potere di acquisto dei percettori di salari e stipendi e la loro libertà e possibilità di organizzarsi e di potere lottare senza vincoli autoritari e dirigistici: una piena espansione della democrazia, insomma. Francesco Garibaldo
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