25 Aprile 2010
-ITALIA LIBERA-
 











Uno stile di vita partigiana
Paralup: una borgata abbandonata a 1400 metri di quota, a cavallo tra valle Stura e valle Grana. Sedici baite diroccate sotto la giurisdizione del comune di Rittana, a una quindicina di chilometri da Cuneo. Muri di pietra, boschi, pascoli. E neve d’inverno. Tanta neve! Qui, sessantasette anni or sono, nel settembre del 1943, era nata - sotto il comando di Duccio Galimberti e di Livio Bianco - la banda partigiana "Italia libera": quello che costituirà il nucleo originario da cui si svilupperà nei mesi successivi l’ampia e possente rete delle formazioni partigiane di "Giustizia e Libertà" del cuneese. E anche quella che viene generalmente indicata, dalla storiografia, come la prima formazione partigiana in senso proprio, militarmente organizzata e politicamente inquadrata, nata in Italia. La prima cioè in cui ci si pose programmaticamente il problema dell’organizzazione di un
esercito di volontari in una "guerra di popolo". E in cui fu affrontato esplicitamente il tema del programma e dell’appartenenza politica (in questo caso al Partito d’Azione). «Fu questa - scriverà Livio Bianco - forse l’unica formazione che si sia veramente costituita in forma che voleva essere organica, in città, attraverso una selezione e un formale arruolamento e un raggruppamento, naturalmente ancora rudimentali, e che dalla città si sia trasferita, a costituzione avvenuta, in montagna».
Fu anche, per molti aspetti, un esempio emblematico di "stile di vita" partigiano, concepita fin dal suo nascere come un modello di organizzazione politico-militare consapevolmente alternativo (e contrapposto) a quello militare tradizionale: a quell’esercito "sabaudo" che aveva perduto la guerra in cui era stato trascinato dal fascismo e poi, nel momento delle scelte, subito dopo l’8 settembre, aveva visto sciogliersi vergognosamente le proprie gerarchie senza riuscire a resistere - se non in
alcuni, eroici ma sporadici casi - ai tedeschi diventati d’improvviso da alleati nemici. Una struttura militare radicalmente diversa da quella di qualsiasi esercito, per una guerra qualitativamente diversa da ogni altra guerra. Lo dice, benissimo, Norberto Bobbio, nell’Introduzione al libro di Livio Bianco, quando così descrive l’"idea centrale" che fece da matrice alla nascita della Banda: «… la guerra partigiana, la "guerriglia", per restituirle il suo nome classico, non è una guerra militare, non è una guerra nazionale, non è una guerra come tutte le altre. E’ una guerra politica, popolare, fuori da ogni finzione, una "guerra civile" (o "per la civiltà", come Livio commenta). Una guerra democratica, in duplice senso, in quanto è democratico il suo metodo (non gerarchia, non comandi che non si discutono, non galloni né gradi) ed è democratico il suo fine ultimo, l’abbattimento di una dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere.»
Basta
dare un’occhiata alle memorie dei protagonisti per rendersi conto di questa diversità programmatica: un prevalente spirito antimilitaristico, evidente fin dalla scelta di quella denominazione - "Banda" e non, almeno all’origine, "Brigata", o "Divisione", affinché la distanza dall’esercito "regolare" fosse ben chiara -, e dal modo di vestire: senza divise, stellette, fregi e gradi evidenti, dove non prevaleva il grigioverde delle uniformi ma l’eterogeneità multicolore degli abiti civili. Una pratica di rigorosa disciplina "autogovernata", dove il comando doveva essere conquistato sul campo e il giudizio dei propri "uomini" contava più di ogni formalità burocratica o pedigree da "Stato maggiore". Un esercizio alla libera discussione, che farà indicare da uno storico di grande vaglia come Guido Quazza nelle formazione partigiana un «microcosmo di democrazia diretta», che produrrà un «tipo umano» - una «pianta uomo», la definirà Quazza - per molti versi nuovo: il lievito della democrazia post-liberazione.
Ma Paralup non è solo il "luogo" di questa Storia. Le sue "antiche pietre" conservano - e comunicano - anche un’altra memoria. Altre storie, dalla durata più lunga e più lenta rispetto ai ritmi rapidi e nervosi della "storia politica nazionale". Storie - se si vuole - più "locali", ma non meno cariche di significati universali. E’ la memoria secolare della gente di montagna, che qui strappava la vita a una natura avarissima. E che offrì ai partigiani del ’43 un’ospitalità sofferta, spesso pagata a caro prezzo, con le già povere case bruciate per rappresaglia, i figli o i mariti fucilati o deportati, l’esistenza quotidiana già al limite della sopravvivenza messa a dura prova dai rastrellamenti e dalle scorribande dei tedeschi e soprattutto dei loro servitori fascisti.
Quelle storie e quella memoria "atavica", che dà senso e nomi al territorio, giungono a lambire cronologicamente gli eventi della Seconda guerra mondiale e l’epopea partigiana, poi s’inabissano,
travolte dallo tzunami della industrializzazione tardiva degli anni Cinquanta e Sessanta. Sommerse da una modernizzazione caotica, impetuosa e cieca, che travolse la civiltà contadina trascinando a valle quella parte (ormai esangue) delle giovani generazioni di montagna che erano sopravvissute al grande "olocausto contadino" che erano state le guerre fasciste (in particolare, per queste parti) la disastrosa guerra di Russia.
Vorremmo che a Paralup queste due memorie possano tornare a parlarsi, e a parlarci. Che nei luoghi stessi in cui quella doppia esperienza di vita - montanara e partigiana - si compì, divenga possibile riascoltare le voci dei protagonisti, nelle baite recuperate a un uso "pubblico": in uno "spazio" nel quale sia restituito alla valle e a noi il senso di un passato che non è, solo, "reperto". Né reliquia (lungi da noi un’idea simile), ma occasione per una ritrovata capacità di vivere responsabilmente il presente.
Per questo non sarà - non dovrà essere - un
"museo". Né un "sacrario". Bensì un luogo di vita, di incontro, di acquisita consapevolezza di ciò che è stato, ma anche di "lavoro", di sperimentazione di forme possibili di ritorno alla montagna, in condizioni di esistenza - ora - più umane di quelle in cui furono costretti a sopravvivere i protagonisti del "mondo dei vinti".  Marco Revelli
Un patrimonio storico fragile e abbandonato
La borgata di Paralup in Valle Stura, nel sudovest del Piemonte, è un simbolo della Resistenza, il villaggio dove si è organizzata la lotta di "Italia libera" (da cui nasceranno i gruppi "Giustizia e Libertà"), ma è insieme un’icona del patrimonio architettonico e paesistico in abbandono, da questo paradossalmente conservato; l’immagine tangibile di relazioni ancora leggibili tra valori naturali e antropici, tra paesaggio e insediamento, in un luogo permeato da una cultura alpina di lunga durata.
La borgata, situata sul
versante interno di una dorsale montuosa nella bassa Valle Stura a 1360 metri di altitudine, è composta da un nucleo di case in pietra per abitazioni, collegate un tempo alle attività stagionali di alpeggio, e ora in condizioni di abbandono e avanzato degrado. Essa è disposta lungo due direttrici che ne determinano il principio insediativo. La prima linea di definizione è pianeggiante, corre a mezzacosta, taglia orizzontalmente l’abitato e coincide con il sentiero che collega i paesi di Rittana e Valloriate, "uno dei sentieri della libertà partigiana". Il secondo asse, disposto verticalmente, è scandito da un susseguirsi di gradini che formano una chintana. Un principio insediativo che definisce un sorta di "tau" nel disegno urbanistico.
Il progetto di recupero e valorizzazione della borgata di Paralup intende configurare ogni azione nel segno delle sua identità storico-culturale, della sostenibilità dell’intervento, della qualità ambientale e insieme sociale, della conservazione e
del patrimonio architettonico e paesistico, intesi come valori essenziali, attuali, vitali, autentici. Intende soprattutto sottolineare la necessaria qualità del progetto architettonico, scegliendo la via di un inserimento totale nel paesaggio. Un progetto di architettura contemporanea legato ai principi fondamentali della conservazione e del restauro: quelli della "riconoscibilità", della "reversibilità" e del "minimo intervento", ma anche rivolto a ristabilire l’unità potenziale architettura-ambiente. Un intervento fondato sul rispetto del luogo, volto a far sì che l’esistente permanga e, anzi, divenga la traccia su cui comporre l’intero progetto. Grande attenzione è stata posta infatti nella scelta dei materiali: l’uso del legno di castagno non trattato per la costruzione dei volumi, le grandi falde in lamiera a copertura dei fabbricati sono scelte che nascono dal rispetto del territorio e dalla volontà di inserire volumetrie leggere e reversibili, dove l’antico e il nuovo non vengono confusi ma integrati l’uno con l’altro.
La ricostruzione della borgata rimane fedele al suo principio insediativo, secondo una distribuzione che continuerà a seguire i suoi assi portanti, permettendo in tal modo di cogliere il paese nella sua interezza, senza le auto che potranno essere lasciate in uno spiazzo poco più a valle.
Questa intenzione è stata sviluppata sia a scala architettonica che a scala urbanistica.
I principi costruttivi, come già accennato, si basano su criteri di semplicità ed economicità, e l’ampio spazio dato alle nuove tecnologie fa sì che, con un impatto ambientale ridotto al minimo, la borgata risulti autosufficiente. In questo luogo, infatti, si dovrà poter soggiornare servendosi dei mezzi di comunicazione più moderni senza dimenticare la sostenibilità dell’intervento, col ricorso a energie alternative e metodi di sfruttamento delle risorse reperibili sul posto.
Questo tipo di intervento comporta, per la sua entità, un’esecuzione scalare
nel tempo. Poiché i fabbricati interessati sono 16, con destinazioni d’uso diverse, esso è stato suddiviso in tre moduli, in grado di essere operativi anche l’uno indipendentemente dall’altro - benché sia poi il completamento di tutte le sue porzioni a rappresentare la vera riuscita del progetto.
Il primo modulo, da poco terminato, riguarda i locali adibiti a punto informativo-accoglienza, museo, biblioteca, sala convegni e laboratori studio attraverso il recupero di tre fabbricati. E’ la parte del progetto rivolta alla cultura, che include un museo multimediale della Resistenza e della storia locale, in rete con altri poli analoghi, in Italia e in Europa, supportato da un museo diffuso sul territorio circostante, una sala per workshop, proiezioni, attività didattiche e seminari.
Il secondo modulo di intervento, il cui cantiere partirà a maggio 2010, vedrà coinvolte la baita adibita a bar ristorante con il ripristino del forno, il porticato a servizio delle utenze, sia residenti
che di passaggio, una baita ad uso foresteria dotata di alcuni posti letto e servizi, una cucina comune e una casa da destinare a una famiglia di pastori che con l’allevamento, la coltivazione e la gestione della borgata, possa dare avvio al progetto di recupero agro-silvo-pastorale.
Il terzo modulo sarà interamente rivolto alla parte ricettiva, che offrirà una trentina di posti letto.
Il metodo costruttivo, essendo parte di un unico progetto, rimarrà immutato. Le tracce delle rovine, come definizione dell’esistente e lettura dei tessuti murari originali, resteranno e verranno opportunamente consolidate, diventando contenitore ideale delle scatole di legno progettate. Queste, volute appunto in legno di castagno così da poterle costruire con materiali reperibili in loco e a bassissimo impatto ambientale, avranno una struttura portante in ferro appoggiata su una platea di fondazione, le pareti saranno tutte opportunamente coibentate e formeranno dei pannelli costituiti da un
doppio strato di legno al cui interno è inserito del materiale isolante. Le coperture saranno in lamiera, tranne là dove risultasse possibile l’utilizzo della vecchia copertura in lose. Le murature esistenti, in pietrame a vista, saranno rinforzate in modo da essere indipendenti dalla struttura in legno, consolidandole mediante soffiatura e pulizia degli interstizi e iniezioni in profondità di malta di calce a granulometria finissima. E’ inoltre prevista la costruzione di drenaggio perimetrale per lo smaltimento delle acque meteoriche e, se necessario, il taglio delle piante ad alto fusto.
Il progetto, pensato soprattutto in chiave turistica, si integra nel più ampio disegno tracciato dalla Comunità Montana per valorizzare i punti della valle che hanno assunto importanza sia storica che naturistica. Un disegno che non deve far dimenticare l’inesorabile crollo che sta investendo le baite ancora presenti, in un inarrestabile disgregarsi delle murature e delle coperture. Lo
spopolamento delle valli ha infatti costituito il primo passo verso la rottura di un equilibrio che permetteva di tenere insieme la catena fatta di tradizioni, agricoltura, pastorizia e natura in genere. L’abbandono delle radici ha chiuso in una sorta di oblio intere parti di vita, inducendo il crollo di valori condivisi quali la solidarietà, e lasciando morire pian piano corrispondenti parti di territorio.
Il recupero della Borgata Paralup è anche per questo un progetto pilota, inteso a dar concretezza a una concezione di borgata alpina che vada incontro alle nuove abitudini del vivere quotidiano e che sia un modo per dar voce al nostro patrimonio storico-architettonico, così fragile e così poco tutelato.
Valeria Cottino-architetto, del gruppo di progettazione di Paralup con Daniele Regis, Dario Castellino e Giovanni Barberis
Un luogo di speranza aspettando un nuovo 8 settembre
Non ero mai stato a Cuneo. Ma
le sue montagne le avevo conosciute, una parte s’intende, dieci anni fa. Quelle che fanno da cornice alla Valle Gesso, con i piccoli centri di Valdieri, Sant’Anna di Valdieri e Valdieri Terme. A poche ore di cammino dal Rifugio Livio Bianco, dove all’interno si può leggere l’epigrafe di Piero Calamandrei dedicata appunto al comandante partigiano di Giustizia e  Libertà. E a pochi chilometri dalla Madonna del Colletto, dove il 12 settembre del 1943 si radunò, nella piccola canonica, un gruppo di  antifascisti cuneesi che diede vita alla formazione partigiana "Italia Libera", guidata da Duccio Galimberti e composta, tra gli altri, da Dante Livio Bianco, Dado Soria, Ugo Rapisarda, Pino Vento, Aldo Sacchetti. Ben presto quel luogo si dimostrò difficilmente  difendibile dagli attacchi nazisti e dunque l’intero gruppo si trasferì a Paralup, una borgata di montagna situata ad oltre 1300 metri di altezza nel comune di Rittana, dove si unì anche Nuto Revelli. Ed è proprio Paralup il motivo del mio viaggio nel cuneese. Nel 2007 la Fondazione Nuto Revelli decise di ristrutturare quel gruppo di case di montagna abbandonate da circa sessant’anni e una parte del progetto è stata già realizzata. L’inverno ormai è finito e dunque decido che è arrivato il momento di visitare questo borgo, altrimenti innevatissimo e difficilmente raggiungibile. Prima tappa, una volta arrivato in stazione, sono gli uffici della Fondazione. Che poi è la  casa dello stesso Nuto, dove sopravvivono libri, fotografie, mobili, oggetti, accanto a computer e faldoni necessari per il lavoro del centro. Per telefono chiedo a Chiara Gribaudo, giovane responsabile  operativa della Fondazione ed esponente dell’Anpi, come arrivare nella loro sede: «Non è  difficile - dice - sempre dritto dalla stazione e poi sopra di noi ci sono le bandiere della Lega nord, che ha proprio gli uffici nello stesso edificio.» Sotto quei simboli non proprio confortanti, fa bella mostra di sé una bandiera della pace, ma sia le dimensioni che i colori sbiaditi del vessillo sembrano quasi dimostrare che per chi crede ancora a quelle cose non corrono bei tempi. E infatti il  giorno del mio arrivo a Cuneo è proprio quello successivo alla tornata elettorale che ha visto in Piemonte la vittoria del leghista Cota. Tant’è. Consoliamoci con la memoria e comunque con la  convinzione che ha ancora un senso fare ed impegnarsi in una certa direzione. Il giorno dopo ci organizziamo, anche con delle ciaspole, e arriviamo dopo circa mezz’ora di viaggio a Paralup. Oltre a Chiara, mi accompagna Luigi Schiffer, settant’anni, del Consiglio di amministrazione della Fondazione e una giovanissima Rebecca Ghio, del direttivo di Mai tardi - Associazione amici di Nuto. Il cammino è breve. Dopo una salita dolce, fra alberi che ancora portano i segni di un inverno rigido e tanta neve soprattutto sulle cime, presto si cominciano a vedere le prime casette. Alcune ristrutturate, altre con i lavori ancora in corso, destinate a diventare una spazio culturale, di ristoro e alloggio, tra memoria e godimento di uno scenario naturale che porta ancora i segni intangibili della Storia. Non mancherà un anfiteatro naturale adattato ad ospitare concerti e spettacoli di vario genere. Spopolate da tempo, quelle case potranno così conoscere una vita nuova, dopo aver conosciuto la guerra, la Resistenza armata e la povertà, descritta quest’ultima tanto bene da Nuto Revelli nell’introduzione a Il  Mondo dei vinti : «Le baite di Paralup erano più povere delle isbe, quattro muri a secco, la porta così bassa che obbligava all’inchino, una crosta di ghiaccio per tetto. Il vento, passando, lasciava nelle baite l’odore della neve... Era questo l’ambiente dal quale avevano strappato i miei alpini di Russia, queste le baite che  gli alpini cercavano nei lunghi giorni della disperazione.» Rebecca  ci scatta una foto. Io, Chiara e Luigi insieme, tre generazioni unite  da un interesse comune, un segno di speranza in un contesto che a volte appare disarmante. Quando torniamo in Corso Carlo Brunet 1, dove ha sede la Fondazione, troviamo Michele Calandri, direttore dell’Istituto della Resistenza di Cuneo che mi racconta un po’ la storia degli uomini di Paralup, da quando, provenienti appunto dalla Madonna del Colletto, decisero il 21 settembre del 1943 di «prendere sede nelle 7 baite della borgata, alla estremità del comune di Rittana, 1361 metri di altitudine, a cavallo tra valli Stura e Grana.» Lo studioso si sofferma sulle caratteristiche di quel gruppo: «Un nucleo ristretto di borghesi, non di militari, di volontari, non di gente richiamata con la cartolina precetto, alcuni anche di classi di età non proprio giovanili, decide di fare la guerra che i militari felloni si rifiutano di fare, e non per conquistare territori, o aggredire altri popoli, ma per liberare il proprio Paese.» Calandri vuole ricordare le parole di Norberto Bobbio sulla guerriglia di "Italia Libera". La loro - scrisse il filosofo torinese - «è una guerra democratica, in duplice senso, in quanto è democratico il suo metodo (non gerarchia, non comandi che non si discutano, non galloni né gradi) ed è democratico il suo fine ultimo, l’abbattimento della dittatura e l’instaurazione di un regime fondato sulla partecipazione popolare al potere». Recuperare Paralup serve proprio a ricordare tutto questo, anche se le parole di Bobbio sembrano lontane anni luce dai problemi che attanagliano adesso l’Italia. Serve anche a promuovere, come dice il direttore dell’Istituto della Resistenza, «attività che possano favorire lo sviluppo locale e fare da pilota per altre montagne». Lo storico ricorda ancora che la condizione di quel gruppetto di case non è molto diversa da allora, da come la raccontava appunto Nuto Revelli. Ed è forse proprio questo il vantaggio: «Ancora oggi Paralup è una zona isolata, povera e, in questo caso, non dobbiamo rammaricarcene. Il recupero odierno di Paralup - sottolinea Calandri - mi sembra partire dalle stesse esigenze di allora: disporre di un luogo povero nel silenzio, un "monastero" di metidazione, un luogo di preparazione - in mezzo a tanto smarrimento e confusione di democrazia ed ideali - per pensare al domani. Paralup sarà ancora l’avvenire, dopo il crollo di questa Italia sbagliata, razzista, delle ingiustizie, delle disuguaglianze di oggi, come lo fu dopo il crollo dell’8 settembre? Saranno ancora dei borghesi, dei non addetti ai lavori, dei semplici cittadini, dei cives a prendere l’iniziativa, come è successo alcune volte nei momenti più drammatici della storia del nostro Paese, nauseati dello stato presente delle cose?»
Lascio Cuneo e gli amici della Fondazione Nuto Revelli con questi interrogativi drammatici dentro il cuore, ma con la certezza che solo da quei pezzi di società civile rimasti in una qualche misura legati ai valori di quegli uomini di "Italia libera" possa rinascere qualcosa. Da quei comitati no-tav che non vogliono
che il loro territorio venga deturpato per fare spazio a mega-progetti; da quelle realtà che si battono contro la privatizzazione dell’acqua; da quei lavoratori che occupano l’Asinara per impedire che il loro lavoro venga svilito e messo in vendita al miglior offerente; da quella donna cattolica che ha rivendicato il diritto a prendere la pillola Ru486; da chi appunto ha deciso di ridare vita e visibilità ad un gruppo di case di montagne, alloggio e conforto di chi contibuì, oltre sessant’anni fa, pagando anche con la vita alla costruzione di una democrazia ora così offesa e calpestata. Vittorio Bonanni